Quando si parte alla lettura dell’Opera in versi di Osip Mandel’štam, nella versione che da decenni Gario Zappi custodì, che ora porge alle stampe per i tipi della Giometti & Antonello, un elemento giunge frontale. Esso è nell’immediato percepibile delle prime letture: la lingua italiana, un posarsi della lingua rinverdita dai versi netti, dai toni amari o giocosi, dai tratti ruvidi o tenui, ma sempre estremamente plastici del poeta russo. La tradizione novecentesca italiana ha dato terreno a svariate forme di appropriazione della poesia straniera, ad una fervida dialettica con l’estraneo per tutto l’arco del secolo: Blok-Clemente Rebora, Rilke-Giaime Pintor, Williams-Cristina Campo, Chlebnikov-Angelo Maria Ripellino, Tjutčev-Landolfi, Hӧlderlin-Leone Traverso, menzionandone alcuni. Partire da questa zona di approdo linguistico non elude la specificità dell’operazione, dell’importanza propria della poesia di Mandel’štam, nella sua totalità, nella sua continentalità ampia e multiforme che la contraddistingue. Egli fu un poeta che coltivò tutte le possibilità espressive e sensoriali degli elementi selvatici, come già in evidenza con Kamen’: immagini di mondi animali, di ambiente ed impianto agreste classico, oggetti dell’uso quotidiano russo, uniti occasionalmente ad un sostrato mitologico, tutto questo coniugato a sua volta ad una esperienza di appropriazione ed orchestrazione della cultura europea nei suoi emblemi, nelle sue città capitali, nei suoi punti possibili di ibridazione. Vi si trovano figure mitologiche germaniche, compositori tedeschi, riferimenti ad inglesi ed americani, epopee francesi, l’urbe romana, per citarvi tratti sporadici e semplificare brutalmente. In tutta questa geografia inesauribile del suo canto, l’Italia, la sua particolarità linguistica e i suoi poeti (in primis Dante) sono un costante angolo di suono e visione in cui adagiarsi. Spesso si sottolinea l’esecuzione vocale e spirituale che il poeta russo compie mirabilmente, attraverso metafore desunte da alcuni studi scientifici (la cristallografia su tutte) sul poeta della Commedia nel suo scritto Conversazione su Dante. Una trattazione che è paragonabile solamente a Ezra Pound per passione e appropriazione nel secolo precedente. Ma troppo poco di consueto si ragiona sul fatto che questo poeta nato a Varsavia, innamorato della lirica italiana, fu anche traduttore di alcuni sonetti del Petrarca, rimodulandoli all’interno della propria peculiarità vocale, “facendoli nascere” nella sua lingua. Mandel’štam dona meravigliosamente al Petrarca le possibilità poetiche aperte dalla poesia sua contemporanea, in una memoria rimpatriante, come molto acutamente nota in senso lato Antoine Berman sul fare traduzione, soprattutto tra secoli o geografie distanti (vi si potrebbero aggiungere, pur con specificità proprie, le traduzioni da Shakespeare di Pasternak e le versioni della Cvetaeva del Poema del cante jondo di Lorca). Dunque Mandel’štam, già in odore di esilio interno e in richiamo istituito dalla polizia, trova un ponte con Petrarca, che lo accompagnerà sino agli ultimi attimi. Egli coglie un varco percorribile nella lingua, percependo col poeta aretino una intima fratellanza spirituale.
