06 Aprile 2018

“La scrittura è un viaggio verso l’ignoto”: dialogo con Filippo Tuena

Al principio fu la folgorazione. Antartica. Perché mi piace Antartide? Non lo so. Sarà per la ‘bianchezza’, direbbe Herman Melville. Io direi l’innocenza. L’innocenza è innaturale e uccide. Forse Antartide è la mascella del Dio carnivoro e incarnato. Ma qui, davvero, devio. Sta di fatto che, antarticamente, la narrativa italiana mi annoia. Dieci anni fa, ebbi la benedizione dello shock antartico. Filippo Tuena, romano, classe 1953, scrive il libro sulla spedizione avventata di Robert Falcon Scott, alla conquista del Polo Sud. Il libro s’intitola Ultimo parallelo, per fortuna non piace solo a me – nel 2007 ottiene il Premio Viareggio. Il libro è bello davvero, qualcosa di assolato nel nevaio della letteratura recente. Tuena è una specie di Robert Falcon Scott della letteratura italiana. Si avventa verso le pozze d’ombra della Storia. Scava nei personaggi assoluti, ne rileva le ambiguità, i tenebrosi lirismi. Una specie di incrocio tra Plutarco, Marco Polo e uno storico confuciano con l’ansia della sintesi, di chi costeggia le catacombe con una fiera di candele. Così, Tuena è entrato dentro Michelangelo (Tutti i sognatori), dentro Schumann (Memoriali sul caso Schumann), dentro Shakespeare, perfino (Com’è trascorsa la notte). C’è un’altra cosa che mi affascina di Tuena. Anzi, due. Primo. Non crede nell’altarino della narrazione ‘tradizionale’. Cioè non crede in un tizio deputato a essere scrittore che di sana pianta s’inventa una vicenda pretendendo che noi, pallidi cretini, nell’era dell’informazione percussiva e permanente, gli crediamo. Per questo, feconda la Storia con granate di meraviglia. Secondo. Non molla l’ignoto. Tuena ha fede nelle sue ossessioni. Così: dietro al romanzo su Michelangelo c’è la cura del carteggio michelangiolesco (La passione dell’error mio) e dopo Ultimo parallelo c’è una collana, ‘Tusitala’, edita da Nutrimenti. Per cui Tuena ha curato, per dire, Scott in Antartide e i Diari antartici di Scott, Shackleton e Wilson. “La conquista del polo non è la conquista di un punto geografico riconoscibile – una vetta, una sorgente, i ruderi di un’antica città sepolta”, scrive Tuena in una postfazione piuttosto esemplare, Esploratori al limite. “Il panorama è indistinguibile – un immenso altopiano imbiancato – e soltanto attente misurazioni possono determinare il punto d’arrivo”. Poi, alla fine, il colpo di genio. Tuena coniuga la ricerca forsennata e determinata del Polo al “nitore di una bella frase o la perfezione d’una forma artistica”. Lo scrittore scrive sulla neve, si muove nel bianco rapace, brancola nel biancheggiare. Esplora il limite, fino all’ultimo verbo lecito. E ce lo consegna.

Partirei da qui. Dal come e dal perché hai iniziato a scrivere (precocemente pubblico). E dalle letture. Hai avuto dei maestri, dei libri ‘maieutici’?

Tuena
Lui è Filippo Tuena

A parte romanzi quasi adolescenziali, scritti sulla Olivetti Lettera 22, ai tempi dell’università ho bazzicato un po’ i teatrini romani, scrivendo testi, ma soprattutto mi sono dedicato alla Storia dell’arte. Poi, intorno al 1989, mi è presa la voglia di rischiare con la narrativa. Se non ricordo male – ma non ricordo male – concorsero due libri italiani a spingermi a cimentarmi nel genere: Le menzogne della notte di Bufalino e Notturno indiano di Tabucchi. È stato un azzardo. Avessi continuato con i saggi d’arte forse sarei diventato uno storico rispettabile; ora mi sembra di essere un narratore eccentrico. Ero totalmente estraneo alle lettere. Ricordo che mandai il dattiloscritto del mio primo romanzo a quattro editori – Adelphi, Einaudi, Feltrinelli, Bompiani – con questa formula completamente anonima: ‘Gentile casa editrice, v’invio questo mio romanzo…’. In realtà non conoscevo proprio nessuno. Foà mi rispose dopo poche settimane, con una lettera personale e firmata nella quale diceva che avrebbe preso in considerazione il testo; la Einaudi mandò un biglietto prestampato; Feltrinelli rimandò il manoscritto indietro; Bompiani rispose dopo tre anni quando già il romanzo era stato pubblicato. Dopo un anno di attese mi telefonò Pontiggia che aveva letto il testo all’Adelphi e lo aveva apprezzato. Col tempo diventammo amici. È stato lui il maestro, il confidente, lo stimolo. Il libro poi uscì con Leonardo Mondadori, che aveva appena aperto la sua casa editrice. Il secondo romanzo uscì con la Longanesi, per espressa richiesta di Mario Spagnol. Ecco, le persone che mi hanno incoraggiato in quei tempi ormai lontani: Giuseppe Pontiggia, Leonardo Mondadori, Mario Spagnol.

