05 Ottobre 2020

DROGATI DI LETTERATURA!

Di Romanzo con cocaina, per chi ama i rilievi giornalistici, irrilevanti, ho già scritto. L’allucinogeno, nel caso di quel romanzo, è doppio. Il primo è stilistico. Il romanzo ha un ritmo da teppista, ipnotico, cattivo, contorto, conturbante, tra la rissa e rivolta. Come spappolare il vocabolario. E fumarselo, semmai. Romanzo della deformazione, dell’individuale, anarchica, sommaria catabasi nei propri inferi. Una baldoria di bestemmie, insomma. La percezione che si ha leggendo Romanzo con cocaina è che sia una specie di Arancia meccanica. Senza polemiche ‘sociali’ – la Critica della ragion pura di un disadattato.

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La cosa curiosa del libro non è tanto la descrizione dello stato allucinatorio – omogeneizzato psichico che va da De Quincey a Baudelaire, dal Diary of a Drug Friend di Aleister Crowley, stampato in clandestinità nel 1922, a Cocaina di Pitigrilli (“La cocaina sdoppia la personalità: fa una tremenda opera disgregatrice, elettrolitica quasi, della coscienza. […] per opera della cocaina, lo sdoppiamento della personalità avviene come un’esplosione di ripugnanze”), del 1921, poi giù fino ai beat – ma che l’allucinazione consente al narratore una esasperata lucidità, una capacità retorica rapace, intransigente, spinta.

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Esempio: “Nasce in noi il desidero di rivolgersi a tutti i futuri Profeti dell’umanità e chiedergli: “Profeti buoni e gentili! Non commuoveteci, non accendete nelle nostre anime i sublimi sentimenti umani, e non sforzatevi di renderci migliori. Perché vedete: quando siamo i peggiori ci limitiamo a qualche minuscola nefandezza, quando siamo i migliori ci mettiamo a uccidere”. Cercate di capire, buoni Profeti, che proprio i sentimenti di Umanità e di Giustizia insiti nelle nostre anime ci obbligano a risentirci, a sdegnarci, a essere arrabbiati. Dovete rendervi conto che se fossimo privati dei sentimenti di Umanità, allora non saremmo risentiti, non ci indigneremmo. Dovete rendervi conto che né la perfidia, né la malizia, né la viltà della mente, ma che l’Umanità, la Giustizia e la Nobiltà dell’Anima ci costringono a risentirci, a sdegnarci, a essere arrabbiati, a essere vendicativi. Dovete rendervi conto, Profeti, che il meccanismo delle nostre anime umane è il meccanismo dell’altalena, dove dal potente slancio dalla parte della Nobiltà dell’Anima corrisponde un potente rimbalzo dalla parte della Rabbia Bestiale”. I buoni sentimenti provocano la grande rabbia; per il bene di tutti si compie il male più grave. Olè.

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C’è poi, come dire, l’oppio bibliografico. Romanzo con cocaina esce, a firma M. Ageev, su una rivista dell’emigrazione russa, a Parigi, nel 1934. La storia finisce lì, negli scantinati di un decennio di piaceri fuggitivi, di drink malinconici. Se non che il romanzo torna in auge quarant’anni fa, diventando, come si dice, ‘di culto’. Appare una traduzione in francese, un’altra in inglese; in Italia lo pubblicano due editori, nello stesso anno, il 1984: Mondadori (che affida la traduzione a Serena Vitale, affine al linguaggio della Cvetaeva) e E/O. Una visionaria querelle critica prima affibbia lo pseudonimo di M. Ageev a Vladimir Nabokov (così un articolo accademico del 1985), poi a tale Mark Levi, ebreo russo passato per Istanbul durante la Rivoluzione, approdato in Germania, e morto, nel 1974, in Armenia. In Italia si occupò della faccenda Cesare G. De Michelis – su “la Repubblica” del 21 gennaio 1986, titolo: “No, non è Nabokov” – snocciolando un altro tassello nell’alto affare per cocainomani di libri: il volto di Gheorghij Adamovic. Poeta acmeista, amico di Anna Achmatova e di Maksim Gork’ij, Adamovic sbarcò in Francia negli anni Venti, fuggendo la Rivoluzione; tradusse Cocteau e Saint-John Perse, Baudelaire e Albert Camus, non gli piaceva Dostoevskij, malsopportava i versi infuocati della Cvetaeva. Fu lui a pubblicare a Parigi i testi di M. Ageev – e aveva in odio Nabokov. Ora quel romanzo allucinato, Romanzo con cocaina, torna in Italia per Gog – bisogna saper leggere i Segni, come dice un mio caro amico.

