Ce lo stiamo chiedendo spesso, i noi dei miei paraggi, ciascuno coi suoi scomodi, di recente: chi resta, perché resta? Perché ha una posizione comunque più favorevole, pur non dichiarandola, non ammettendola, di chi invece non resta? Chi non può restare cova in sé il sospetto, legittimo, che chi sia restato abbia i suoi bravi privilegi, definiti buone-ragioni, per poterlo fare. Chi resta accusa, o se non lo fa si sente comunque autorizzato a accusare, chi è partito: andare via è un fallimento e un tradimento. O non lo è?
Se ho letto “La nostra morte non ci appartiene – La storia dei 19 martiri d’Algeria”, a firma di Thomas Georgeon (postulatore della causa di beatificazione dei martiri) e di Christophe Henning (giornalista che ha scritto già altri libri sui monaci di Tibhirine) deve essere stato anche perché la prefazione è di Enzo Bianchi. Un paio di settimane fa era previsto che con alcuni amici di Firenze andassimo a Pistoia a ascoltare la conferenza di apertura in piazza del Duomo, al festival “Dialoghi sull’uomo”, poi cambiarono i programmi, finimmo alla casa di Giotto a Vicchio, a neanche tanti passi dalla Barbiana di quel Don Milani che io faccio ancora fatica a capire: è esistito o è una delle più romantiche e pauperizzanti invenzioni della nostra letteratura moderna?
Ho letto “La nostra morte non ci appartiene” perché volevo recuperare l’incontro mancato con Enzo Bianchi, poi perché pure con gli amici di Firenze ci si era chiesti “Noi che invece restiamo a Napoli, con quelle noie che talvolta costa vivere a Napoli, perché ci restiamo?”, poi perché mi è difficile essere d’accordo con un titolo così: cosa c’è di più mio della mia morte? Forse la mia vita non è mia, la vita è di chi la incrocia, di chi ce la concretizza sciupandocela, di chi ce la spezza per farne qualcosa di commestibile, da poter mandar giù. È impossibile ingoiare una persona tutta intera, ognuno sbocconcella il pezzo di suo gusto; ma la morte? La mia vita può viverla chiunque attraverso di me, ma la mia morte: quella posso morirmela solo io.
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Le aspettative di me lettore bellicoso, rivendicatore della proprietà della propria morte, vengono quasi subito disilluse delle parole del prefatore Enzo Bianchi: “I martiri sono testimoni di una vita più forte della morte, anche di quella violenta da loro subita”. Che in questo libro con nel titolo la premessa del far dono persino della propria morte non si parli di morte ma di una vita non tanto più forte della morte ma che la tralascia, che non la brama né la carica di sontuosità, che la priva della grandiosità oscura, erotica, della morte? I martiri di questa storia sono per Enzo Bianchi “[…] come una sentinella che non abbandona il suo posto sulla frattura che divide l’umanità dalla barbarie”.
I conti con le parole: dici martire, oggi vuoi non vuoi, per quanto tu voglia ripulire il tuo pensiero dall’immagine fuorviante dei traviati di questa o quella religione, di certo non pensi a un mansueto testimone di una sua fede pacifica e luminosa: vedi coltelli calare su gente in ginocchio, vedi canne di mitragliatore in primo piano che fanno fuoco su persone condannate in un videogioco di carne; plagi, furie, scenari di un Medioevo tutto postmoderno perché ogni medievista è pronto a correggerti: il Medioevo non era così. Questo non è il ritorno di nessuna epoca orribile: siamo 0gli autori della nostra parte di orrore, è la nostra invenzione donata al secolo.
I martiri d’Algeria – le 19 vittime che non vengono raccontate per oscurare le altre vittime, per creare una classifica di valore dei morti, ma perché tutte vengano messe in luce: i “99 imam che hanno perduto la vita per aver rifiutato di giustificare la violenza”, gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, gli uomini di scienza, gli artisti, i membri delle forze dell’ordine, le migliaia di padri e madri di famiglia, i bambini: il popolo algerino ucciso in Algeria. C’è un numero, a pagina 171: “Durante quegli anni neri sono morte più di centocinquantamila persone”. Io ancora non so leggere bene. Tante volte leggo in treno. Quando leggo che durante la guerra civile in Algeria sono morte centocinquantamila persone mi fermo, il libro sulle gambe, guardo fuori dal finestrino, rattristato dalla grande stupidità della guerra e della violenza, dalla insopportabilità del dolore impossibile da raccontare. Nessuno può raccontare la morte di centocinquantamila persone, è del tutto inutile. Il grande spreco, e nessun risarcimento possibile; nessun racconto sarà esauriente abbastanza.
