Capire che con la messa in scena torna in scena l’uomo, l’umano. Il teatro – non diversamente da un sonetto, dal brillio di un endecasillabo – come forma specifica che svela l’uomo, tramite la finzione e la sua vertigine. Orazio Costa è stato un genio teatrale, si sa: sodale di Silvio d’Amico, discepolo di Jacques Copeau, direttore del Piccolo Teatro della Città di Roma, ha firmato regie che hanno fatto storia. Soprattutto, Costa è stato un didatta d’eccezione, ideatore, dagli anni Quaranta, del ‘metodo mimico’, a cui si sono abbeverati alcuni tra i grandi attori italiani del nostro tempo, da Rossella Falk a Roberto Herlitzka e Fabrizio Gifuni. Ed è qui che si realizza la sua ‘rivoluzione’. In cosa consiste il ‘metodo mimico’ lo racconta Costa: “che cosa imparo ‘facendo’ il fuoco, il fumo, l’aria, la nube, la pioggia, l’acqua, il mare, l’onda…? Imparo l’infinità delle strutture (albero, e quel tale albero, leccio, salice, larice…; fiore, e quel tale fiore, rosa, viola, margherita, campanula…; pietra, e quella tale pietra, ametista, malachite, porfido, granito…;) e l’imparo ad ogni fine nella loro “essenza analogica” come schemi disponibili ad ogni attività fino al pensiero e alla logica. Imparo l’infinità dei modi di essere e di vivere; d’inserirsi nella realtà e di contenerla; di dar colore e timbro ad ogni attività mediante una o più altre… Il famoso leone-tortora di Bottom… Il ruscello, cristallo dei poeti… le pietre vegetali e le nubi ‘limpide’”. Il ‘metodo’ impone Costa come uno dei pensatori più originali del teatro europeo, uno dei più alti. Anticonvenzionale (nel 1970, a Paolo Grassi: “E, soprattutto, che vuol dire oggi Direttore di un Teatro Stabile, a Roma? Se si tratta di assumere responsabilità amministrative in un ambiente di pressioni politiche e di ambizioni temerarie, dove si devono maneggiare diecine o centinaia di milioni, dico subito, no”), convinto che “l’agire primario dell’uomo è pura Poetica” (fecondissima la collaborazione con Mario Luzi), rileggerne la biografia di uomo di teatro attraverso i quaderni, in una pubblicazione voluta, tra l’altro, dalla Fondazione Teatro Nazionale della Toscana, L’acrobata dello spirito. I quaderni inediti di Orazio Costa (Titivillus, 2018, pp.252, euro 18,00), è una meraviglia. Leggere quanto Costa scrive di Dante (“Un recente contatto nuovo con la poesia di Dante… è stato l’essermi commosso quasi alle lagrime non più tanto dall’altezza sempre più penetrante della sua invenzione ai tre diversi gradi – per non essere noi in grado di scoprirne degli altri più segreti – del suo viaggio nell’esperienza dell’esprimibile e dell’inesprimibile, quanto dall’immensità della sua ingenuità, del suo candore”) e le indicazioni di lettura intorno a L’infinito di Leopardi e quell’inno formidabile alla danza del 1988, “Danzo il nascere il vivere il giocare l’amare il procreare il partorire il soffrire il gioire. L’invecchiare il morire e continuo a danzare, oltre l’ombra del morire, oltre tutte le ombre e tutte le luci, ciò che sogno, coniugando sogni e fantasmi, chimere e draghi”, ci fa sentire la stretta e l’ambasceria del maestro. A compiere questo lavoro di studio e di scavo è stata un’attrice importante, Laura Piazza, che oltre alla disciplina appresa al fianco dei grandi (ha recitato con Albertazzi, Elisabetta Pozzi, Maurizio Donadoni, Massimo Popolizio, è stata diretta, tra gli altri, da Claudio Longhi, da Antonio Calenda e da Filippo Renda per il monologo Ghertruda la mamma di A. scritto da Davide Rondoni), porta in giro il verbo dei poeti (Mario Luzi, Dino Campana).
Orazio Costa: qual è la ‘rivoluzione’ del suo ‘metodo’ e cosa hai scoperto, in particolare, tra le sue carte?
