14 Settembre 2024

“Eccezionale sarebbe l’eleganza di svanire soli al vertice”. Caro Giacomo Rossi Precerutti…

Caro Giacomo Rossi Precerutti,

cos’è che mi vince?, che vince me nel mio essere profondo? Non tutto è perduto se il figlio di un poeta scrive a sua volta poesie, com’è capitato a te. Si matura una coscienza che finisce per farci volare alto, in anticipo sulla vita che chiede risposte. Eppure non basta, la coscienza è sempre lì a vigilare: “Se nulla o ben poco sono stato / arriverà una furia d’ombre / sulle domande, tutto agiterà / di scatto la polvere delizioso / precipizio sarà capire la vertigine / senza spegnersi in fermo sguardo” (pag. 17). Incredibile precipizio, tanto da essere definito delizioso, insieme allo sforzo di arrivare a comprenderlo attraverso la vertigine che l’accompagna. In quale altra poesia troviamo un simile accostamento? Allora perché il precipitare ci soccorre? Icaro cade nel tentativo di capire tutto e subito, non ammette di fermarsi, ha fame di destino, e Matisse lo raffigura con un punto rosso sul petto, o una fiamma che esplode in evidenza dentro il suo corpo bianco e scomposto dall’attrazione della forza di gravità. La poesia successiva, poi, a pagina 18 è un evento! Non resisto, la riporto interamente dal tuo ultimo libro Appartenere (Neos Edizioni, 2024). S’intitola Negli occhi serrati.

“Se è violenza una parola
alta non scritta ho ucciso
il respiro dei giorni,
ho cercato il pallido inferno
negli occhi serrati e la beffa
ho celato del dubbio.

Aprire ora gli occhi, lacerare
la mia inutile figura la sua
miseria penetrante, barcollare
in un rumore nuovo, immobile
cogliere ciò che si sbriciola”.

Prima, nella sezione che apre il libro, è tutto sbarrato, cancellato, vuoto, il percorso umano non dura, l’esperienza si piega nell’abitudine, il coraggio stenta ad affermarsi: “[…] la mia sveglia che ti desta / non può essere questo, appartenere” (pag. 14). Poi, che cosa è successo? La poesia prende il largo, la voce del poeta ha acquistato vigore: “No, la distanza della luce / non è più una ferita […]” (pag. 21). Si sente che la parola cresce nella complessità dell’immagine, e può dire più cose: distanza – luce – ferita – non più – no. Quello stesso no che negava, ora è dramma aperto, perché sale nel suo volo d’esperienza, oppure, nel muoversi in terra, si può dire che compie passi da gigante, come gambe che si sono allungate a dismisura nella folgorazione visionaria del vedere. Dappertutto il verso è esclamativo, dirompente, non vuole conoscere misura e sta a stento dentro il metro: “L’oltranza è questa musica” (pag. 21). Questa, non un’altra, sebbene io è un altro, a pagina 58 si legge: “Detesto essere altro da me”.

Direi un verso superlativo, indica indipendenza, cuore aperto, deciso. Piantare la propria bandiera nel pieno della tradizione letteraria ottocentesca, e di riflesso nel secolo seguente, detto secolo breve dagli storici per via delle sue atrocità, che contraggono velocemente un tempo, lo stringono senza riuscire a lacerarlo, ancora più breve quello attuale in cui si ritorna a fare la guerra. Ma è vessillo piantato proprio per dire l’inferno quotidiano che attraversiamo da sempre, ogni giorno, non solo nei nostri passi, bensì nel cuore che abbiamo, e dove in fondo ci sorregge la grazia del dire, di eccedere nel dire di cosa siamo fatti. Ebbene moriamo!, si muore, a un certo punto accade questo, non abbiate rimpianti intanto, vivete, datevi nuove speranze, nuove attese, prima che sia troppo tardi, è l’ora, raccogliamoci. Riporto la poesia intitolata La prima dimensione.

