Simone Cattaneo fa cinquant’anni il 4 febbraio.
Ogni anno, ai primi di febbraio, mi scriveva una cartolina, mi faceva un regalo. Una delle ultime è una cartolina della Tuborg, l’ha presa in un pub di Milano. Mi chiamava “The Genius”, si firmava “Il tuo fratellone”. In questa cartolina – che conservo nella Bibbia valdese di mio padre, a cura di Giovanni Luzzi – Simone mi scrive: “Pensandoci bene è sempre tempo per un paio di birre del cazzo!”.
Sono nato cinque anni e quattro giorni dopo Simone. Sei nato il giorno di Hristo Stoičkov, mi diceva. Gli piaceva, il bulgaro: talento, irascibilità, scaltrezza. Preferiva Dejan Stanković, comunque, i calciatori che avrebbero potuto tutto ma hanno raccolto poco, per un insano istinto all’autodistruzione – figli del ‘bel gesto’ prima che del calcolo. Condivideva la passione per l’Inter – io stavo sulla sponda opposta – con Riccardo Ielmini. “Una volta mi aveva tenuto un monologo sugli slavi: razza calcistica superiore, perfetta: bastardi coi piedi buoni da sudamericani e testa dura e cattiva, aveva detto”, ha scritto Riccardo, in un testo molto bello, Simone, Dejan Stankovic, Walter Zenga (e anch’io).
Un giorno, per il nostro compleanno, ci ha regalato un concerto di Lou Reed, il suo idolo, in prima fila – in prima fila, rifilava, voce tellurica, felice come un bimbo –, a Milano. Dopo il concerto, quel giorno, è rimasto a dormire da me: occupavo la casa dei miei nonni, che svernavano al mare.
È morto prima lui di Shane MacGowan, il suo altro idolo. Gli idoli di Simone, io, autistico al mondo, non li capivo. Diceva che saremmo diventati vecchi, che avrebbe inacidito la nostra connaturata infelicità portandomi ai Caraibi. Gli parlavo di Derek Walcott, andiamo a Santa Lucia? Lui mi diceva di Denis Johnson, avrebbe voluto tradurre le sue poesie – lo farò per lui. Per lui la solarità era carnale: alto, ruvido, col giubbotto di pelle, piaceva alle donne.
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I ricordi sono diventati come le tsantsa, le teste microscopiche fabbricate dai nativi dell’Amazzonia. Simone rimpicciolito, Simone porta-chiavi, Simone sempre nella mia tasca destra. Simone sul comodino. Simone sul cuscino. Simone nel piatto in cui mangio. Simone-pupazzo, Simone-amuleto, Simone-santino. Simone-ex-voto.
Ma i ricordi li devi conservare sotto strati di garza, lasciarli lì, come le spade – e lucidarli, nella cantina, distinguendo bagliore da abbaglio, da solo. Altrimenti, come ci difenderemo quando verrà il giorno?
È brutto morire senza avere Simone al fianco: sapeva chi ero, entrava nel cuore degli altri dal lato debole, dalla finestra socchiusa, senza fare rumore. Poi te lo trovavi lì, seduto, in sala. Aveva premure da innamorato: preparava la cena, stappava la bottiglia. Scherzava anche quando c’era poco da scherzare.
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Tutto merito della cucciolata tirata su in un luogo improbabile, tra i laghi e il niente, da Marco Merlin. Uccelli rari, gente disadatta, uno zoo di ragazzi resi alle più diverse ambizioni e coercizioni. Marco, geniale ornitologo della poesia – odorava il talento e ti chiamava alla mischia. Riconosceva, soprattutto, le voci diverse dalle sue, le voci marziane, i condor di insondate Ande. La sua curiosità, famelica, faceva paura – ti assaliva, ti dissanguava.
Dell’ultima telefonata di Simone, ricordo una piscina, vasta come un prato, il cielo azzurro di Riccione, vittima della sua falsità, puoi bucarlo, pare di cartone. Mio figlio doveva compiere sei anni, nuotava. Simone mi diceva qualcosa di lontano su “giovani ragazze e le loro mamme”. Avevo appena accettato un incarico – passato dall’oro al disastro – come preside di un Liceo linguistico. Mi chiamava “fratellino”.
Per un periodo, Simone è stato tutta la mia famiglia – “Atelier” la sola sfilza di parenti: gli eredi, gli avi, i traditori – Merlin il patriarca.