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Piuttosto, Michail Bulgakov era morfinomane. Cadde nella dipendenza nel 1917, quando faceva il medico a Nikol’skoe, tenebrosa provincia di Pietroburgo, per sedare una reazione allergica provocata da un vaccino antidifterico. “Bulgakov aveva cominciato ad assumere morfina in dosi sempre più frequenti e crescenti. Le sue reazioni all’astinenza erano violente, soprattutto nei confronti della moglie, che però riuscì gradualmente a disintossicarlo, iniettandogli acqua distillata al posto della morfina” (Serena Prina). L’episodio autobiografico ha sfogo in uno dei racconti più noti di Bulgakov, Morfij, “Morfina”, edito nel 1927, molto tradotto in Italia – l’ultima versione è di Serena Prina, appunto, in Memorie di un giovane medico, Neri Pozza – che è anche l’ultimo testo pubblicato in vita dal grande scrittore. La storia, per struttura narrativa – qui si pubblica il diario di un morfinomane, il dottor Sergej Poljakov; lì “gli appunti di Vadim Maslennikov”, cocainomane – e cronologia fittizia – la storia narrata da Bulgakov risale al 1918; quella del folle Maslennikov è reperita “nel freddo gennaio del 1919” – si apparenta a Romanzo con cocaina. Il ritmo del linguaggio, però, è diverso: il genio de Il maestro e Margherita rende cristallina l’allucinazione, lirico l’inganno ipnotico, narra il fango ma non arretra dal paradiso.

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Quando il dottor Poljakov tenta di sostituire la morfina alla cocaina, svalvola. “La primavera è tremenda. Il diavolo nella fiala. La cocaina è il diavolo nella fiala. La sua azione è tale: Al momento dell’iniezione di una siringa di soluzione al due per cento quasi istantaneamente si manifesta una condizione di tranquillità e beatitudine. E questo si protrae solo per uno, due minuti. E poi tutto scompare senza lasciare traccia, come se non ci fosse mai stato. Si fanno avanti il dolore, l’orrore, il buio. La primavera rumoreggia, uccelli neri s’incrociano in volo da un ramo spoglio all’altro, e in lontananza il bosco, ispido, storpio e nero”. Rimbombato dall’assuefazione, sedotto dall’al di là chimico, il dottore torna all’arcadia della morfina. “La morte per sete è una morte paradisiaca, beata a confronto con la sete di morfina. È probabile che così colui che è sepolto vivo cerchi di cogliere le ultime, minuscole bollicine d’aria nella bara e si laceri con le unghie la pelle sul petto. Così l’eretico sul rogo geme e si dimena quando le prime lingue di fuoco gli lambiscono le gambe… Una morte arida, una morte lenta…”. Non c’è altro dio che la quiete allucinata, sepolti vivi nella dipendenza, eresiarchi dei mondi paralleli. Surfare tra il sogno e la morte, ambire a fare dell’anormale la norma: alcuni scrittori, quelli rari, imbracciano la penna come fosse un ago, le frasi, come oppiacei, lettere tetragone alla follia, ci gettano in un’altra vita, e giungle nascono dalla stanza, il cuscino diventa un pitone, le nozze il magistero dello scannatoio… Mentre il misterioso M. Ageev pubblica a Parigi Romanzo con cocaina, Bulgakov si trasferisce in un trilocale con la terza moglie, riprende a scrivere Il maestro e Margherita, lavora come librettista per il teatro, le case editrici di stato continuano militarmente a ignorarlo. (d.b.)

*In copertina: Michail Bulgakov e la terza moglie, Elena Sergeevna Šilovskaja

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