11 Maggio 2022

Intorno alla vergognosa pratica dell’autorecensione

«A me non interessava soltanto scrivere un bel racconto, bensì scoprire una nuova via, ritrovare la vena sperimentale de Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino (correva l’anno 1969). Pensavo pensieri ambiziosi e cercavo l’impossibile: me lo potevo permettere, ero giovane. Era l’estate del 2005, vivevo a Pisa in un loft circondato su due lati da una grande terrazza, una specie di casa sull’albero. Lì, nei mesi precedenti avevo cominciato a scrivere una serie di racconti brevi tutti ossessivamente incentrati sulle coppie e sulle loro case, per la prima volta sentendo di aver fatto mia la lezione di Guy de Maupassant (per la velocità) e Raymond Carver (per l’economia degli elementi). La domanda da cui partivo era semplice: “Quanto posso togliere ancora prima di mandare tutto in vacca?”». (Luca Ricci su “l’Indiependente”, 15 dicembre 2020)

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Dopo le considerazioni che abbiamo fatto sul degrado del recensionismo letterario nostrano e sulle sue derive (che rischiano di ammalare definitivamente il sistema mediatico-editoriale), dobbiamo tornare sull’argomento perché ci è stato segnalato che, in aggiunta alle recensioni filo-autoriali, a quelle magnificanti e a quelle conniventi da noi classificate, esiste un nuovo tipo di recensione di cui non abbiamo ancora parlato, che sarebbe il frutto finale di questa lunga crisi: l’auto-recensione, dove è l’autore stesso a qualificarsi e a giudicarsi in modo unilaterale, accampando le proprie doti e avvantaggiandosene a priori, come se volesse risparmiare la fatica a chi dovrebbe valutare criticamente le sue opere.

La nostra ipotesi di classificazione era un’imbastitura, un punto di partenza suscettibile di sviluppi e integrazioni: ben venga, dunque, la segnalazione ricevuta e posta in epigrafe, che passiamo subito a sviluppare. Qui, l’autore – ancora quello preso a campione la volta precedente  – viene così presentato in questo “Magazine di cultura e musica dall’animo libertario”: “È da poco uscita per La Nave di Teseo la nuova edizione della raccolta di racconti di Luca Ricci, L’amore e altre forme d’odio, in una versione arricchita da cinque racconti. (…) Vi lasciamo godere questa lettura su cosa muove lo scrittore di racconti, e cosa va cercando la scrittura: nuove vie, l’impossibile. È così che un giovane cuore mantiene vivo il furore di raccontare”. Fatta questa introduzione, si dà carta bianca all’autore, il quale non trova di meglio che attribuirsi le ascendenze più alte, Italo Calvino, Guy de Maupassant e Raymond Carver sopra tutti, affermando di “aver fatto sua” la loro lezione, suggerendo quindi di ritenersi il rappresentante del loro lascito, come se dall’aldilà ne avesse ricevuto l’incarico. “Godendoci” questa lettura, abbiamo potuto riconoscere i segni evidenti della cosiddetta auto-recensione incensante, una sorta di delirio onanistico nella forma più ingenua che si possa immaginare.

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Ma al di là di questa pratica svergognata che si va diffondendo, segno pessimo del degrado dei tempi, la domanda che ci si pone è più sostanziale: come si può essere arrivati a tanto, a una tale mancanza di coscienza critica e culturale, a una simile svalutazione del comportamento etico, a questa specie di vuoto delle idee a cui molti sembrano assuefarsi? Quale fu l’inizio, chi scagliò il sasso per primo, chi ne permise lo sciagurato sdoganamento? Il precedente a cui possiamo risalire, che aprì la via verso i guasti che vediamo oggi, esiste: correva l’anno 2009, quando il collettivo bolognese Wu Ming – che si definiva una band di scrittori – decise di mettersi a teorizzare le proprie opere e di scriverci sopra un vero e proprio saggio, in cui si costruiva un canone letterario a propria misura, definito “nuova epica italiana”, assumendo così il ruolo di critico di se stesso, prendendosi talmente sul serio da non avvertire il senso di ridicolo di una simile operazione. Fu un tentativo di corto-circuito ambizioso nelle intenzioni, ma fallimentare nell’esito: una messa in scena che puntava a gabbare l’intero parterre di critici letterari e una buona fetta di lettori, sfruttando i forti appoggi del proprio editore e la rete di blog interconnessi di scrittori e giornalisti amici, i cui interscambi, a volte frenetici, davano l’illusione di un movimento vero, mentre in realtà non era che l’incrociarsi di dialoghi e confronti fra poche persone all’interno di una bolla infinitesima, totalmente autoreferenziale, specie se paragonata a quelle planetarie dei social network di oggi.

