20 Novembre 2024

La bellezza e il buio. Lettera a Cristina Eléni Kontoglou

Gentile Cristina Eléni Kontoglou,

c’è un sigillo sulla sua poesia, impresso a caldo e profumato di sostanze eteree e terrestri in egual misura. Scaglie d’oro, bizantine, antiche, insieme a scarti, detriti, distacchi, dissolvenze, transiti, cavalcavia, superstrade, profili di tramonti, di confini lontani, distesi all’orizzonte, neri come apparizioni sorgenti, rivelati nel nulla cosmico, che nulla non è. Non parlo di natura, bensì dello stato del poeta, la temperatura psichica del suo sentire in tensione: già all’inizio il mondo si manifesta drammatico, biologico ed eterno, infinitamente piccolo e infinitamente grande, e il paesaggio è il luogo che vive in me, solido e visionario, abitato e selvaggio, lineare e irregolare. Perciò i primi versi d’apertura testimoniano un travaglio:

Ricerco annessioni
comprensioni di senso
precisazioni,
la terra accidentata che frana
per sfaldarsi nell’apertura del tempo,
si frantuma con una goccia
di olio di enoterra aggiunta
all’impasto dei sassi,
troppo friabile
per spaccarsi con decisione,
è una terra preparatoria
da coprire con i canovacci bagnati
per non lasciare evaporare le essenze. […]

Le segrete vie della materia subiscono una sorta di caduta interna, che le travolge nell’andare alla loro origine, nel consacrarle alla tradizione poetica, frutto di un’accensione e un avvitamento formale simile alla struttura a spirale del DNA, in funzione espressiva, di vittoria sul limite. Movimento che si espande e si comprime contro la standardizzazione del mondo. Forze primordiali agiscono. Non c’è allineamento. “E dunque!” viene da dire con le parole di Teilhard de Chardin:

“Se è così, come non vedere che, ben lontano dal sovraccaricare e confondere il disegno del nostro mondo in evoluzione, l’apparizione pliocenica del Pensiero sulla Terra costituisce, al contrario, un avvenimento che completa ed illumina drammaticamente ai nostri occhi (se solo lo sappiamo guardare bene) la storia immensa della Materia totale?”.

Il tutto vinto da una certa fierezza che nasconde una femminilità ferita, nostalgica, tuttavia energica, attenta. Ma ogni cosa è in atto, e ciò che è lontano è il più visibile infinito possibile; della voce, direi, ma anche dell’immagine, in grado di far pensare a un sogno, quello del filosofo greco che, sconfinando i pensieri nell’aria, immaginava l’orizzonte poter venire incontro (non noi da esso, bensì l’opposto!), e avvicinandosi, attraversando il mare, smentire il vero percorso del nostro sguardo, che in questo caso misura la distanza annullandola, diventando linea netta nella nostra pupilla, riflessa, incastonata a forza di luce, e di evidenza nuova, al lampo di magnesio (per aggiungere una materia alle tante citate dentro il suo libro).

Seguono metamorfosi su metamorfosi (“[…] Io vorrei farmi erba amara / per essere colta in primavera […]”, pag. 10. “[…] se non fossi mercurocromo / per disinfettare le tue croste / potrei trasformarmi / in un fiume che ti scorre dentro / scorre attraverso sogni / di granato […]”, pag. 37. “[…] scuotimi adesso / perché sono una coperta […]”, pag. 66), forse proprio per dire che l’affanno umano è animo che cerca, che ama cercare il punto più lontano, fino a disperdersi, o protendersi presso e oltre il lontano più vicino, per somiglianza, affinità, affinché possa, incarnandolo, incantarci e cambiarci.

Che cosa siamo? Varietà che non si consolida, in quanto proiettata fuori, nel sempre, strada che non spunta da nessuna parte, o continuamente aperta, smisurata, giacché segno di perenne cammino… o cielo, verità domestica, feriale, che aspira ad essere… cosa?… un’ombra da staccare sul fronte dello schermo privato, multimediale, che pure tenta di sorprenderci, filtrando in giro per le nostre case, emotività e sentimenti umani diffusi. Molto, oggi, del nostro quotidiano, passa da lì, ma finalizzato a un solo scopo. Qui non accade questo, intendo in Semiotica notturna (peQuod editore, 2024), si avverte invece il polso lirico e furioso dell’andare a capo, all’origine, che non concede forze ma solo destino, obbedienza. La poesia si fa arma da taglio, o diciamo che a volte lo è, sul dorso della pagina ruvida, impervia, sul contemporaneo trascorrere del tempo. Tempo che è incerto, perché nascosto, come s’intuisce.