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Da una medesima latitudine che fu di entrambi, scendendo verso Europa, percorsa e vagheggiata dal poeta (fu studente ad Heidelberg come alla Sorbona e cultore di cose di Francia), dalla Mosca dove visse per anni per poi ritornare in Italia, Gario Zappi riporta, o sarebbe meglio dire custodisce e “riconsegna” integra nella lingua italiana il continente sommerso, l’Acropoli sepolta dai tiranni della lirica del russo. Un percorso di rimpatrio possibile in esilio, di modulazione estraniante paradossalmente attuabile per identificazione totale, non privo di timori nell’incontro con questa opera imponente. Opera ora dotata della sua adeguata ampiezza di visuale architettonica, ora visibile nelle sue cattedrali verbali (come definiva Ripellino le poesie del russo), dove prima al nostro sguardo di lettori era brandello di colonna o campione di capitello, nei decenni passati. Finalmente giunge la sequenzialità integrale dei testi di un poeta massimamente attento ad essa, in continuo rimodellarsi della “balistica” e “statica” delle sue stessa raccolte in vita, dove una parte di essa non era mai apparsa prima di oggi in Italia. Il grave e l’arioso si congiungono infine completandosi. Essi sono tattilmente visibili come contrafforti e colonne che rendono il senso di fraseggio interno dell’opera nel suo farsi. Lo stesso traduttore teme che la magia di questi versi sempre scompaia al suono proprio nel forgiare, come una polvere di farfalle posatasi e poi spirata nell’atto di raccoglierla e farne una lega di suoni. Lo fa esplicitando una serie di convergenze potenziali, un reticolo pulviscolare tra Italia e Russia. Due termini, secondo Zappi, si stagliano quali poli di attrazione in cui il “selvatico dono” del russo giace: Eurasia ed Asiopa. Due longitudini dell’anima russa, due gradi di intensificazione che Zappi rimodella per esplicitare la forza tortile, sinuosa e plastica che tale poesia di pietra e miele fronteggia col secolo e le nazioni: Eurasia è la porta d’Occidente, con finestra d’Europa Pietroburgo divenuta Petropoli. Urbe slava latinizzata, quasi neo-capitale romana, o città infera in cui giacere. Dove dire Eurasia è come intendere la porta verso il Mediterraneo, Asiopa è la Russia come Sfinge cantata da Blok negli Sciti, “lo scudo tra le razze avverse dell’Europa”, il confine invalicabile che i popoli centroasiatici impongono tirannicamente, cuore enigmatico del Centro Asia barbarico che sempre pulsa dentro commissioni e dicasteri, e confina a sé ogni tentazione ad esso centrifuga. Esso è rappresentato capitalmente dalla deriva autoritaria-totalitaria di Mosca, dal suo stato di sorveglianza agghiacciante. Mandel’štam prontamente osserva e rigetta, privo in assoluto di ogni forma di panslavismo o panmongolismo esaltati da altri poeti come specificità spirituale nazionale. Gario Zappi è sensibilmente conscio di questa dissociazione che nel poeta russo diventa adesione aperta e combattiva al mondo mediterraneo. Il suo tendere lo sguardo vagheggiante verso “l’ampia finestra sull’Adriatico” è anche visione ampliantesi verso la “carta misteriosa” di Europa che sta mutando, pur non dimentico della “azzurrità profonda” del luogo di origine. Non casualmente due emblemi architettonici accompagnano questa geometria orientativa, come bussola elettiva: Notre Dame e Haghia Sophia, un fondamento della cristianità descritta dal poeta con una imponenza egizia; una chiesa ortodosso-orientale, poi moschea, con sottotraccia pagano, dettato dalla particolarità delle colonne verdi appartenute ad un precedente tempio pagano sito ad Efeso.
Continuamente si palesa un gusto per la stratificazione sincretica, in cui il mondo classico si metamorfosa nelle capitali russe ed europee (“O Europa, Ellade nuova”) o viceversa, come nel caso prima menzionato di Pietroburgo divenuta Petropolis, in cui Persefone regna; dove un costruttore-architetto di cattedrali cristiane è un russo a Roma; dove Ovidio canta l’arbà, un tipico carro della Crimea. Dunque in nuce vi è una continua latinizzazione dell’elemento russo e una continua slavizzazione di persone e luoghi latini. Una continua interazione di linee cardinali intersecantesi, capitalmente esposta da alcuni versi: io sono nato a Roma, che a me ha fatto ritorno (con lieto nitrire pascolano le mandrie); Il linguaggio natio m’è più soave/ Del canto dell’italico eloquio,/ poiché in esso arcana sussurra/ la sorgente d’arpe straniere (balugina appena la scena irreale); L’eloquio straniero mi farà da involucro/e molto prima di aver avuto il coraggio di nascere/ fui la lettera, fui la riga d’uva/ fui il libro che vi sovviene in sogno (all’eloquio tedesco).