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Dunque, proviamo a capirne la dinamica. Un autore – benché collettivo, generalmente rappresentato dal frontman Roberto Bui (sedicente Wu Ming1) – decide un giorno di tracciare i moventi, i lineamenti, le caratteristiche della propria narrativa, dandone precise definizioni canoniche e teorizzando il tutto in un saggio intitolato New Italian Epic, edito nel 2009 da Einaudi. Qui l’autore si assegna il ruolo di guida al rinnovamento letterario e culturale dell’intera narrativa italiana: “Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro” è lo slogan. Già così, l’operazione appariva una bufala, una vera presa per i fondelli appena mascherata, portata avanti con la proterva sicumera di chi vive in uno stato di esaltazione – alimentato da giornalisti compiacenti e dal fiuto affaristico dell’editore – che impedisce la corretta visione del reale. Ma, entrando nel merito, vediamo che questa narrativa “canonizzata” rispondeva a una serie di requisiti precisi quanto fumosi, così descritti da Wu Ming1 in una discussione in Rete: 1) la diversa tonalità emotiva rispetto al postmoderno; 2) l’equilibrio tra complessità narrativa e fruibilità; 3) l’esplorazione di punti di vista “obliqui” e inconsueti; il “sovraccarico” dell’io narrante alla “media algebrica” del punto di vista di moltitudini fino alla trasformazione del “discorso libero indiretto” nella simulazione dello “sguardo” di luoghi, oggetti inanimati e addirittura flussi immateriali; 4) “Ucronia potenziale”, ovvero anche dove il “what if” non è esplicito c’è comunque un interrogativo su “cosa sarebbe successo se”, anche isolando un momento in cui diversi sviluppi fossero possibili; 5) la libertà (udite udite) di parlare non soltanto di Italia, di italiani e della storia nazionale, ma di ambientare le proprie storie ovunque; 6) la sperimentazione dissimulata come “cucitura invisibile” nel linguaggio e nello stile; 7) la disponibilità ad andare oltre l’ormai banale “contaminazione dei generi”, che riconosce lo statuto di questi ultimi, per costruire oggetti narrativi non identificati; 8) la tendenza a uscire dalla forma-libro, con narrazioni che diventano partecipate e/o transmediali, ossia proseguono su diverse piattaforme, con diversi linguaggi, con l’apporto di più persone.

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Bene, ora chiamiamo un ingegnere per districare la complessità di certi passaggi, che a noi menti semplici crea qualche imbarazzo. Nell’attesa, cerchiamo comunque d’inquadrare l’insieme per ricavarne qualcosa. Cos’è la “diversa tonalità emotiva rispetto al postmoderno”? Cosa sarebbero i “punti di vista obliqui”, e cosa s’intende per “sovraccarico dell’io narrante alla media algebrica del punto di vista di moltitudini fino alla trasformazione del discorso libero indiretto nella simulazione dello sguardo di luoghi, oggetti inanimati e addirittura flussi immateriali”? E l’ucronia potenziale cosa potrebbe mai essere, se non tutto ciò che accompagna la nostra vita quotidiana, visto che per ogni atto che si compie ne esiste almeno uno alternativo incompiuto, che potrebbe portare ad altri esiti? Sulla “libertà” di ambientare le storie non solo in Italia ma ovunque, poi, non c’è nulla da dire: è una facoltà aperta a tutti, dunque non riusciamo a capire il senso della previsione canonica.

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All’epoca, mentre le pagine culturali di certi giornali (con l’ovvio intento di riempire le colonne) vezzeggiavano ammirate la prodezza del rude Wu Ming, la critica vera non si fece ingannare da questo spudorato self-essay, il saggio dello scrittore che si confeziona la critica da sé, e ne riconobbe subito la pretestuosità semi-delirante. Fra tutti, fu molto diretta Carla Benedetti, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Pisa, che in un articolo apparso su “L’espresso” del 12 marzo 2009 chiarì subito l’incongruenza del termine “epico” – sfruttato da Wu Ming come strumento per superare l’egemonia degli scrittori “finzionari” – col reale panorama letterario di quegli anni: “Ma la delusione più grande è scoprire, dietro l’apparenza di un manifesto teorico, il volto repressivo del canone. Perché è questo che ci viene proposto: un canone, con tanto di requisiti che un libro deve possedere per rientrarvi. Un canone piccolo, data l’asportazione di tante opere notevoli, e per di più su misura, tarato sul tipo di libri che scrivono i Wu Ming stessi. Un grappolo di quattro opere, due loro, una di Giancarlo De Cataldo e una di Evangelisti ne formano il cuore. Poi l’occhio si muove intorno a scoprire libri analoghi di Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Andrea Camilleri e altri scrittori che hanno praticato la genre fiction per ‘andare oltre’”.

