23 Maggio 2024

“Amas me?”. Catabasi nella commozione: da Meister Eckhart a Valentino Fossati

Il mio amico Angelo onora il mondo e ha reso il breve giardino intorno alla sua casa un Eden. Gli basta una striatura di terra, un nastro, per far nascere piante sante, uffici officinali, fiori. Aveva quattro piccole palme: ha dovuto tagliarle. Mi racconta di una falena dalla livrea affascinante che pianta le larve nel cuore della palma. I bruchi divorano le interiora della palma, che avvizzisce, implode. L’effimero, per vivere, succhia la linfa altrui. Angelo non è mai triste: sostituirà le palme con una milizia di ortensie, le ha create in un vaso. Una sottile malinconia lo illumina. Era affascinato da quella sgargiante falena, che ha ripagato il suo amore in morte. Leggo nel De vera religione di Agostino:

“Non vi è vita che non provenga da Dio, perché Dio è la vita suprema e la sorgente stessa della vita. Nessuna vita, in quanto tale, è male, ma lo è in quanto volge verso la morte. Tuttavia, la morte della vita non è altro che l’iniquità, la quale appunto è così chiamata perché non è nulla, ed è per questo che gli uomini più iniqui sono chiamati uomini da nulla”.

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Angelo è un miniatore, un minatore della bellezza: scopre il magnifico nei dettagli. Nelle sue opere, le stelle e i gelsomini, l’oro e il blu sono gesti di grazia, magia simpatica, che scaccia il male. Tutto vibra come una stella, nelle opere di Angelo – stelle: falene del cosmo, i buchi neri ne sono il covo, l’incavo, il capolettera, che consuma il palmeto universale. Eccelle, Angelo, nell’arte dell’alluminar: quando lavora, brilla – e noi balliamo, nell’aura del suo nume.

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Vittorio Veneto è un paese-manifesto, un paese-mausoleo. Tutto è sotto lo zenit della Prima guerra, la vittoria per disastro. Vittorio Veneto sbandiera: anche le nubi sembrano elmetti, i boschi la giubba di un soldato. In piazza, una pittoresca falange di Ferrari-falena; nel parco, rumorosi pappagalli in gabbia. Chi li fissa – con soldatesca di bimbi usciti dalla trincea domenicale – è ingabbiato più di loro.

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Marco Vannini mi insegna la differenza tra uomo psichico e uomo spirituale, pneumatico. La psiche, l’anima, è ciò che anima l’uomo animale, è il suo respiro; pneuma, lo spirito, è ciò che ispira l’uomo, che lo porta fuori di sé (al fondo del sé, che rispecchia l’Altro). Cosa significa conoscere se stessi? Solleticare l’Io o tentare Dio? Ci si conosce scoscendendo nei penetrali di sé o andando al di là dal sé? Ci si conosce rinnegandosi, cioè disconoscendo il clima consueto delle nostre convinzioni, delle nostre idee, finanche della nostra idea di ‘religione’, di ‘fede’, cui siamo affezionati? La via è nei cieli o sottoterra? Conoscerci: ucciderci. Il qui-e-ora è forse l’eternità in vitro? Non è nel molteplice che vedo la disarmante azione dell’uno? Parole, parole. Impratichirsi, ovvero: saggiare la nebbia.

Vannini è grande esegeta e traduttore di Meister Eckhart, sommo pensatore renano; questo è un brano, sconvolgente, tratto dai Sermoni tedeschi (Adelphi, 1985), dove l’Io-Dio è relazione che veleggia tra tutto-e-nulla:

“Io sono la causa originaria di me stesso secondo il mio essere, che è eterno, e non secondo il mio divenire, che è temporale. Perciò io sono non nato e, secondo il modo del mio non esser nato, non posso mai morire. Secondo il modo del mio non esser nato, io sono stato in eterno, e sono ora, e rimarrò in eterno. Cosa invece sono secondo il mio esser nato, dovrà morire ed essere annientato, perché è mortale, e deve corrompersi col tempo. Nella mia nascita eterna nacquero tutte le cose e io fui causa originaria di me stesso e di tutte le cose, e, se non lo avessi voluto, né io né le cose sarebbero, ma se io non fossi, neanche Dio sarebbe: io sono causa originaria dell’esser Dio da parte di Dio; se io non fossi, Dio non sarebbe Dio”.  

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Nel 2016, per Garzanti, è uscito il Vangelo di Giovanni nella traduzione di Vannini. Anche lui, come la maggior parte degli esegeti, ritiene che il capitolo 21 sia “chiaramente un’aggiunta al testo”. Sono particolarmente affezionato a quel testo: Gesù si manifesta ai suoi, risorto, “sul mare di Tiberiade”. Il Risorto e i discepoli, sulla riva, mangiano pesce, cotto sui “carboni” e pane. Dopo il pasto – che è sempre momento liturgico – Gesù si rivolge a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di costoro?”. La domanda risuona per tre volte, ad annullare il triplice tradimento. Il sì di Simon Pietro è un darsi in pasto al Risorto.

Gli esperti dicono che non c’è intenzione, da parte dell’evangelista o del chiosatore, nella formula con cui si dice questo mi ami, nel formulare la parola amore. A me, però, dilettante speleologo che scambia quarzi per stelle, piace indagare nella singolarità. Mi sembra commovente e sconcertante che il Risorto chieda al discepolo che lo ha tradito, mi ami? Dio alla mercé dell’umano amore.