Orazio Costa è l’ideatore del principale metodo per la formazione dell’attore elaborato in Italia, il ‘metodo mimico’, che ha potuto sperimentare in oltre cinquant’anni di attività di didatta con migliaia di allievi (da Nino Manfredi a Rossella Falk, da Gianrico Tedeschi a Gabriele Lavia, da Roberto Herlitzka a Fabrizio Gifuni, ma è impossibile citarli tutti). Il mio lavoro, costruito principalmente sui suoi quaderni personali inediti, spero possa servire a offrire un’immagine meno stereotipata della sua figura. Innanzi tutto, dimostrando, in contrasto con l’opinione comune, che la scelta di dedicarsi alla formazione dell’attore non fu un ripiego, dettato dalla crisi dell’impegno come regista (accanto a Visconti e Strehler, Costa fu uno dei maggiori metteur en scène degli anni ’50 e ’60 e gli si attribuiscono più di 170 regie) ma una scelta programmatica, non a caso perseguita sin dal 1944. Le idee furono chiare fin da subito: bisognava ripartire dalle fondamenta umane della scena, dall’attore, per una riforma generale dello spettacolo. Un criterio che lo avvicina ai maggiori innovatori europei, che sull’interprete più che sulla regia-sovrastruttura scelsero di indagare. Un attore-creatore, in netta controtendenza con la neoavanguardia italiana degli anni Sessanta e Settanta (che nel suo manifesto principale, quello di Ivrea ’67, all’attore non dedicò nemmeno un paragrafo), su cui continuerà a interrogarsi con spirito inquieto fino alla fine. Non a caso, sigilla il suo ultimo quaderno – dieci giorni prima di morire – con “ho provato; ma devo verificare”. Il libro approfondisce pure alcuni momenti centrali della biografia di Costa: dall’infanzia ai giorni tragici della guerra, al rapporto con i maestri Silvio d’Amico e Jacques Copeau, dalla militanza nella Compagnia dell’Accademia alla direzione del Piccolo Teatro della Città di Roma, al fallimento del Teatro Romeo, ai viaggi in India, fino al lavoro al Centro di Avviamento all’Espressione di Firenze. Ho incontrato, attraverso i suoi scritti privati, un personaggio gigantesco e fragile, che mi ricorda – le volte che lo dimentico – la responsabilità e la grazia dell’essere attore.
Che idea di teatro promuoveva Costa? E che tipo di ricerca teatrale questa idea annuncia, promuove?
La lunghissima elaborazione teorica del metodo mimico non è stata sempre condivisa da Costa con gli allievi, ai quali offriva il suo infaticabile magistero quasi nascondendo le articolate premesse degli sviluppi pratici. Per Costa è necessario ripristinare la dimensione rituale del teatro e soprattutto recuperare una continuità tra lo spirito della scena e quello della società di cui è espressione. La crisi del teatro è per lui una “crisi di ritualizzazione”. Il problema della ritualizzazione (che mi sentirei di estendere a tutti i fenomeni della nostra società), della sua aporia contemporanea, deve essere per Costa il tema di fondo di ogni indagine speculativa, esperimento di messa in scena e impresa produttiva. Per rinnovare la scena teatrale è necessario attuare un sovvertimento dell’intero sistema, che, a partire dalle radici umane, rivitalizzi e ristabilisca quelle premesse che sono proprie del gesto liturgico, la cui prerogativa consiste nell’avere una strutturazione stabilita che può subire l’influenza della personalità che la esegue pur mantenendo intatte l’essenza e la rivelazione per essa del mistero. Nello specifico, il metodo mimico si fonda sul principio indicato da Henri Bergson della funzione attiva, quindi interpretativa, del reale da parte dell’uomo. Non si tratta di imitare le forme esteriori dei fenomeni naturali o degli animali – non è il gioco del mimo – ma è un rispecchiamento che avviene sia a livello intellettuale che a livello corporeo, a partire dalle più segrete componenti muscolari, tendinee, dagli apparati più nascosti per convergere verso quello fonatorio. Nel risvegliare la facoltà di antropomorfizzazione innata nell’uomo, il metodo consegna all’attore una responsabilità nuova: quella di ripristinare in sé le condizioni della creazione artistica, proseguendo con ciò l’operato della creazione originaria. Nell’atto mimico, l’uomo riconosce dentro di sé l’infinità delle strutture della natura, si riscopre come “un’arca” che tutto contiene: l’acquisizione sensoriale della realtà, premessa all’espressione artistica, è l’esito di un atto d’amore verso il creato e l’increato, dello sguardo di accoglienza e di prolifica espansione dell’esperienza individuale. Il neoumanesimo costiano finirà per travalicare gli argini di una teoria unicamente attoriale, spingendosi oltre i confini della scena e indicando un destino per l’uomo – sulla scena e fuori – più alto e più degno, nel segno della consapevolezza dei propri infiniti mezzi e della necessità di nutrirli e sapientemente impiegarli come atto d’amore verso sé stessi e il mondo dei fenomeni naturali e spirituali. Credo che questo sia il portato più importante della ricerca costiana.
Costa, leggo, si riferisce molto ai poeti, anche nella precisazione del ‘metodo’: come mai?
Nel ’91, Costa scriveva “avrei voluto che più spesso ci si fosse accorti che tanto i miei errori quanto i miei successi erano merito o colpa del mio unico rabdomantico impegno d’inseguire, scovare, far zampillare poesia”. Non sono rare le occasioni in cui Costa definisce Dante, Rilke, Pascoli come suoi principali maestri, per non parlare del lungo e prolifico sodalizio con Mario Luzi. Ai loro testi Costa fa risalire le più vivide intuizioni che porteranno all’elaborazione del metodo. Il legame tra teatro e poesia non è solo dettato dalla convinzione che il primo sia lo spazio vitale della seconda, in cui essa può muoversi liberamente come nel proprio ambiente naturale. La poesia è origine del metodo in quanto esso si fonda sul principio dell’analogia poetica, su un processo di metaforizzazione continua. L’attore-creatore è poesia vivente, poesia in atto, destinato a convogliare nel suo corpo laringizzato, nel suo corpo-voce, la facoltà metamorfica propria della poesia in un processo infinito di creazione. Inoltre, Costa considera prioritario che l’attore ‘frequenti’ insistentemente la poesia, “col suo mistero di parola increata, di corteo o di gara di vocaboli intorno al nome ineffabile del Dio che in quel momento persegue”: la poesia insegna all’attore la fatica di strappare la parola al silenzio, al buio dell’inespresso. L’attore è concepito come una specie di perenne “vedovo della poesia”, destinato a convivere con un senso di mancanza che costituisce la sua ragion d’essere.
