Da ragazzo, sono i vezzi della giovinezza, il vigore della stupidità, pensavo che le opere fossero superiori agli esseri umani. Per questo, mi rifiutavo, categoricamente, di incontrare scrittori & poeti. La carne, d’altronde, è la corruzione della forma; di solito, pensavo, una grande opera è inversamente proporzionale alla grandezza di chi l’ha foggiata. Minchiate. In ogni caso, per lui feci eccezione.
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A chi mi chiedeva chi fosse lo scrittore italiano che preferivo rispondevo, con spregiudicato sprezzo, Ezio Savino! Non era il trionfo dello snobismo, ma il trono del vero. Quel giorno, appunto – Milano, molteplici anni fa, in un palazzo troppo elegante per non digerirmi nelle sue interiora punteggiate di luci – lo conobbi. Mi parve titanico, abbronzato, un colosso con gli occhiali. Balbettai qualcosa. Con lui c’era Nicola Crocetti, con cui collaborava – ricordo, almeno, le introduzioni ai libri di Ghiannis Ritsos, di Kavafis. Forse mi sorrise – era robusto, si dileguò.
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Ezio Savino maneggiava il linguaggio come nessuno – leggerlo fu una delle sorprese della giovinezza, uno shock verbale. Savino, che se ne è andato nel 2014, era geniale, sapeva il valore della parola ‘servizio’: occorre farsi servi del desiderio del lettore, senza ostentare la propria accademica – e bulimica – sapienza. Ergo: era un abile divulgatore (le sue introduzioni sono schiette e affascinanti, ha scritto un ottimo libro per avviare i ragazzi alla conoscenza del mito, Il ragazzo con la cetra), ma quando traduceva lasciava tralucere l’enigma, la collisione, la corrosione. Non semplificava: sfidava. Le sue traduzioni di Sofocle e Tucidide, ma più di tutte quelle di Eschilo, con cui inaugura un corpo-a-corpo linguistico esaltante, sono alcune tra le opere in italiano più grandi e di vasta risonanza degli ultimi decenni. Savino non spiega, ma dilata l’eco del verbo; non trova risposte traduttive, al contrario, ci getta nel gorgo del labirinto, davanti al mostro.
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Esempi. Quarant’anni fa, per Garzanti, Savino pubblica la sua versione del Prometeo incatenato. Esordio: “Ci siamo: qui, all’orizzonte del mondo, su questo spiazzo, ultima costa di Scizia. Disumani, vuoti silenzi. Efesto, forza: fa’ tuo l’impegno che il Padre ti diede, piantare alle rocce, ai picchi d’abisso, quel disperato – guardalo – tra blocchi senza spiragli, di nodi d’acciaio”. Che fa Savino? Piaga i tiranti della lingua, estremizza: siamo nel cerchio del mito greco, del teatro del V secolo, è vero, ma potremmo essere dentro Star Wars, in una sconfinata cosmologia. Per capirci, questa è la traduzione di Monica Centanni – bravissima, per carità, ma qui non m’importa la coerenza filologica bensì l’insorgere dell’altro, dell’implacabile del linguaggio – nel ‘Meridiano’ Mondadori che raduna Le tragedie di Eschilo (2003): “Qui, ai confini del mondo siamo giunti, qui, nella Scizia lontana, in un inumano deserto. Su ora, Efesto, occupati tu di eseguire il mandato che il padre ti ha dato. Ecco l’uomo: alle rocce, sospese sull’abisso, questo temerario tu devi legare, con catene d’acciaio, in ceppi infrangibili”.
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Ammetto. Lo leggevo con l’ansia della iena, ne scorticavo i testi, fino all’osso verbale. Lo dico: non puoi scrivere senza aver letto l’Eschilo secondo Savino, arcaico, ma che ha ferrato le spalle al futuro. Va arso di sottolineature il suo tradurre. “Flettersi all’Inevitabile è equilibrio”; “Da ora per me l’universo è blocco d’angoscia. Ecco, mi si staglia negli occhi: dio è contro di noi! M’assorda il cervello un urlìo malato”; “Delitto strepitando attira Vendetta: lei, pronta – spira da quelli uccisi in passato – ammucchia a perdizione fresca perdizione”.
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Che emozione udire il sussurro metallico di Prometeo: “Io che ho ideato tanti congegni per l’uomo non trovo per me uno scaltro pensiero, sollievo al tormento che ora m’assale. È la mia sofferenza!”.
