Quando arriva, la ragazza mi sussurra, “Arriva il re”. La macchina atterra fino alla soglia del piccolo spazio scenico. Lui scende. Non ha lo scettro ma una stampella. Il viso è quello, indimenticabile. Spigoloso. Rapace. Come se dell’aria, del mondo, frugasse con delicata violenza il cuore. È un re, ha ragione.
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Lo accompagna, prendendolo sotto braccio, mentre il re impartisce la sua rude benedizione a chi gli corre incontro, ‘Pino’ LePera, il figlio di Tommaso, il più grande fotografo di teatro in Italia. ‘Pino’, come sempre, è elegantissimo, educato, eccitabile. È nato a teatro, anima i musoni, è una roulette di aneddoti, se gli chiedi qualcosa, qualsiasi cosa – a patto che tu gli vada a genio –, te la procura in un lampo. Ha le dita tatuate. Mi sfotte, con garbo arcaico, chiamandomi ‘il Professore’: qualche settimana fa abbiamo fatto notte, in una osteria romana, perché di ogni attore mi dettagliava spettacolo di debutto, spettacolo più importante, gossip. L’archivio LePera, in effetti, è una miniera, una giostra per chi ama il teatro.
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Ho il privilegio di vedere il re in scena. Sembra fragilissimo, eretto sul trono della propria voce. Ma quando parla… “Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! — Eh! che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi!”. Scuote la stampella, qualcuno ha messo la corona al re, è Enrico IV.
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Il caso mi porta dentro la macchina teatrale. Una ragazza suggerisce a Roberto Herlitzka le parole, lui le ripete, ogni volta in un tono diverso, come se dell’uomo conoscesse ogni recesso e dei sentimenti ogni sfumatura. È un miracolo. Alle parole di Herlitzka non credi: vi obbedisci. Poi scherza, questo titano, questo re del teatro italiano, per cui ogni premio, anche il maximo, sarebbe un’offesa, non ha nulla da aggiungere al genio, “dovrei cambiare mestiere, vedete, non so la parte”, dice.
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Devo ripetere la geologia attoriale del re? Allievo di Orazio Costa, ha lavorato con tutti, da Luca Ronconi a Lavia, Missiroli, Squarzina. Al cinema ha assecondato Lina Wertmüller, Marco Bellocchio, Roberto Andò, Paolo Sorrentino, tra i tanti – in tivù, tra le tantissime cose, lo ricordo nella fiction tratta da Il nome della Rosa. L’anno scorso doveva essere a teatro con Franco Branciaroli, per Falstaff e il suo servo. Non è riuscito. Si è ripreso. Ha preteso di fare Enrico IV. Il re. Il re del teatro.
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Di titani, in verità, ho il privilegio di vederne due. Me ne sto assiso in alto, al buio. Roberto Herlitzka ha movimenti minuti, regali – l’Enrico IV di Pirandello, in fondo, inscena il potere incantatorio del teatro e il suo tabù, la follia del credervi. Lo guida Antonio Calenda, prometeo della regia teatrale. Lui un Enrico IV lo ha già fatto: era il 1981, con un magnifico Giorgio Albertazzi. Il rapporto tra Calenda e Herlitzka dura da cinquant’anni. Nel 1969 Calenda realizza un Coriolano con lui, Gigi Proietti e Mario Sciacca; all’ombra di Shakespeare accade quell’altra produzione mirabile, il Re Lear del 2004, con Daniela Giovanetti – in scena anche per questo Enrico IV, elfica certezza –, Luca Lazzareschi e Alessandro Preziosi. Ancora un re. I due, insieme, non si limitano al classico canonico: nel 1971 lavorano a Il balcone di Jean Genet, con Sergio Tofano, Franca Valeri, Milena Vukotic, che vulcanica voglia di nuovo, che aristocrazia del rischio.
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Il punto, però, è un altro. Lo chiamerei: la nobiltà della sfida. Anzi: il sovvertimento dei valori culturali. Roberto Herlitzka fa Enrico IV per la regia di Antonio Calenda. Dove sta il nuovo? Nel fatto che Herlitzka sceglie, senza sotterfugi, il sottosuolo. Non va su un grande palcoscenico, nell’alcova di un sontuoso teatro. Sceglie uno spazio off, austero, graniticamente rude – cioè: sacro – come il Teatro Basilica in San Giovanni in Laterano. Poco meno di cento posti, una sorta di tabernacolo in pietra sotto il santuario della Scala Santa. Uno spazio selvatico, scomodo, roccioso – perciò, lo ridico: sacro. Herlitzka replica al ridicolo della cultura italiana odierna partendo da zero, guadagnandosi una nuova giovinezza, rifiutando le luci della fama. L’Enrico IV – che sarà in scena dal 25 febbraio all’8 marzo prossimi – è costruito con Calenda insieme ai ragazzi del Gruppo della Creta, coordinati dal regista assistente Alessandro Di Murro. C’è una povertà miracolosa, l’autentico, lo sfolgorio del candore, qui. Quando Herlitzka, dopo quasi quattro ore di prove, se ne va, sorride a tutti, “onorato”, dice, chinando di poco la testa, il re.
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La sera, accade il miracolo numero due. Al Teatro Basilica vedo Back to Beckett, spettacolo costruito assemblando alcune parti dei romanzi del divo Samuel. La scelta di Marco Carniti – il regista – è perfetta: ribalta i ruoli (gli spettatori siedono nello spazio scenico), copre le seggiole con un velo, quasi una nebbia, il gioco di luci&suoni e la presenza muta, mutante di Dario Guidi, è ottima. Stupefacente, piuttosto, è Francesca Benedetti, attrice mitologica – classe 1935, ha lavorato con Costa, Proietti, Gazzolo, Ronconi, Strehler, Tiezzi, nel 1959, in Uomini e nobildonne, ha recitato con Vittorio De Sica, per dire – che urla, sbatte, sbraita, bercia di sesso, scoreggie, ano, defecazione beckettiana. Sputa, erutta incomprensioni, si sdraia, stravacca, scompare. Ha la faccia pitturata e un paio di pittoreschi occhiali. Non ha paura di nulla, Francesca. Questa diva, dico, non ha paura di eccedere, di sputtanarsi, si cede, totalmente, all’atto teatrale. Potrebbe apparire grottesca, invece è grande: sono gli spettatori, improvvisamente, al suo cospetto, a sentirsi inermi, ridicoli. Che lezione. (d.b.)
*In copertina: Roberto Herlitzka nelle vesti di “Enrico IV” per la messa in scena, sotto la direzione registica di Antonio Calenda, al Teatro Basilica in Roma; photo Tommaso LePera