Nel 1963 Forough Farrokhzad gira il suo primo film, s’intitola La casa è nera, dura venti minuti. Forough Farrokhzad è una donna, ha 28 anni, è nata tra le maglie della borghesia iraniana, a Teheran, è la terza di sette fratelli.
Il film è ambientato in un lebbrosario. La telecamera, con grazia celestiale – cioè: senza indugiare nel patetico, senza insignire il maledetto di una gloria di latta, lattescente, ipocrita – guarda l’inguardabile. I corpi tumefatti dalla lebbra; bambini dagli occhi bellissimi sfregiati dalla lebbra; donne dal viso sfondato dalla lebbra; ragazzi a cui la lebbra ha consumato le mani, il naso, i piedi.
Ciò che nessuno guarda: l’invisibile.
Il film, come dire, fece scandalo. Senza abuso lirico, si vedono i lebbrosi che, a un certo punto, pregano Dio, leggono il Libro e ringraziano Dio di essere venuti al mondo, ringraziano Dio per aver creato la vita.
Forse soltanto al lebbroso è concessa la preghiera; il nostro pregare è una lebbra.
Forse è Dio il sommo lebbroso: si muove con i campanelli alle caviglie, al collo, non lo senti?
Tutto è contagio.
Dopo aver visto La casa è nera, Bernardo Bertolucci vola in Iran a intervistare Forough Farrokhzad, a costruire un documentario sulla sua vita. All’epoca, Bertolucci ha 22 anni e ha già realizzato il primo film, La commare secca.
In effetti, è intorno al lebbroso, l’impuro, il puro impuro, verrebbe da dire, che ruota il cristianesimo. Il Cristo secondo Grünewald è arso dalla lebbra, le piaghe del flagello lo divorano, lo sfigurano.
Gesù purifica il lebbroso; ed è “nella casa di Simone il lebbroso”, a Betània, che incontra la donna che gli “versò il profumo sul capo” (Mc 14, 3). La meravigliosa sottigliezza dell’evangelista: colui che purifica dalla lebbra, è purificato da una donna. Olio di sapienza, profumo che prelude al sepolcro, morte sconfitta per eccesso di purezza.
“E inoltre guarirò, con il permesso di Dio, il cieco nato e il lebbroso, e risusciterò i morti”, è scritto nella Sura 3 del Corano. Guarire il lebbroso è un segno pari alla resurrezione.
Bisogna passare per le piaghe del lebbroso.
Anche Francesco, l’Assisiate, passa per il lebbroso: l’abbraccio con il lebbroso è conferma della sua chiamata, conversione – inversione. Il lebbroso è il talare, l’abito, il vero bivio. Sfidare il contagio con il contagio dell’abbandono in Dio; depauperare il mostruoso per amare il mostro, la meraviglia.
Dunque è ingresso nello splendore il viatico per il lebbroso.
Incorporare il lebbroso. Il bianco della lebbra, il biancore dell’innocenza.
Dopo aver girato il film, Forough Farrokhzad s’incarica di alcuni di quei bambini lebbrosi. Specchio del suo unico figlio, Kamyar, che le era stato sottratto.
Andata in sposa a sedici anni, al cugino, madre l’anno dopo, Forugh si separa dal marito nel 1954. Il figlio, per legge, è affidato alla famiglia paterna. Nel 1955, l’anno in cui pubblica la prima raccolta di versi, Asir, “La prigioniera”, Forugh subisce il primo crollo nervoso, il primo ricovero in una clinica psichiatrica.
Prima di tutto, Forough Farrokhzad è poeta. Ha messo in versi la femminilità, la delusione, la ribellione, l’amore. Di recente, il “Guardian” ha scritto che Forough Farrokhzad è una “Sylvia Plath iraniana”. Paragoni e didascalie sono sempre incongrui, insopportabili. Nell’articolo, si dà conto delle parole di Ebrahim Golestan, cineasta, unitosi a Forughdal 1958.“Ha scritto dell’amore che trascende i confini, senza vergogna, ha contribuito a fondare la letteratura iraniana contemporanea”, ha detto. In una delle lettere che lei gli scrive, “Sei il solo che amo… al punto che ho paura di cosa sarei se sparissi, all’improvviso. Diventerò un pozzo vuoto”.
Nitore e pudore avvolgono l’opera di Forough Farrokhzad. Le cose recluse, le cose amate. Gli amori costernati dalla lebbra.
Pur ignorata dalla grande editoria, l’opera di Forough Farrokhzad è tradotta in italiano: dall’editore Riccardo Condò nel 2018 (È solo la voce che resta), da Le Cariti nel 2015 (In un’altra terra), da Orientexpress nel 2008 (La strage dei fiori), da Sometti nel 2006 (Crediamo all’inizio della stagione fredda). Spesso, è imbracciata come un simbolo: anche lei, Forough Farrokhzad, ha subito lo stigma della diversa, del mostro. Pur bellissima, l’hanno trattata come lebbrosa.