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Non so perché mi avesse attirato a sé, Simone. Forse riconosceva lo stigma dell’estraneo, dello straniato. Nel paese in cui sono cresciuto, alla periferia di Torino, non c’era una libreria, se avessi detto ai miei compagni di calcio che scrivevo poesie mi avrebbero dato del “frocetto”. Uno di questi l’ho rivisto da poco – in verità, lo ha visto il mio solo amico, che fa il medico. Si chiama anche lui Simone: era un centrocampista dal talento micidiale; a sedici anni, durante una partita, s’incazza, va verso l’arbitro, gli spacca il naso. Due anni di squalifica. Aveva appena segnato un gol memorabile, da metà campo, pallonetto da astronomo.
Per otto anni, Simone Cattaneo è stato il mio confidente, la mia guardia del corpo, il mio sodale, il solo che leggeva i miei libri. È stato ovunque nella mia vita di allora – e ovunque, principesco. La sua eleganza: brutale. La sua cultura: selvaggia. Mi ha fatto conoscere Delmore Schwartz e Jim Carroll, un giorno mi ha regalato la videocassetta di Donnie Brasco, il film di Mike Newell con Al Pacino e Johnny Depp; un giorno è venuto con Scarface. Ah, certo, Brian De Palma… L’originale, fratellino, mi fa lui, e tira fuori dal giaccone lo Scarface del 1932, diretto da Howard Hawks, con Paul Muni.
Una volta, mi ha letto una poesia di Paul Muldoon, Il vento e l’albero, che attacca così: “Come la gran parte del vento/ accade là dove ci sono alberi,/ così la gran parte del mondo è centrato/ su noi stessi”. Nel 2008 Mondadori aveva pubblicato una raccolta di Poesie di Muldoon, a cura di Luca Guarnieri: comprai il libro, non mi appassionò troppo. Secondo un’efficace intuizione di Flavio Santi – uno che ne battezza tanti e ne santifica pochissimi – “Cattaneo è il nostro Armitage”. Perfezionò l’assunto in un articolo strepitoso, pubblicato su “Ore piccole” nel luglio del 2008:
“Strana la carriera del poeta. Strana soprattutto in Italia. Prendete ad esempio uno come Simone Cattaneo. In Inghilterra o in America sarebbe una star, un poeta conteso da reading e salotti buoni, programmi tivù e seminari universitari. Che è quello che succede ai suoi colleghi Armitage – con cui condivide fra l’altro lo stesso nome –, Paul Muldoon e soci. Quello che voglio dire è che Cattaneo fa una poesia al vetriolo, tra il sociale e il vuoto per dirla con i Baustelle, amatissima all’estero. Cattaneo è il nostro Armitage (per dimostrare questa tesi una volta ho fatto uno scherzo tremendo a un critico: gli ho passato un gruzzolo di poesie di Cattaneo spacciandole per primizie di Armitage. Non vi dico l’entusiasmo dell’illustre studioso per quegli “inediti”…). C’è un piccolo problema (tale in Italia, no di certo all’estero): Cattaneo è come la sua poesia, franco e schietto, non fa la corte a nessun potente di turno, critico e poeta, lui pensa a vivere e a scrivere. Ma nel nostro bel paese questo significa una sola cosa: isolarsi”.
A Simone spazientiva, del trito reame poetico italiano, il labirinto di specchi, la falange dei portaborse e dei lacchè, l’autorevolezza della viltà, l’impossibilità di lottare ad armi pari, secondo i propri meriti. Su questo, eravamo disillusi un po’ tutti, già venticinque anni fa: proprio per questo Merlin aveva fondato la ‘collezione di poesia’ “Parsifal”, dove Simone aveva esordito con un libro spartiacque, Nome e soprannome. Di quel libro – e del talento di Simone – non si sono accorti soltanto lettori del sottosuolo, come noi della banda: ricordo una bella pagina di Roberto Roversi (“verrebbe voglia di cantarli, questi versi; o almeno di recitarli ritmicamente”), un bel pezzo di Stefano Raimondi su “Pulp” (“Gli occhi di Buster Keaton, la violenza dello splatter, l’intimità esistenziale di Montale e la chirurgia psico-linguistica di Benn sembrano modellare lo spessore di questi versi composti da parole-fendenti, tese e, allo stesso tempo, coinvolgenti e calde”), un articolo di Daniele Piccini su “Famiglia Cristiana” (“Il libro di Simone Cattaneo è un pugno allo stomaco… il grido di allarme di una generazione”), che però si riferiva al secondo libro di Simone, Made in Italy, pubblicato sempre in seno ad “Atelier”, nel 2008. Ne scrisse, su “La Stampa”, pure Maurizio Cucchi – pur da maestrino con il goniometro e la squadra, “Simone Cattaneo mostra una personalità già molto decisa…” – ma per Simone restare nel paddock di “Atelier” era una specie di sconfitta.