In greco, nel Vangelo si legge per due volte il verbo agapáo, traducibile come amore disinteressato, caritatevole; e una volta, l’ultima, il verbo philéo, che è l’amore filiale, l’amore fraterno, l’affetto tra due, teneramente esclusivo. Secondo la tradizione, agape è l’amore di chi esce fuori di sé per andare verso l’altro mentre eros è l’amore che fa uscire fuori di sé per divorare l’altro; eros fa diventare pazzi, agape è l’amore dei savi; eros annienta, agape santifica. Nel caso di agape, è prediletta l’anima, nell’altro la carne. Sono tuttavia, dizioni sommarie, illividite da una coltre concettuale; le parole, per esistere, debbono essere messe a coltura, praticate.

Ad ogni modo. Nella versione latina, agapáo è tradotto con il verbo diligere, che significa amare nel modo di aver caro, ma pure di prediligere, è un amore dunque esclusivo (più di tutti, mi ami…). Philéo, invece, è reso con amare, il puro è semplice amore. “Amas me?”, chiede, a nudo, Gesù, certo, forse che è così facile amare l’uomo flagellato, così arduo innamorarsi di quel mostro, risorto corpo.

A mio dire, si configurano quattro forme dell’amore – per impertinenza traduttiva. Ciascuna di queste, comporta un’ascesa, un suo splendore.

Mi è caro quel capitolo perché mio padre lo ha sottolineato nella Bibbia che portava sempre con sé, fino a morirne. La risposta di Petro – Domine, tu omnia scis, tu cognoscis quia amo te – elude il dramma: degno di pascere il gregge di Gesù, non di ascendere, allora, con Lui. Nessuno può amare il Risorto come Lui ci ha amati.  

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Nel 1968 “Cerastico Editore in Milano” pubblica una brevissima silloge di Poesie di Franz Kafka, desunte dai suoi appunti. La traduzione è di Ervino Pocar, l’edizione è d’arte, “con undici acqueforti di Alfredo Manfredi”. La tiratura complessiva è di poco più di cento copie. Le poesie sono aforistiche, spinate; eccone alcune:

Oh, che mai ci si prepara!
Letto e strame sotto fronde,
buio verde, foglie secche,
poco sole, umida bruma.
Oh, che mai ci si prepara!

Dove spinge il desiderio?
A ottenere? A perder tutto?
Stolti il cenere beviamo
e asfissiamo nostro padre.
Dove spinge il desiderio?

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Su dal fondo
di fiacchezza
noi sorgiamo
in forze nuove,
signori in nero,
lì, in attesa
finché i figli
sian sfibrati.

A volte: il sentore di una cupa cantilena. Come di un andare a unghiate. A volte, il ritmo d’acciarino delle poesie di Trakl, il tempismo dei fuori tempo:

Animuccia
che salti nella danza,
posi la testa dentro l’aria calda
alzi i piedi dall’erba luccicante
che il vento spinge in dolce ondeggiamento.

*

Anche le poesie di Valentino Fossati hanno lo stigma degli uomini fuori tempo, in obliquo a questo tempo. Un tempo, avrebbero portato Fossati – poeta di stralunate tenerezze – sui carri, a chiedergli quando verrà tempesta, a inscatolare i tuoni nell’armadio, a santificare le feste. Conosco Fossati da Gli allarmi delle stelle, un libro che invocava al cuore di levarsi il carapace, di mostrarsi, serpe o colomba che fosse – era il 2007. Ne è seguito una specie di inverno del verbo, di libri messi a maggese, da Inverno, appunto (2016) a Il sogno (2022). Oggi Valentino riappare con Perché saranno neve (peQuod, 2024) ed è dunque brina questo far memoria. I versi, a tratti, scendono in grandine, ne gronda, si direbbe, la pura voce; vanno detti a piene vocali:

“Come fuochi d’estate
su colline sbiadite

come il lupo nel tempo dei padri

e i suoi occhi

improvvisi –

              balenare nel buio”.

L’istante non mette radici, il volto non è che un bolide di api; alpeggio dell’onestà smisurata, potremmo dire. Ma a che pro? Vaga, Valentino, ad ormeggiare fatti e nebbie, certo, tuttavia, che la parola non lega ma slaccia, non ammette ma è ammutinamento.

“Le gru ferme nella nebbia, le scavatrici.

E all’oratorio tutt’intorno
i fanciulli sulla neve
(quella sera li conobbe, li attese)

così vicini all’invisibile, all’inudibile.

E già muravano i balconi, le luminarie
le luci azzurrognole sulle scale a vista…
Cosa udirono in quell’istante,
quali cristalli?

Lì le ampolle lacrimarie
iridescenti

(inascoltate)

altri scavi nelle campagne remote,
nelle regioni millenarie del buio.

Non ci saranno cascinali grandi
non saranno più vicini i patriarchi
(riconoscerli lo stesso,
esattamente, saperli…)

E ad un tratto sorprenderli brillare –
sfileranno come madri l’ultima volta – bruceranno

ci diranno ciò che fu così breve,
ciò che per poco poteva ancora accadere”.

La poesia di Valentino Fossati commuove sempre – chiameremo angeli queste lacrime; o vanghe – poco importa.

Gruppo MAGOG