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Un brandello strappato all’Orestea, “Piegati al destino. Sperimenta il nuovo male, il giogo”, manda al libro più alto – e dei più comprensibili – di Emanuele Severino, Il giogo (1989). L’intento, lì, è quello di leggere Eschilo come “uno dei più grandi pensatori dell’Occidente”, l’uomo che “pensa per primo, in modo esplicito, il rapporto tra dolore e verità”. In particolare, continua Severino, “Eschilo pronuncia un ‘no’ inaudito al dolore – un ‘no’ non solo inaudito, ma completamente ignorato, nel suo significato autentico, da ogni riflessione sulle origini della civiltà occidentale”. La natura terribile del pensiero di Eschilo si capisce soltanto leggendo la traduzione di Savino, di plumbea bellezza.
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Così, nei Persiani, il coro degli sconfitti canta la sua sventura:
Sciabolata d’azzurro è lo sguardo, di smalto
lucente: una serpe cruenta!
…Pure frode, malia di una mente celeste
Chi vale – qui sulla terra – a schivarla?
…Sgorga da Dio il millenario potere
della Dispensiera fatale. Sui Persiani calcò
impegno guerriero: sgretolare castelli,
groviglio d’assalto gioiosi, al galoppo,
città sradicate.
Ma seppero presto quel lungo scrutare il mistero
dei flutti, l’abisso che spalanca i suoi varchi
– luccicare perenne allo schiaffo del vento –
affidati al cordame, fragili funi
strumenti del passo oltremare.
Così la mente – velo nero –
si fa straccio all’angoscia.
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In dieci anni, tra il 1978 e il 1989, Savino traduce Eschilo e Sofocle, dando ai ‘classici’, finalmente, lingua di fierezza. Dove conta l’abbandono più che la sicurezza metrica, il vespaio di suggestioni più che il merito filologico. Tutto inizia, però, con il Tucidide del 1974, sempre per Garzanti, cioè la catabasi – senza catarsi – nel retro di tenebra della Storia. I passi fatali della Guerra del Peloponneso – questo, ad esempio: “Poi i Peloponnesi, calati dall’argine si diedero a sgozzare tutti quelli che si agitavano nel fiume. in breve l’acqua s’intorbidò e si corruppe, ma non venne meno la frenesia di berne, e più d’uno impugnò le armi contro un compagno, per raggiungere un sorso di quell’acqua dal sapore di fango, ed insieme di sangue” – potremmo ascoltarli in Apocalypse Now, a vergare il delirio vietnamita, quello libico, d’ovunque, perché Tucidide estrapola l’orrore dalla cronaca, ma per farne sentire l’odore non puoi accontentarti di un cronachista del tradurre. Le pagine devastanti dei prigionieri nelle latomie – “Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l’uno sull’altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile” – sono speculari al fatidico discorso di Pericle. Tucidide alterna l’elogio della democrazia – “le nostre direttive s’ispirano all’audacia più temeraria, temprata dalla più responsabile riflessione, dove per gli altri l’osare è incoscienza, il ponderare impaccio” – alla “distruzione radicale” della guerra, insinuata come una peste nel cuore dell’uomo. Intriga intendere la democrazia come un osare, più che un sostare sul noto.
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L’intelligenza inquieta, inappagata di Savino l’ha reso creativo pure nell’arco giornalistico. Dei suoi pregi disse, in un pezzo commosso, Alessandro Gnocchi; io ricordo un pezzo, era la tarda estate del 2009, in cui sul Giornale Savino cantava il primato di Usain Bolt fingendosi Pindaro redivivo: “Guardate il cartellone. Parla la lingua delle cifre, che è quella degli dei: 9.58, primato mondiale per Usain Bolt, sulla distanza classica dei 100 metri piani. Chi mi segue dall’epoca dei miei commenti sportivi da Olimpia, da Delfi e da Corinto, sa che esoterismo e scienze occulte dei numeri sono una delle mie passioni. Nulla è caso. Fate la somma dei dati, e troverete 22, proprio l’età del vincitore, in anni di vita”. Audacia e gioco, vertigine e ironia, abisso che sa sfottersi. Tra le tante cose, per Mursia, nel 1979, Savino ha scritto il commento al Dersu Uzala di Arsen’ev, il libro da cui Kurosawa trae il film, indimenticabile. Ecco, Savino, come Dersu Uzala, conosce la tigre, sa saggiare e percorrere la foresta del linguaggio e questo, per lo più, è il gergo del mio grazie. (d.b.)
*In copertina: Dirck van Baburen, “Efesto incatena Prometeo”, 1623