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In un libro di tanto tempo fa, La stella polare, tentai di riferire il lignaggio lirico di Simone Cattaneo. Vedevo i suoi lari, anzitutto, nel Principe di Machiavelli (“Il più grande romanzo della letteratura italiana”, copy Cattaneo) e in Quaderni di Voronež di Osip Mandel’štam – l’edizione Mondadori del 1995 era il suo libro ‘di culto’ – che avevano proliferato, per assurdo incrocio, una serie di figli cadetti e cugini minori: in diverso modo, nelle poesie di Simone sono presenti i film di Martin Scorsese (Toro scatenato, Taxi Driver, Quei bravi ragazzi) e le canzoni di Lou Reed, Jesus’ Son di Denis Johnson e Il cattivo tenente di Abel Ferrara, Patty Smith e i fratelli Dardenne.
Alcuni preferivano il primo Cattaneo, quello delle liriche litiche, lavorate come selci, come monili primordiali, questa, ad esempio:
“Se perdessi la carità luminosa
delle notizie marcate
se la pioggia fosse
l’unico testimone della
magia d’ogni cosa
berresti quest’acqua morta?
Una penna celeste
sopra il cappello strizza
saggia le grinze dell’aria
senza rendersi conto
di quanto si sia celebrata
di quanto alta sia la mia fronte
attraversata a mezzogiorno
dai fossi della finestra”.
Altri preferivano il Simone degli sketch narrativi, brutali, intrisi di nera ironia, precisi come un fermoimmagine:
“Arrivano stranieri bramosi di niente dagli altri continenti,
mi auguro non si integrino ma sgozzino i nostri ragazzi,
violentino le nostre donne chiuse in chiese, palestre e discoteche,
mi ammazzino per primo sarà un piacere, basta sorrisi avvizziti
al gin, sconfinamenti nei campi magnetici, non mi interessa se
la statica si equivalga alla dinamica, è giunta l’ora che i
rottami privi di sesso dai dialetti strani: albanesi, criminali o
calabresi brucino questa nuova Milano di Averna e cambiali, nessuna
visione metaprospettica, vivono in macchine abbandonate in balìa
del gelo, torce di immondizia, corpi vivi ma già in avanzato stato
di decomposizione. Milano ti amo dalla ’ndrangheta al Cenacolo Vinciano
ma sentire una vecchia canzone alla radio e poi ringiovanire
di dieci anni non serve a nulla, è un saldo di fine stagione
dieci Tavor da un ml e due litri di vino bianco non fanno più la
differenza è solo un vapore che ti assale alle spalle:
è un verde chiaro lo sfondo di questo giorno”.
Un giorno, Simone mi legge una poesia al telefono. Vuole farmi un omaggio. Avevo da poco pubblicato un libro intitolato L’era del ferro: la nostra ricerca si è sempre mossa in direzioni distanti, spesso opposte – forse, ci segnava una stessa disciplina. Lui mi capiva. La poesia è questa:
“Con quegli uncini puliti e curati crea una tempesta già consumata
da mille glaucomi schiacciati di inerzia per cauterizzare la visione
di due cosce squarciate senza alcuna ragione.
Gusci di uomini febbricitanti trasportano crani rampicanti
dove il flusso dei preservativi batte sulla pioggia
come uno stiletto liquefatto.
Portare un asciugamano lercio intorno alla vita prima dell’alba
non può sconfiggere alcun pronostico.
Qualcosa succederà, questa è l’era del ferro”.
Nelle poesie di Simone c’è spesso la pioggia – forse le poesie non sono che questo: acqua. E devi aprire le mani, e devi sorseggiare – e devi onorare l’acquazzone con tutto te stesso. Forse voleva liquefarsi.
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Oggi Simone Cattaneo, nei luoghi opposti ai principi dominanti, è quasi un dio. Chi lo ha conosciuto in carne e ossa è geloso a chili che di un uomo si faccia idolo di bronzo, scempio idolatrico. Ma è così, è ovvio: Simone è la nostra giovinezza per sempre, perciò un sempiterno monito. La morte di Simone, un estuario e un lascito, ci ha rimessi nel ventre, ci ha rifatto feti, impedendoci di crescere. Simone ci ha salvato la vita.