In una intervista, Costa dice che la disciplina teatrale dovrebbe entrare nelle scuole. Ottima intuizione, per ‘liberare’ gli studenti dalla prigionia dei programmi scolastici, della vita univoca. Ma lettera morta. Come mai?
Non credo che Costa si opponesse ai programmi scolastici, per lui la formazione letteraria dell’attore, per esempio, era determinante nei primi anni di studio, almeno tanto quanto quella pratica. L’idea di predisporre delle classi di teatro presso le scuole di ogni ordine e grado fu perseguita in effetti con una certa convinzione, tanto che nell’ottobre 1995 Costa avanzò direttamente al Ministro della Pubblica Istruzione la sua proposta, purtroppo senza esito. Il teatro, rivendicava, ha da sempre una funzione educativa e formatrice. Nello specifico, il metodo mimico, che da anni egli impiegava con successo a Firenze presso il Centro d’Avviamento all’espressione non solo con attori professionisti ma pure con bambini, anziani e disabili, ha il vantaggio di potenziare la libera espressività corporea. L’introduzione sin dai primi anni di scolarizzazione di attività artistiche significa per Costa recuperare un torto inutilmente arrecato a una sfera di competenza della vita umana, che ha relegato l’arte e la poesia a contributi meramente esornativi, dimenticando la funzione conoscitiva ed evolutiva che esse hanno rivestito e continuano, nonostante tutto, a esercitare.
All’attrice e alla studiosa chiedo: in che stato vive, oggi, il teatro italiano?
È delicato per me rispondere a questa domanda, perché è difficile avere uno sguardo lucido su un “corpo” amato che si osserva in grande sofferenza. Mi torna alla mente una battuta del Libro di Ipazia di Mario Luzi: “Le acque dappertutto corrono nel senso opposto al vostro disegno/o sogno che sia”. Sembra che nel nostro tempo non ci sia più spazio per il teatro: iniziano a nascere i primi DAMS in cui Storia del teatro non è materia obbligatoria; gli spettatori – nonostante i proclami – sono sempre meno; la crisi economica è ormai insostenibile; la riforma Franceschini ha creato la mostruosità di spettacoli che nascono e muoiono nel giro di un mese, cioè che nascono già morti. È un teatro di burocrati che segue regole e criteri che farebbero sorridere, se dietro non ci fosse il destino di migliaia di attori (esseri ormai “semi-mitologici”). Già nel ’92, Costa dichiarava che in Italia l’unica possibilità per un attore di valore di esercitare la propria arte in maniera libera e creativa era farlo al di fuori del professionismo. Diceva: “credo che non sia un’utopia, ma una cosa verso la quale fatalmente si dovrà andare. La condizione economica esclude i bravi attori, la condizione artistica esige gli attori bravi. Se ci sono degli attori bravi disgustati di non lavorare, che vogliono lavorare per forza, non c’è che la soluzione dilettantistica”. Credo che la crisi del teatro, così strettamente legata alla crisi della figura dell’attore – elemento ormai ritenuto quasi accessorio sul piano economico, quindi sul piano sostanziale –, sia una delle conseguenze della nuova perdita di centralità dell’uomo, che certo non è più il vertice di tutti gli interessi. Ma il teatro, luogo della Parola, vive e io ho fiducia nell’impegno degli interpreti che – nonostante tutto – se ne fanno garanti. D’altra parte, la luce dell’aurora può a volte essere confusa con quella del crepuscolo.
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“Se sapete che il vostro strumento siete voi stessi, conoscete anzitutto il vostro strumento, consapevoli che è lo stesso strumento che danza, che canta, che inventa parole e crea sentimenti. Ma curatelo come l’atleta, come l’acrobata, come il cantante; assistetelo con tutta la vostra anima, nutritelo di cibo parcamente, ma senza misura corroboratelo di forza, di agilità, di rapidità, di canto, di danza, di poesia e di poesia e di poesia. Diverrete poesia aitante, metamorfosi perenne dell’io inesauribile, soffio di forme, determinati e imponderabili, di tutto investiti, capaci di assumere e di dimettere passioni, violenze, affezioni, restandone arricchiti e purificati… tesi alla rivelazione di quel che l’uomo è: angelo della parola, acrobata dello spirito, danzatore della psiche, messaggero di Dio e nunzio a se stesso e all’universo d’un se stesso migliore”.
Orazio Costa, Quaderno 39, 6 novembre 1989