La cosa che mi conquista dei tuoi libri è che penetri il frammento di una storia, e da lì esplodi. Penso al libro su Schumann. Ecco, come si lavora a un libro come a quello su Schumann? Ha senso, per quel che ti riguarda, la categoria di ‘romanzo storico’?

Mi piace che adoperi il verbo ‘esplodere’. È effettivamente quello che mi accade quando affronto una storia. E, alla fine, i libri che scrivo documentano più quell’esplosione che la vicenda storica che racconto. Sono colpi di fulmine, legati a un’impressione esterna, a un particolare, a qualcosa d’immateriale che scrivendo si manifesta. Sai, per Schumann m’interessava lavorare non sulla storia d’amore con Clara – che noia – ma sulla crisi finale, sullo sfaldarsi del corpo (un po’ com’era stato per Scott), sullo scontro tra l’esuberanza giovanile di Brahms e la debolezza, la fragilità di un uomo maturo. Nel momento in cui affronto le Geistervariationen, una composizione così frammentaria, così titubante, così antischumanniana (almeno riferita allo Schumann giovanile) il libro prende per forza quel tono frammentario. Del resto puoi lavorare solo con i frammenti che emergono dalle macerie. Quanto al romanzo storico – se per romanzo s’intende il genere ottocentesco – lo digerisco poco. Tanto poco quanto poco digerisco le narrazioni d’invenzione. Mi piace la realtà, mi piace la storia ma credo che sia necessario scrivere quanto più scarno possibile; non aggiungere, non edulcorare. Ricordo una bella frase che scrisse Debenedetti su le Variazioni Reinach: ‘Rifugge dalle lusinghe del romanzesco’. Sì, le aborro proprio. E tuttavia scrivo narrativa, su questo non credo ci siano dubbi. Ma tra narrazione e romanzo c’è una bella differenza. Credo che la chiave di volta sia quella che dicevo prima: racconto lo stordimento che subisco dopo l’incontro con una vicenda che mi travolge. L’impatto che ne segue.

Michelangelo, Shakespeare: come è possibile azzannare tali titani? Penso all’ultimo tuo libro, una indagine (stilisticamente proteiforme) dentro il ‘Sogno’ shakespeariano: da dove è venuta l’ispirazione?

libro tuena 1Foà diceva spesso che al narratore conviene frequentare i grandi perché qualcosa rimane attaccato. È quello che faccio. E in realtà più sono grandi e più sono accoglienti. Frequento il carteggio di Michelangelo da una ventina d’anni e, per me, è una sorta di breviario laico. Mi accompagna, mi dà soluzioni. È un riferimento costante. Inflessibile. O lo accetti o lo rifiuti in toto. I testi di Shakespeare, al contrario, consentono incursioni ardite, capovolgimenti, interpretazioni. Sul ‘Sogno’ ho lavorato semplicemente ‘osservando’, facendo collegamenti piuttosto evidenti (almeno ai miei occhi) ma poco frequentati. È un autore proteiforme – almeno quello che emerge dai testi a stampa – che, sono convinto, si devono a un lavoro di collaborazione tra più autori e che non sono i testi che venivano messi in scena al Globe. Shakespeare (chiunque sia) è un teatrante. Calca costantemente il palcoscenico. Nel mio libro ho provato a fare una regia teatrale, forse memore della mia passione giovanile per il palcoscenico. E poi è uno che dice le cose come stanno. L’esordio del Riccardo III sempre mi sgomenta: ‘Now, is the winter of our discontent…’. Quel Now, è meraviglia pura: annuncia, determina, dà inizio.

Mi è piaciuto molto ‘Ultimo parallelo’, sono un fan delle avventure verso l’assurdo ignoto, il polo. Che cosa ti ha affascinato dell’impresa di Scott? E come hai pensato di farne materia narrativa, attraverso quali espedienti?