Perciò adesso sono in Algeria. L’Algeria che un pochetto conosco io è quella della primavera araba, l’Algeria dell’ultimo decennio, l’Algeria che da sedici venerdì scende in strada per contestare il suo governo. Qualcosa devo pur aver sentito dell’Algeria postcoloniale (1962: indipendenza dell’Algeria; 1990: vittoria del Fronte islamico di Salvezza alle elezioni comunali e regionali; 1991: inizio della guerra civile tra militari e miliziani islamici; pare si sia conclusa nel 2002) ma per poterla vedere dovevo leggere la storia di diciannove stranieri, diciannove cristiani nella ‘casa d’islam’ che in Algeria erano andati a portarci l’amicizia a tutto un popolo.
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La vita dei diciannove martiri – raccontata da Georgeon e da Henning con sobrietà, attenzione, compassione, nessuna agiografia, nessuna rivalsa identitaria, con massima pulizia di linguaggio – è per me un mistero ben più grande della loro morte. Non è il restare di fronte alla morte minacciata; è il restare di fronte all’impegno che ci si è dati di vivere nel convinto servizio agli altri, nella terra che torna straniera quando la violenza aggredisce tutto ciò che ne smentisce la logica ottusa e suicida. Vite offerte e strappate da chi non sa come si riceve, da chi non ha imparato l’assurdo della bontà (bontà: che parola ammazzata) quando non ha un doppio fondo bensì nessuno. E Dio chi è, in questa storia? Un allevatore di macellati? Un esortatore di uomini e donne? La leva del meglio e del peggio? L’inganno più felice o il più drammatico?
Tutto aveva preso a precipitare attorno ai membri della chiesa in Algeria. L’Algeria non era più un posto sicuro; non lo era per nessuno. Certo loro, suore e monaci, erano molto amati dal popolo: aiutavano, istruivano, nei limiti delle loro possibilità sfamavano e medicavano la parte di popolo che riuscivano a raggiungere – il popolo, voglio dire, sono gli uomini e le donne di cui i monaci e le suore avevano imparato la lingua e di cui rispettavano la fede, non era la massa indistinta al di là di un altare dal quale far saettare sermone. Gli algerini gli erano grati e ne ricambiavano l’affetto, la vicinanza, la curiosità. Forse per questo restavano: che si sentissero un po’ più al sicuro degli altri? Per l’unione al popolo e perché poi, insomma: chi mai leverebbe la mano su una donna o un uomo di Dio, fosse pure di un altro Dio rispetto a quello al quale ti sottometti? Uccidere un consacrato o una consacrata, per quanto tu ti voglia magari ateista, al di sopra del bene e del male, è come uccidere più di quel singolo uomo e di quella singola donna? È come uccidere in quell’uomo e in quella donna la testimonianza del loro Dio e dunque anche Dio, perché Dio o è la testimonianza che se ne fa o non è.
C’è un racconto di Dostoevskij, “Vlas”, del 1877; nel racconto la vicenda di un contadino, che ha sfidato in audacia i giovani del villaggio. La sfida: “Quando andrai a comunicarti, prendi il pane benedetto, ma non inghiottirlo. Lo tirerai fuori con la mano, una volta andato via, e lo conserverai. Poi ti dirò”. Cosa doveva fare: mettere il pane benedetto su un palo ficcato in terra, mirare col fucile e sparare. “Ed ecco, non rimaneva che sparare, ma all’improvviso davanti a me apparve una croce, e su di essa un Crocifisso. Allora io persi i sensi e caddi col mio fucile”. Per Dostoevskij era già il massimo della trasgressione immaginativa sparare al pane benedetto: il pane è il simbolo di Dio e il simbolo è Dio stesso. Chi uccide il simbolo di Dio annienta sé stesso. Allora com’è uccidere un uomo o una donna di Dio? Le donne furono uccise mentre andavano o tornavano dalla messa, dall’eucarestia centrale per le loro vite di fede. Per aver timore a uccidere Dio, certo, devi aver sviluppato la capacità di immaginarlo. Così come bisogna aver sviluppato la capacità di immaginare gli uomini e le donne, per riuscire a vederli. Puoi uccidere solo chi non vedi. Può uccidere solo chi non vede.
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Per inciso: “Quanto alla morte di Pierre Claverie, sono state fermate sette persone dalla giustizia algerina e condannate nel 1998 per complicità in assassinio. Gli altri casi non hanno conosciuto una conclusione giudiziaria”. Gli assassini dei martiri d’Algeria sono come il contadino nel racconto ‘Vlas’ di Dostoevskij: non hanno nome, ed è giusto che non lo abbiano. Il nome è il premio di chi ha saputo portarne degnamente uno.