Senza dubbio l’esercizio della poesia rende migliori, è il distillato di contemplazioni ed eternità, motivi per credere ancora, per esserci, sebbene ci sia un fantasma che guida alla conoscenza di sé, che entra nel libro, nel sangue, nelle parole, nel soggetto narrato, e di conseguenza il lettore si sente quasi tritato dalle lame taglienti che operano. Materie incandescenti, a volte, a volte opache, in chiaroscuro, cupe, trasfigurate in mostruose fattezze eroiche, o di quello che resta dell’eroe, dunque da metafisica di De Chirico o di suo fratello Savinio. Operando una sintesi straordinaria la materia diventa io. È un campo di dinamiche poetiche e interiori strepitose. Cito la poesia intitolata Manufatto, a pagina 65.

Le persone in me
sono luoghi di ologrammi
non c’è posto per le anime.
Solo spazi abitati
da fantasmi in pellicola
bidimensionale.
Stampe in gelatina d’argento
percorse da olografie
di onde interferenti.
Sono pattern creati
da una memoria efficiente,
non conoscono parti scandagliabili.
Ogni frammento di immagine
contiene le stesse
informazioni di insieme:
se fossi tentata di tagliarli a metà
per sottrarre ricordi
ogni sezione mostrerebbe
insistente
inflessibile
il suo oggetto per intero.

Il mondo antico ha perso le sue ali, ma mantiene qualcosa di alato nel suo abisso, che preme in superficie. Perché tutto tende a una luce e a un passaggio, penso io (“È qui che il bronzo si fa argento” pag. 29), e ugualmente si compie il dramma dell’uomo, sempre in gioco, sempre in cerca. Nonostante il timore faccia tremare e desistere l’intera macchina che siamo (“quando frena / per paura di arrivare al panorama incandescente”, pag. 62), è la solidità di quel sigillo iniziale che vince, primo segno di espressione dell’essere, suo marchio e identità. Noi stessi ci neghiamo, o una parte di noi finisce per negarci, o ci sentiamo negati nel nostro spirito più vero (occorre significativa riflessione: “Come può esser ch’io non sia più mio?” recita Michelangelo nelle Rime, o si legga a questo proposito Il sosia di Dostoevskij). Eppure il cambiamento ci riguarda, ci somiglia, incarna una trasmutazione degli animi che è la nostra misura; “qui tutto è divenire” viene scritto nell’ultima pagina, in un diluvio di parole che anela alla pienezza.

In un altro libro Agrimonia, stavolta di racconti, pubblicato da Fallone Editore, l’anno scorso, si legge:

“Tutto quello che aveva di bello restava confinato all’esterno, e voleva vedere fino a che punto la bellezza lo avrebbe scusato del buio che aveva dentro”.

Incredibile! Ecco il segreto del mondo, che è nella bellezza del perdono, come pure nell’impassibilità apparente della materia, tangibile e fredda. Si parla di questo, di questo e di altro, ma soprattutto di questo, arrivando all’improvviso, in un dettaglio della realtà che diventa tutto, che con la sua particolarità rivelativa ci dice che cosa siamo, e che ci stiamo a fare sulla terra. Per cogliere questo enigma, questo dramma, dico io, che è ben descritto nelle sue parole, enigma che si può solo vivere. L’imperturbabilità, diciamo così, della materia, è la sua resistenza, e la bellezza è nel perdono che essa nutre nel rimanere, nell’esistere, nell’essere alla sua radice mondo creato, perché mondo creato, perdono muto di ogni strazio che provochiamo, poi nostro dolore, nostro rimorso a vedere morire, a veder distruggere, un tempo e ancora oggi. Solo chi ha vissuto come lei, Cristina, fra la Grecia e Firenze può capirlo e restituirlo in forma e in lettura per noi, due luoghi che hanno afferrato la bellezza, il suo destino, che è il nostro. Grazie.

Vincenzo Gambardella

*In copertina: un’opera di Franco Rasma

Gruppo MAGOG