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Questo sovrapporsi di dimensioni, questo risuonare di una lingua in un’altra, in Mandel’štam va cristallizzandosi nella sua riflessione su Andre Chénier, il poeta francese ghigliottinato. Egli osserva: “Così nella poesia si infrangono i confini nazionali e la natura di una lingua riecheggia in un’altra attraverso lo spazio e il tempo. Tutte le lingue sono legate da un vincolo di fraternità che si afferma nella loro libertà all’interno della quale si richiamano l’una l’altra, a gran voce, familiarmente.”. Il traduttore-poeta Gario Zappi, con una operazione accortissima, usa questo testo come memoria teorica dell’operazione, come Benjamin appose Il compito del traduttore ad esplicare la sua resa dei Tableaux parisiens baudelairiani. In esso agisce la sua visione di fraternizzazione linguistica nella stessa prassi traduttiva. Nella visione di Zappi un elemento preponderante risulta il perno dell’os, della cavità ossea e labiale-fonatoria (anch’esso promessa di fedeltà al suo autore tradotto, che tematizza liricamente le labbra come il mezzo stesso del poetare). Accomunando in un unico scavo una moltitudine di timbri, egli forgia una sub-lingua quasi sciamanica, memore delle iterazioni ritmiche, le asperità di sostantivi e aggettivazione di Campana, i ferrei blocchi nominali e elencativi di Rebora. Tutte caratteristiche di disposizione vocale ed intonativa rinvenibili non casualmente anche in Chlebnikov, verso il versante russo, a cui difatti egli viene accomunato. Tutti loro vengono affraternati nell’atto di una lingua traduttiva assolutamente personalissima, ferrea e netta, priva di neutralità e timori ritmico-metrici tipici dello “stile da traduzione”, che ha preceduto e finora dato in sordina questo poeta, estremamente legato allo spessore fonetico, come all’esistenza stesse delle cose nella forza del suono. Si scorge scandendo i vari componimenti nella voce l’imponenza di una scelta lessicale arditissima e riuscita, che va da dantismi ad arcaismi sempre volti a potenziare nella veste fonico-concettuale il piglio e l’intonazione, mai dati per gusto di ornamentalità preziosa. La cubicità dei versi, il cezannismo verbale che Ripellino sentiva come proprietà dell’autore russo permangono nello spessore immaginativo della lingua traducente ricavata, in pura tensione ritmico-sintattica. Cogliendo di ogni poeta la specificità stilistica, assunta sulla propria lingua “petrosa” di traduttore, sulla propria passione autoriale, Zappi va in cerca della dimensione che il poeta russo vagheggia e riconosce alla poesia dantesca, l’universale della parola, infine trovato. Il crocevia è Dante, a cui entrambi sembrano volgersi. Il dantesco come dimensione di universalità massima. Culmine tensivo dove, da due latitudini opposte e prossime, Gario Zappi e Osip Mandel’štam stabiliranno un gioco, un patto di anni che percorre investendo una intera esistenza. A noi lettori spetta osservare, ora con una mappa ben disposta e donataci per esplorare, dunque. Già il traduttore sembra suggerire in alcuni versi suoi:
Come al ritmo lo iato di inconsolati cieli, e il
Tempo fluisce in occhicerula linfa, e cito le scansioni del tuo
Viso, e leggo le pulsioni del mio verso. Così ripercorro
Per corde e grate, per massi e rugginosi uncini il suo
Sentiero, così, quando si parte il gioco della zara, così…
Edoardo Manuel Salvioni