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Dunque, eravamo alle solite: un canone creato per accogliere se stessi e gli scrittori amici, con uno sguardo – quello sì, obliquo – che salta a piè pari un’intera produzione letteraria alternativa carica d’impegno inventivo, di ricerca stilistica, di lavoro in cui si crede. Con le classiche furberie di chi pensa di saperla lunga e finge di non puntare al mercato. Prosegue la Benedetti:

“Infine vengono gli ‘oggetti narrativi non identificati’ che a questo punto si rivelano una furbizia tassonomica: una categoria ombrello dove prendere dentro quando è il caso anche un po’ del restante – e il caso c’è quando si tratta di libri che possono portare prestigio al catalogo, come Gomorra di Saviano. Eppure Gomorra, altro libro straordinario di questi anni, la cui forza sta anche nel non essere un ‘romanzo criminale’ alla De Cataldo, non ha forzato il noir, l’ha proprio scartato, instaurando col lettore un patto inusuale che nessuno dei libri canonizzati condivide. Uno dei sette requisiti della nuova epica secondo gli autori è la sperimentazione ‘dissimulata’ di linguaggio e stile: se c’è, il lettore non la deve percepire. Che strana limitazione. Allora Melville come avrebbe fatto a scrivere quel grande romanzo epico che è Moby Dick, o Céline la Trilogia del Nord? Forse ai Wu Ming preme scongiurare il virtuosismo verbale esibito e cervellotico di stampo avanguardista. Ma così reprimono anche il momento eversivo dell’invenzione di una forma, quello che sfonda cliché espressivi e di pensiero. In realtà questa restrizione di libertà risponde a un’esigenza legittima ma tutta interna a un certo tipo di fiction, dove di solito la sperimentazione si spinge di più sul piano del plot che non sulla forza della scrittura. Ma perché porre questo freno alla nuova epica? Tanto più che con questa limitazione i Wu Ming si trovano in buona sintonia con le forme di scrittura già selezionate dalla logica di mercato, con le esigenze interne alla caterva di romanzi storici e saghe che l’industria internazionale del libro già propone. Non è allora la ‘illeggibilità’ delle avanguardie che qui viene calmierata, ma la possibilità di un rapporto libero profondo e totale con la scrittura. Così alla fine cosa resta dell’epica e della grandiosa apertura che il nome promette? Solo il fascino di un’etichetta. Come dicono i manuali di marketing, un nuovo brand deve attirare l’attenzione, suggerire i benefici del prodotto, distinguere il suo posizionamento rispetto alla concorrenza, essere facile da ricordare, facile da tradurre (e questo è già tradotto). Certo tutti i manifesti d’avanguardia finivano per creare etichette, che in certi casi hanno potuto essere usate come dei marchi (lo si vede già con i futuristi). Ma i manifesti d’avanguardia erano proiettivi, non retrospettivi, avanzavano tendenze non liste di opere, e soprattutto erano in guerra con l’esistente. Qui invece si fa uno sforzo teorico per rendere più appealing ciò che già esiste ed è egemone”.

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Non si potrebbe essere più chiari. Visto a distanza di anni, un simile delirio di onnipotenza risulta grottesco, inattuabile, frutto di visioni distorte e vaneggianti: eppure accadde. Fu lì che venne abbattuta la barriera fra il sensato e l’insensato, fra l’intellettualmente lecito e l’assurdo, fra l’etico e l’immorale nel rapporto dell’autore con l’opera e con il pubblico. Un tentativo, coperto da accorte fumisterie, di rovesciare le logiche a proprio uso, dove lo scrittore si sostituisce al critico per valutare e canonizzare se stesso, garantendosi così il futuro: il self-essay, l’apripista che ha portato al paradosso odierno dello scrittorino che si auto-recensisce, dichiarandosi erede di Italo Calvino, di Guy de Maupassant e Raymond Carver, senza rendersi conto di quanto ciò sia ridicolo. Una velleità che venne presto sopraffatta dall’irrompere dei social network: Facebook, Twitter, Instagram che si sono via via intrecciati in una specie di vortice che ha destabilizzato tutto, filoni e contro-filoni pseudoletterari, canoni e contro-canoni, sfilacciando concetti come quello di “epica” e ri-fabbricandoli arbitrariamente, in quella smania etichettatrice che, avendo perso i riferimenti culturali, sembra annaspare in un vuoto dove tutto può esistere e non esistere, per essere altro. Gli effetti di tutto questo non sono estranei nemmeno allo svilupparsi di quella nemesi che è diventata la cosiddetta post-verità, il delirio mistificatorio che tanti danni e distruzione sta provocando in politica, nella comunicazione, nella società, fino ai violenti rivolgimenti mondiali a cui stiamo assistendo. Che il Cielo ci salvi.

Paolo Ferrucci

 

Gruppo MAGOG