Di recente, Fabrizio Testa ha coordinato un podcast su “Simone Cattaneo. L’ultimo poeta metropolitano”, in una serie, “The Outsider”, che ha raccontato finora le vite di Dante Arfelli, Sergio Quinzio, Dante Virgili. La rivista spagnola “Replicante”, l’anno scorso, ha scritto che “Simone Cattaneo è stato un salvatore della poesia moderna. Non ha soltanto spalancato uno spazio di rottura nel canone italiano, ancora legato ai caratteri accademici della tradizione orfica, simbolista, oscura e dalla tendenza formale, ma ha lasciato in eredità un universo di possibilità poetiche, pur restando quasi completamente sconosciuto fuori dall’area mediterranea” (Isai Cabrera González). Tra l’altro, hanno tradotto questa poesia:
“Non so se discutere di transazioni politiche o di ballerine
dalle teste bollite, Allah è proprio una merda, il santo padre
è un maiale che adora una scimmia crocifissa, maometto è
un impotente, gesù andava a troie, si è sposato con la Maddalena
e se ne sono scappati in Australia. Sulla mitria del papa è
disegnata una svastica, sgozziamolo il maiale, i musulmani si inculano
le capre e poi vanno tutti contenti nelle loro moschee del cazzo,
imam sono analfabeti e non vestono Prada né Cavalli, i preti
sono pedofili pompinari. Le guerre sono causate sempre da quei
bastardi giudei. Gli ebrei vanno sterminati, l’olocausto è una menzogna
sionista, le lobby ebraiche governano il mondo.
Ma il 9 luglio 2006 l’Italia è diventata per la quarta volta
nella sua storia Campione del Mondo di calcio. Basta e avanza”.
Non credo che Simone sia inimitabile per il linguaggio spaccone, che rovescia l’aggressione in attrazione, l’offesa in sentenza, né per la virilità verbale, apparentemente antilirica. Credo sia inimitabile per una specie di compassione tesa fino all’impossibile, fino allo spasmo, fino a svenare l’ultima strettoia di vita, l’ultimo braccio esangue. Soltanto un talento illecito, senza giogo al cuore, può scrivere una poesia come questa:
“A fine agosto il tuono morde i lampi prima che piova e
il cielo sembra sempre avere bisogno di un’autopsia,
cammino sulla strada crivellata di buche come fosse
un costoso tappeto cinese, la neve gialla è ancora lontana,
la luce pare un caleidoscopio difettoso ed io vado
dove i ragazzi hanno denti d’oro larghi come gonne a fiori
e nessuno mi potrà più servire da bere vino tagliato con il solfato di rame.
Ormai è un furto ogni prospettiva di fuga”.
Oggi, mi dicono – me lo dice Giorgio Anelli, che a Simone ha dedicato un libro, Simone Cattaneo. De culto et orfico (2019) –, all’opera di Simone dedicano tesi di laurea.
L’opera di Simone è finora raccolta in due volumi: Peace & Love, la raccolta complessiva edita da Il Ponte del Sale nel 2012 (e costantemente ristampata), e nel numero monografico di “Atelier” (Numero 67, Anno XVII, Settembre 2012) a lui dedicato, “La fine dell’opera comune”.
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Una volta, a Firenze, c’era un importante convegno organizzato da “Atelier”. Dopo un po’, insieme a Simone, mollo l’ascolto, vaghiamo per la città. Simone – come fa lui, d’impeto – entra in un negozio di roba varia, variopinta. Esce, felice, con la locandina de Il cacciatore, uno dei suoi film prediletti. Robert De Niro, benda rossa, pistola alla tempia. Me la regala. Di Michael Cimino gli piaceva – come sempre – la caduta, il genio che si schianta contro insuccesso, fraintesi, eccessi. In questi giorni ho rivisto Il cacciatore. Simone diceva che assomigliavo a Christopher Walken, che nel film interpreta “Nick”. Tu sei “Mike”, gli dicevo: a te tutto viene bene, e sei il più forte di tutti. Simone rideva. A volte, di notte, mi telefonava, urlava in cagnesco – un urlo basso, di viscere, come avesse un leone nel corpo – la sua disperazione. Voleva mettere fine a tutto. Tutto era il modo in cui diceva mondo. Tutto era questo millennio sciacallo.
Come “Mike”, quello del film, Simone è venuto a prenderci tutti: quando eravamo a terra, quando siamo stati sconfitti, quando c’era da fare festa, quando il sole aveva apertura alare da avvoltoio. Non ci ha mai dimenticato, non ha mai disonorato il compito. Simone c’era per tutti, dappertutto. Ma nessuno è andato a sollevare Simone.
Essere a terra, per Simone, significava proprio così. A terra. Atterrare su asfalto ostile.
Non amava le metafore, Simone: in ogni parola vedeva il cielo e l’altro mondo.