12 Dicembre 2024

“Non chiedo comprensione, non chiedo pace”. Stevie Smith, la poetessa che fa impazzire tutti

Il 19 novembre del 1962, Sylvia Plath piglia carta & penna e scrive una delle sue lettere, in rovinosa furia. “Mi creda: sono drogata dalla sua poesia, sono disperatamente ossessionata, una tossica-di-Smith”. Le racconta di aver vissuto nel Devon, “per un anno, a coltivare mele, a darmi all’apicoltura”. Qualche mese prima, in estate, si era rotto il matrimonio con Ted Hughes; ai primi dell’anno era nato il secondogenito, Nicholas. “Spero, per magia, di trasferirmi con i miei bambini a Londra: mi piacerebbe allora invitarla a prendere un tè o un caffè… è da tempo che vorrei incontrarla”. In dicembre, in effetti, Sylvia trasloca a Londra; ma non ci sarà tempo per il tè, per il desiderato incontro: a febbraio Sylvia sceglie di morire.

Quello stesso giorno – preda, dunque, dell’affiorare di un’euforia – Sylvia scrive alla madre: ha terminato il secondo libro di poesie, lo dedicherà ai figli, s’intitola Ariel.

Nel 1962 Stevie Smith – la poetessa a cui si rivolge, esagitata, Sylvia Plath – compie sessant’anni, ha pubblicato quello che doveva pubblicare, libri frivoli, dicono, frivoli e intenebrati, docili e crudeli, candidi come il giudizio divino, sottili come un pettegolezzo. La Plath aveva ascoltato le poesie della Smith alla radio: leggevano alcuni testi dai Selected Poems editi quell’anno. Le piacevano anche i romanzi, il primo, soprattutto, Novel on Yellow Paper, del 1936, quei libri lievi, senza trama, tutti dialoghi e sparute osservazioni, che fondono Dickens ai centrotavola, il tono civettuolo a un’anglicana severità. Quanto a Stevie Smith – che sarebbe morta quasi dieci anni dopo, nel marzo del 1971, per un tumore al cervello – c’è poco da dire. Intanto, che era nata Florence Margaret, il 20 settembre del 1902, in una famiglia di importanti armatori, a Kingston upon Hull. La chiamarono Stevie perché andava a cavallo con il piglio di Steve Donoghue, formidabile fantino degli anni Dieci e Venti.

Conteggiando il resto, fu una scudisciata di perdite. Il padre che, dismessa l’azienda di famiglia, se ne va per mare, qua e là, pressoché invisibile; la madre che muore quando Stevie ha sedici anni; la peritonite che la affligge fin da bambina e la tiene lontana da scuola. Sperimentò il pericolo della morte – e ne fu sottilmente affascinata.

Cresciuta con la zia, a Londra, fu per trent’anni la segretaria particolare di Sir Neville Pearson, il magnate dell’editoria. Di solito, illustrava le sue poesie con disegni aggraziati. Stevie non si accompagnò a nessuno, va da sé: preferì la vita segregata nel segreto – alcuni dicono fosse fredda, antipatica, di scorticante intelligenza: tutti caratteri che si addicono a una poesia vorace, sagace, divertita, che eleva le minime cose a simbolo, che mesce morte e sciocchezza. Una poesia, insomma, che spazza i luoghi comuni, che spiazza.

Straordinariamente dimenticata in Italia – dobbiamo a Gilberto Sacerdoti la traduzione, nel 1996, per Donzelli, di una scelta antologica, Il cinico bebè e altre poesie –, in UK è una specie di istituzione: la Faber ha da poco pubblicato, in trionfo (“Stevie Smith è un’eccentrica radicale… ci tortura con le domande che non abbiamo il coraggio di porci”), l’ennesima raccolta, Not Waving but Drowning and other poems. Il libro esce con giudizio entusiastico di Nick Cave: Stevie Smith is the wildest poet of them all. Un tempo, il sommo cantautore australiano, preferiva Poe, Coleridge, William Blake. La brutalità di Stevie Smith, diciamo così, sta tutta in una poesia disadorna, senza schemi né schermi (gli inglesi, di solito, costruiscono sgargianti corazze liriche), dal ferino intelletto. Si fa leggere, inoltre, è facile Stevie Smith: da qui la sua imperitura padronia libraria. (Attenzione, però: l’implacabile wit, il gioco di parole, l’arguzia british sono letteralmente intraducibili; così che pare di sciaguattare, a tratti, in un pantano poetico, in una pantomima).