Perché restarono? Fratel Henri Vergès e suor Paul-Hélèn furono uccisi l’8 maggio del 1994, nella biblioteca di via Ben Cheneb, sulle alture della Casbah. Henri, nel collage di foto al centro del libro, ha il volto magro e il naso grande; Paul-Hélèn i capelli grigi e l’incarnato pallido, lucido, di chi è sempre intento a affaticarlo. Perché restarono? Suor Caridad e suor Esther furono uccise il 23 ottobre 1994, sul finire del pomeriggio, mentre andavano alla messa che si celebrava dalle piccole sorelle di Gesù, a Bab el-Oued. Perché restarono? Il 27 dicembre furono uccisi i quattro padri bianchi di Tizi Ouzou, a un centinaio di chilometri a est della capitale: Jean Chevillard, 69 anni, Alain Dieulangard, 75 anni, Charles Deckers, 75 anni, Christian Chessel, 36 anni. Gli artefici: quattro pseudo-poliziotti che fecero fuoco con i loro kalashnikov. Suor Bibiane nata Bibiane Leclercq, era francese, una religiosa delle suore missionarie di Nostra Signora degli Apostoli, come pure lo era Angèle-Marie Littlejohn, francese e suora missionaria; furono uccise di domenica, per strada, il 3 settembre 1995. Suor Odette Prévost, ultima di quattro figli, nata nel luglio del 1942 a Oger, un piccolo villaggio della Champagne, fu uccisa il 10 novembre 1995, ad Algeri.
Come in uno dei romanzi brevi e stranianti e ficcati come un palo nella memoria di Patrick Modiano: nomi, date, luoghi, educatamente prosaici e quindi metafisici, la prima porta del racconto “Davanti alla legge” di Kafka. L’essenziale in un punto: sta a te avvicinarlo, sfiorarlo per farlo esplodere, perché il suo universo torni a dilatarsi come un genio evocato da una lampada: il big-bang è soltanto l’esaudimento di un desiderio. Adesso altri sette nomi tutti in fila, rapiti a marzo, le teste ritrovate a maggio, i corpi mai ritrovati, i sette trappisti: Fratel Christian de Chergé, figlio di un militare; Fratel Christophe Lebreton, che proprio poco tempo prima che scoccasse l’ora del dramma fu indicato come nuovo priore di Tibhirine; Fratel Luc, che si vide confermato nella vocazione monastica a seguito di una visita a Châteauneuf-de-Galaure, dove incontrò una certa Marthe Robin; Fratel Michel Fleury, che da bambino lavorò nella fattoria di famiglia; Fratel Bruno, che per ventiquattro anni si dedicò all’insegnamento nel collegio cattolico Saint-Charles a Thouars; Fratel Célestin Ringeard, che prestò in gioventù servizio militare a Orano, assegnato al servizio sanitario, e lì guarì un ufficiale dei servizi segreti dell’Fln e che ventisei anni dopo, rientrato nell’abbazia di Bellefontaine, ricevette una telefonata dal figlio di quell’ex-ufficiale, che lo ringraziò per aver salvato la vita del padre; Fratel Paul Favre-Miville, che aveva una formazione da idraulico termotecnico. Mi ricorderò di loro, dei loro nomi? Non me li ricorderò. Li ricorderò come i diciannove martiri d’Algeria, coloro che restarono. Non furono gli unici a restare, ma loro restarono in un modo particolare: furono assegnati alla morte.
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Diciotto nomi trascritti; manca il diciannovesimo. Il diciannovesimo martire è il vescovo Pierre Claverie, 58 anni, che morì assieme al suo amico Mohamed Bouchiki, poco più che ventenne, che aiutava in vescovado e che quando serviva guidava l’auto del vescovo. “So che morirò – aveva detto a Pierre Claverie, al suo arrivo in vescovado per prestare servizio durante l’estate – Ma vengo perché ti voglio bene”. Pierre e Mohamed esplosero insieme, Mohamed Bouchiki lascia un taccuino, sulla prima pagina del taccuino ha scritto: “Ringrazio chi leggerà questo mio taccuino di ricordi”.
La risposta, quando c’è, è semplice: perché i martiri d’Algeria restarono in Algeria? Perché volevano bene agli algerini e gli algerini ne volevano a loro, e non si vuole lasciare chi si ama, specie se chi si ama ha bisogno di te. Questo doveva riuscire a insopportabile a chi deve il suo potere all’odio, al tenere separati i suoi dominati, e che nello strano e nello straniero non vede la ricchezza e l’occasione ma la colpa e soprattutto l’alibi alle colpe che commissiona e commette. Si resta dove non conviene più restare finché l’amore non è uno dei motivi ma il motivo, il solo motivo. O si parte tutti o nessuno. Se, restando, si può aiutare ancora qualcuno che non può partire, allora si resta. Quando hai donato la tua vita non c’è più una morte da reclamare indietro: hai dato via anche quella, e non deve essere male, chissà, essersi liberati del possesso schiacciante della propria morte.
Ho provato imbarazzo a leggere e poi a scrivere di questo libro, perché questo è un libro che parla di uomini e di donne di Dio e io non so niente di Dio, e per un partito preso molti anni fa non ho simpatia per suore e monaci, per chiese e religioni. Ma so qualcosa dell’amore, e vale la pena saperne dell’altro.
Antonio Coda
*In copertina: la comunità dei monaci di Tibhirine, in Algeria. Sequestrati e uccisi nel 1996, sono stati beatificato come “martiri d’Algeria” l’8 dicembre del 2018