“Questa è la descrizione di una società chiusa e rigida, l’immagine del vivere invano, da emarginati, come scarti. Anche le cosiddette persone sane in una società apparentemente sana al di fuori del lebbrosario possono soffrire degli stessi sintomi, nascosti nelle profondità del loro animo”.
Forough Farrokhzad, 1964
Eppure, propriamente, la letteratura va lì dov’è lo scarto, dov’è l’appestato, dov’è il buio. Porta la luce? Veglia sull’oscurità. Ne culla il parto, infero.
Dopo aver fatto visita alla madre, era il 14 febbraio del 1967, era lunedì, Forough Farrokhzad sbanda, sbatte contro un muro, muore. Guidava una station wagon, aveva 32 anni. Dicono che nevicasse, al funerale. Una lenta lebbra ricopriva la terra – le spoglie del cielo. Qualcosa si purifica, qualcosa si infetta.
*
Il dono
Parlo dal fitto della notte dal fondo dell’oscurità dagli scarti del buio, parlo.
Se decidi di venire a casa mia, amico portami una lampada e una finestra perché possa fissare la folla che sciama nel vicolo felice.
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Sette anni
Già, sette anni ecco: il magnanimo momento della partenza ciò che è accaduto dopo di te è accaduto in una rete di ignoranza, ignavia e mania.
Dopo di te, la finestra, ponte di luce e di vita, tra l’uccello e noi tra la brezza e noi si è rotta rotta rotta dopo di te la bambola di terra che non aveva nulla da dire non è che acqua acqua acqua morte per acqua.
Dopo di te abbiamo ucciso la voce della cicala siamo stati sedotti dal suono della campana che si leva dalle lettere dell’alfabeto dal sibilo della fabbrica di armi.
Dopo di te, il nostro parco giochi sotto la scrivania ci siamo laureati sotto le scrivanie e dietro le scrivanie e da dietro le scrivanie sulla cima delle scrivanie abbiamo giocato sulla cima delle scrivanie abbiamo perso perso il tuo colore ah, sette anni.
Dopo di te, vicendevoli tradimenti dopo di te, abbiamo raffinato i ricordi dalle scaglie di piombo, dalle chiazze di sangue sopra i templi intonacati dei muri, tra i vicoli.
Dopo di te siamo scesi nelle piazze a gridare: “lunga vita… abbasso…”
nel clamore della piazza abbiamo applaudito cantanti dal conio misero venuti con insidia a visitare la nostra città.
Dopo di te noi: assassini uno dell’altro amore sotto torchio cuori relegati in tasca giudichiamo il resto dell’amare.
Dopo di te si ricorre ai cimiteri e la morte respira sotto il velo della nonna la morte era l’albero corpulento dove i vivi sul lato dell’origine legano il filo del desiderio, a rami stanchi, e i morti, dal lato della fine, fanno esplodere le radici con il fosforo e la morte assisa su quel sacro mausoleo con quattro tulipani azzurri splendeva brutale lungo i quattro angoli.
Il rumore del vento arriva il rumore del vento tuona ah, sette anni.
Mi sono destata, ho bevuto le piantagioni della tua giovinezza animate da uno sciame di grilli.
Quando bisogna pagare? Quanto, perché cresca questo cubo di cemento?
Tutto quello che dovevamo perdere, lo abbiamo perso camminiamo senza lanterna e la luna la luna il gentile femminino è sempre lì sopra l’infanzia dal tetto di paglia sopra le piantagioni giovani impaurita dal limaccioso suono dei grilli.
Quanto bisogna pagare?
Traduzione dall’inglese della redazione
*
Il peccato
Peccai un peccato pieno di piacere, In un abbraccio che era caldo e ardente. Peccai tra braccia Che erano roventi, assetate di vendetta e come ferro.
In quel luogo solitario, buio e silenzioso, Guardai i suoi occhi pieni di segreti. Ansimante, il mio cuore trasalì nel petto Alla supplica del suo sguardo implorante.
In quel luogo solitario, buio e silenzioso, Sedetti confusa accanto a lui. Le sue labbra sulle mie labbra stillarono desiderio. Dimenticai le pene del mio folle cuore.
Sussurrai al suo orecchio frasi d’amore: Voglio te, o mio amato, Voglio te, o abbraccio vivifico, Te, o folle amato mio.
Desiderio divampò nei suoi occhi; Vino rosso danzò nella coppa. Ebbro, il mio corpo contro il suo corpo Fremette nel soffice letto.
Peccai un peccato pieno di piacere, Accanto a un corpo tremante e privo di sensi; O Dio, io non so che feci In quel luogo solitario, buio e silenzioso.
Traduzione dal persiano in italiano di Daniela Zini