La leggenda può essere più autentica della vita? Di certo lo può in via Potapov, a Mosca, a venti minuti dal centro: è l’indirizzo dell’appartamento dove una bambina di nove anni, Irina Emelianova, ha visto per la prima volta il volto di Boris Pasternak, legato alla madre, Olga Ivinskaja, dal grande amore che il mondo avrebbe presto scoperto leggendo Il dottor Zivago. Qui iniziano le peripezie drammatiche connesse al romanzo (che arrivano fino all’arresto e alla deportazione di madre e figlia). Di qui passeranno altre figure leggendarie, tra cui Varlam Šalamov con i suoi Racconti di Kolyma, e Ariadna Efron, figlia di Marina Cvetaeva, sopravvissuta a sedici anni di deportazione. Ad Ariadna è dedicato un capitolo commovente nel libro Légendes de la rue Potapov, pubblicato in Francia da Syrtes, inedito in Italia.
Fu Boris Pasternak ad introdurre Ariadna (Alja) nelle vite di Olga ed Irina: durante gli anni della deportazione in Siberia, Pasternak leggeva loro le sue lettere piene di talento, di cui andava orgoglioso, fin quando fu liberata e riabilitata nel 1955, e poterono incontrarsi di persona. “Era apparsa improvvisamente a casa nostra in via Potapov nel 1955”, racconta Irina Emelianova, “nel nostro piccolo appartamento al quinto piano. […] Ariadna apparve bella, abbronzata, con occhi sorprendenti, profondi come un lago, di un blu che non aveva ancora perso la sua intensità. […] Entrò subito nella nostra vita, scegliendo il nostro appartamento come se fosse la sua casa”.
L’intima amicizia tra Ariadna e Irina durò fino alla morte della prima, nel 1975, e si cementò nelle ore peggiori.
“Durante la malattia di Pasternak, era con noi ogni giorno, in tutti i sensi, fisicamente e moralmente; era convinta che sarebbe guarito e cercava di convincerci a fare altrettanto […] Aveva preso su di sé e per sé – non è una metafora – la disperazione di mia madre, la portava dentro di sé”.
Durante gli ultimi giorni di Pasternak, Irina ed Olga le inviarono un telegramma per chiederle di recarsi alla “grande dacia” e favorire una visita di Olga, esclusa dal capezzale del poeta. Da Tarusa, dove si era costruita una piccola dacia, Ariadna arrivò subito a Peredelkino. Non poteva essere diversamente: nel suo cuore, Pasternak aveva preso il posto dei genitori. L’aveva aiutata a sopravvivere in Siberia: grazie a lui era riuscita a comprare una piccola casetta “dickensiana”, di legno, a Turuchansk, dove aveva vissuto con l’amica Ada Skodina, incontrata nella prigione di Rjazan (e con cui poi condivise il resto della sua esistenza). Come un eremita parla con Dio, Ariadna parlava con Boris nei suoi terribili inverni polari: lettere straordinarie che bruciano di quello stesso amore, unico e irripetibile, che aveva legato per molti anni la madre, Marina Cvetaeva, e Boris Pasternak.
“Sono cresciuta tra i tuoi versi e ritratti, tra le tue lettere, da lontano simili a partiture, tra la tua corrispondenza con la mamma, tra voi due eternamente vicini ed eternamente separati e tu da tempo sei entrato nella carne e nel mio sangue. Prima di te ricordo e amo solo la mamma”.
(31 gennaio 1950)
“…eravate come due ali di un unico uccello. Care le mie ali, luminose, forti, pure, voi siete anche ora con me, del tutto priva di ali, e non lasciate la mia anima fino allo stesso confine terrestre”.
(9 novembre 1951)
Con quelle stesse ali, forti e luminose, Ariadna volò dunque a Peredelkino in quegli ultimi giorni di maggio del 1960. A lei le porte della “grande dacia” furono aperte: sperimentò così per la prima volta l’agonia di una persona cara. Si ostinava a confidare nel miracolo. Trasmetteva a Boris i messaggi di Olga, sosteneva lei e Irina e, a casa, preparava loro i pasti.
Quando Boris spirò, nella notte tra il 30 ed il 31 maggio, immenso fu il dolore nella “piccola dacia” dove vivevano Olga e Irina. Quel giorno Alja restò con un’ala spezzata. Nell’agosto del 1951, da Turuchansk, gli aveva scritto “finché vivi, respiri e scrivi […] io non mi sento orfana”. Ora, mentre il treno di Zivago (che lei per prima aveva letto in manoscritto nel novembre 1948) partiva verso lo spazio siderale dell’eternità, assieme al suo autore, tutta l’assenza e l’immensa solitudine della morte diventava evidente, tangibile realtà: Alja sentì di dover fuggire.
Ripartì per Tarusa alla vigilia delle esequie di Pasternak, il primo giugno del 1960.
“L’avevo accompagnata alla stazione”, racconta Irina, “le carrozze erano vuote, eravamo così in anticipo. Salì su quel treno di periferia con le sue borse e le provviste […] E all’improvviso questa donna, che negli ultimi giorni aveva dimostrato tanta forza, energia e organizzazione, era crollata: le lacrime le scendevano sulle guance e lei le asciugava alla maniera contadina, con il dorso della mano. No, non voleva restare; non aveva visto il cadavere di nessuno dei suoi e non voleva vedere quello di Pasternak”.
Alja non depose alcuna zolla di terra sul feretro: continuò a vivere nei versi di Pasternak e dentro i manoscritti di Marina, così densi della sua presenza. Mantenne fede alla promessa:
“Importante [è] che quanto scritto da te e dalla mamma giunga fino alle generazioni che noi ora non possiamo neppure immaginare, e con loro voi vi darete del ‘tu’. Oggi si è costretti a pagare un caro prezzo per avere diritto a vivere nel domani, a vivere per sempre”.
(28 agosto 1957)
Alja pagò un prezzo altissimo. Unica superstite di una famiglia schiacciata dagli orrori della storia (la sorella Irina morì per malnutrizione nel 1920, la madre Marina si abbandonò alla morte volontaria nel 1941, il padre Sergej venne arrestato e fucilato nello stesso anno, il fratello Georgij morì al fronte nel 1944, a diciannove anni), passò attraverso due guerre mondiali, la Rivoluzione d’ottobre del 1917, il terrore staliniano, l’esilio e il confino. Tornata dall’inferno, dedicò gli ultimi vent’anni della sua vita a ricostruire i manoscritti materni.
Se l’opera di Marina Cvetaeva si è salvata dall’oblio, lo dobbiamo al suo eccezionale temperamento. La “figlia della sua anima” divenne il suo primo editore. Malgrado le atroci prove a cui fu sottoposta, non abbassò la testa e mostrò una rara fermezza di intenti. Come scrive Irina Emelianova, c’era in lei qualcosa dell’ultimo dei Mohicani. La sua non fu una vita, ma un destino.
Marilena Garis
*In copertina: Olga Ivinskaya, Boris Pasternak e Irina Emelianova, 1959