“Se potessi costruire la morte
le chiederei di avvolgermi
in una giacca blu scura
tra le bianche canotte estive;
eccezionale sarebbe l’eleganza
di svanire soli al vertice,
senza abito vorrei soffocare
danzando nella prima dimensione,
sparire nell’eco di un violino”.

Simile complessità di voce è difficile trovarla in giro. Tutto è equilibrio, incanto, direzione che prende a crescere vorticosamente in umanità, fino a scomparire, giacché si è espressa la radice del dire, a cominciare dal primo verso che nell’immaginare la morte la pensa in antitesi, come una costruzione, nuovo modo di viverla, erigerla di nuovo dall’inizio, mettendo mattoni su mattoni, il che induce a interrogare l’etimologia: cosa significa costruire? Ma è il clima di festa, di vittoria, che emerge dal tema. Singolare questa costruzione, misteriosa, col violino che suona, anzi, se ne avverte l’eco, per dire che una distanza resta sempre, è necessaria alla volontà di capire il dolore. E la parola eleganza indica un’elezione, o una vocazione che è già in atto prima del nascere. In questa poesia nascita e morte s’incontrano. Sora nostra morte corporale. Svanire è il vertice, o meglio, la totalità del mistero che ci abita, che ci appartiene.

M’incuriosisce il verbo avvolgere, che compare anche in un’altra poesia a pagina 40, che noto, registro nella mia mente e provo ad accostare per scoprire le differenze, le analogie, come pietre o conchiglie che ho trovato. Cito: “[…] avvolto nei versi […]”. Scrivere è ricchezza esorbitante, dono, qualità del nominare e dell’intendere il senso, quindi anche qualcosa che comprende la fine, ovvero l’inizio. “[…] muoio ogni istante in cui / chiudo la mia pagina, vivo un’alba / quando sento il tuo respiro”, si legge nella poesia indicata col numero romano IV. Solo un vero poeta può dire in questo modo, lasciamo ai corsisti di scrittura creativa l’obiettivo di far diventare lo scrivere un lavoro, o includerlo nell’elenco delle passioni. Ciò è detto con chiarezza nella poesia intitolata “Tutto nega che si vedrà”, là dove si legge: “[…] Il rumore avvelenato di scrivere, / nominarlo per intenderlo, / trasportare sonno e morte / nel sogno e vedere cosa rimane, / un tratto sottile di sabbia / basterà a infastidire la terra, / mentre scavano le nostre mani / un gonfio riflesso d’acqua bruciata” (pag. 67).

Con l’ultima parte del libro, intitolata Vita vera, si compie un altro salto, e si manifesta una rivelazione inaspettata. La poesia si fa più quieta, più lineare. Si apre un altro capitolo, la vita smette di avvolgersi e viene in contro. La sensazione è che tutto porti a un centro sovrano, il centro che è stato trovato. Si parla di perdono, perdono che trema, avvampa la parola “d’una voce rossa di tempera” (pag. 49), il cuore ha punte da affilare (magnifico!), si ritiene, in forma interrogativa, di poter curare l’esistenza nostra così sofferente: “Guarire il vuoto formerebbe / l’istinto di vivere nella luce?” (pag. 53), e poi si parla della possibilità di un nuovo respiro. “Mi hai detto che non sparirò / nello stupore di viaggiare felice” (pag. 54), e ancora, di stare nelle cose calmando i lamenti della perdita, e di una promessa che non passerà. Non posso trascrivere tutto, rimango folgorato dalla bellezza e dalla profondità di questo libro, già affermate dentro i tuoi libri precedenti. Adesso riesco solo a trascrivere la poesia intitolata All’improvviso, per il piacere dei lettori.

“I frantumi di un nido,
innocenti memorie disfatte
e vene gonfie di suoni lontani,
cadere oggi, dare un senso
al peso dei silenzi.
Brevi orme di ombre furtive,
si è perso il calore del pensiero,
dissolta l’aria disumana
in lei confitto ogni dolore,
avremo un senso all’improvviso”.

Vincenzo Gambardella  

*In copertina: Angelo Morbelli, Per sempre, 1906, collezione privata

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