Ultimo parallelo è un libro letterario, totalmente, assolutamente letterario. È un libro sulla scrittura e sulla lettura ed è per questo che è un libro che racconta un viaggio verso l’ignoto, così come sono ignoti i sentieri della scrittura e le pulsioni che la muovono. Quanto più sei simbolico, tanto più raggiungi l’obbiettivo. Quanto più filtri, tanto più vai al cuore del problema. Le Variazioni Reinach, per esempio, non lo considero un libro sulla Shoah, ma sul rapporto tra padri e figli. L’ho scritto con quest’idea in testa. La chiave per capire Ultimo parallelo si ha quando Atkinson entra nella tenda e comincia a leggere i diari degli esploratori. Allora i fantasmi prendono vita. Allora avviene la coincidenza tra il lettore e il personaggio.

Una cosa che ti distingue. La tua ricerca letteraria non si esaurisce in un romanzo. A volte è come se la materia fosse troppa, deve sviscerarsi altrove. Mi riferisco ai lavori sui diari di Scott e sulle lettere di Michelangelo, consecutivi alla fiction. Come se a quel punto tra documento fittizio e reale non ci sia più differenza. Spiegaci. 

libro tuena 2Mi sembra un dovere verso il lettore mostrare le pezze d’appoggio delle mie narrazioni. Per questo non soltanto pubblico fotografie ma quando posso, quando trovo un editore disposto ad affrontare il rischio, pubblico un libro a sostegno di un altro libro. È accaduto con Michelangelo per il carteggio; è accaduto con Scott, per i diari; è accaduto anche con Schumann, di cui ho pubblicato con Anna Costalonga le lettere dal manicomio. I reperti archeologici della letteratura, della musica, della storia vanno segnalati. Al narratore spetta il compito di metterli in relazione tra loro, di assemblare. Bisogna suggerire percorsi al lettore fatti sia di letteratura o bello stile che di documentazione.

Cosa leggi oggi? Pensi che la narrativa italiana sia all’altezza del tempo presente, se così si può dire? Qual è la scrittura del futuro venturo?

Di solito leggo i libri che mi servono per scrivere i miei libri; dunque ogni due/tre anni cambio sostanzialmente panorami. In qualche caso li protraggo a lungo. Per esempio, colleziono libri sull’Antartide, su Michelangelo e su Roma durante l’occupazione nazista (per via di Tutti i sognatori). Sono molto fedele alle passioni. Per questo stesso motivo cerco di leggere tutto di un autore, se mi piace. Leggo poca narrativa ma quella che leggo è abbastanza simile a quella che produco. Mi piace il lavoro che fanno alcuni autori italiani. Non li cito perché loro lo sanno e se me ne dimenticassi qualcuno mi dispiacerei e si dispiacerebbero. Lavorano più o meno come lavoro io sulla narrazione. È inevitabile che ci s’incontri. Voglio loro del bene e fanno bei libri. Le due cose per me coincidono. Ci sono dei giovani che seguo con interesse anche se mi piace poco questa sorta di manierismo che mi sembra contagiare la letteratura emergente. La lingua dev’essere sempre al servizio della pagina (questo è un insegnamento di Pontiggia) e non viceversa. Aggiungo un altro paio di regole fondamentali sulle quali baso il giudizio sui libri altrui e che sono alla base dei miei: ‘Non bisogna raccontare tutto, ma solo quello che serve’; ‘Fare narrativa non è fare un resoconto, è ricordare’.

Che libro avresti voluto scrivere? Che libro stai scrivendo?

Finora sono soddisfatto dei libri che ho scritto. Cerco di alzare l’asticella ogni volta e se magari il lettore preferisce titoli di qualche anno fa, io ho sempre la passione per l’ultimo uscito o per quello che sto scrivendo. È normale. Altrimenti non scriverei o non pubblicherei. M’interessa sempre il rapporto tra individuo e genere, tra storia individuale e collettiva. Alla fine racconto sempre di persone che sbattono il grugno e mi ritrovo sempre a parlare di me: di come sbatto il grugno scrivendo. Il libro a cui sto lavorando adesso è un ritorno al passato, ai miei studi di storia dell’arte. Una sorta di autobiografia affettiva attraverso le opere d’arte. Indago i motivi dei miei amori, delle mie passioni e finisco inevitabilmente di parlare di me. Che cosa mi dice quella tale scultura greca? Perché quel quadro di Velazquez m’innamora? Fin dove arriva nel profondo? Cosa smuovono certi dipinti nel mio passato che credevo assopito? Insomma, una sorta di autoanalisi. Mi sembra un bel cimento. Ho sempre voluto scrivere un libro di lettere d’amore e di lettere d’addio. Forse lo sto scrivendo.

 

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