Poco prima della lettera della Plath, era stato Philip Larkin, in un formidabile articolo uscito su “New Statesman” (Frivolous and Vulnerabile, 28 September, 1962), a dichiarare pubblicamente il genio di Stevie Smith, fino ad allora remoto, in una villanella dello spirito. Il grande poeta scrisse, in sostanza, che “le poesie di Stevie Smith hanno due virtù: sono del tutto originali e, di tanto in tanto, commoventi. Queste qualità bastano a porle al di sopra del 95 per cento della produzione lirica odierna”. Parlò di Stevie come di una inesausta scoperta, disse di una poesia senza tempo e per sempre nuova; scrisse che il genio della “scribacchina che tutto annota come viene, poco importa se sia un fatto sciocco, irriverente o tragico” era senza fonti e senza pari, “elargisce bizzarrie”. Le sue “filastrocche”, scrisse Larkin, restano in testa a lungo, a imprevista profondità. In una formula: “le poesie di Miss Smith parlano con l’autorità della tristezza”.

Nel 1967, dopo la morte di John Masefield, fu in lizza per diventare “Poet Laureate” dell’impero lirico britannico. Sarebbe stata la prima donna a svolgere quel regale incarico. Alcuni documenti da poco pubblicati da Downing Street (l’incarico di “poeta laureato” è singolarmente politico), svelano che la candidatura di Stevie Smith fu quasi subito accantonata: gli ‘esperti’ di governo la giudicarono “instabile” e “autrice di poesie da ragazzina”. D’altronde, furono scaricati anche W.H. Auden (“eccessivo”) e Robert Graves (“troppo anti-establishment”) a cui preferirono il più cauto Cecil Day-Lewis. Allen Ginsberg inviò una cartolina al governo inglese indicando “Donovan for Laureate”. Il biglietto è coronato con un fiore che s’irradia come il sole; Donovan, cantautore scozzese all’epoca ventenne, aveva fatto successo con Catch the Wind.

Due anni dopo Stevie Smith fu coronata con la prestigiosa “Queen’s Gold Medal for Poetry”. Non le importò poi tanto; era troppo intelligente per dar credito ai premi, sopraffine falene, vampiresche chimere.

***

Stevie Smith                              

(1902-1971)

In sogno

Nei miei sogni dico sempre arrivederci e me ne vado
non so dove né perché e non mi importa.
La separazione è dolce, separarsi è ancora più dolce
e più dolce di tutto è la notte, l’aria che erompe.

Nei miei sogni agitano sempre le mani e dicono arrivederci
mi offrono l’ultimo bicchiere e io bevo e sorrido,
sono felice di iniziare il viaggio, sono felice di andarmene
sono felice e sono così felice che i miei amici non sappiano cosa penso.

*

No!

Non disperare dell’uomo, non assalirlo coi tuoi oltraggi
chi sei tu da considerarlo tanto poco?
Non sei anche tu un uomo, nel tuo cuore
non allignano forse orrore, furore e marziali intenti?
Non hai paura anche tu, non sei crudele anche tu
non pensi sempre e soltanto a te stesso
sfiancato dall’ambizione e dal desiderio di essere amato
imbastardito da virtuosi ideali mossi dalla bellezza?
Ami tua moglie, hai cura dei tuoi figli:
dunque, non dire che l’uomo è vile – lo sei anche tu.
Ma non lo è l’umano. Per questo, il tuo giudizio si dimostra
presuntuoso, falso, del tutto vano, generato dalla tua
generica tristezza, figlio di ambizioni fallimentari
che hanno forgiato per te una filosofia fiacca, ornamentale
il nobile abito di chi è venuto al mondo per
gareggiare con il male più che per sconfiggerlo.
Ma tu conosci il tuo cuore e sai che non è del tutto malvagio
dunque, dal particolare giudica il generale
e se proprio devi giudicare, guarda con pietà alla vita
altrimenti, disperando di te, levati dalla lotta, va.

*

Città celeste

Voglio la città celeste
dove celesti cittadini abitano
e il mare è quieto come uno specchio
di mirabile, mirabile vetro.

Voglio camminare nei celesti
campi ricchi di papaveri lucenti
e indossare un celeste manto
di bianco candore.

Quando cammino nei celesti
giardini i miei piedi sono nudi
ci sono alte onde d’erba ma
nessuna creatura violenta.

Di notte, volo sopra i tetti
in equilibrio sui raggi lunari;
i fiumi del cielo sono d’oro
d’argento i suoi canali.

*

Sunt Leones

I leoni che hanno divorato i cristiani nelle arene
abbandonandosi a nativi appetiti, hanno giocato
una parte non del tutto trascurabile
nel consolidare fin dal principio
la posizione della Chiesa cristiana primitiva.
I riti iniziatici sono sempre sanguinari
e i leoni, come osserviamo nell’arte
contemporanea, decisero
di tingere la sabbia del Colosseo
di una rossa tonalità sacrificale:
che i cristiani si sentissero un po’ tristi
è ovvio, lo sono pressoché tutte le persone che vengono divorate.
La morte fu la loro corona immortale
uno stato di cose piuttosto soddisfacente.
La mia idea è che fino ad oggi sia stato negato
che furono i leoni a procurare
i martiri sui cui si fonda la Chiesa
masticando sangue cartilagini carne e ossa.
Se scrivo questa poesia è perché penso
che sia stato trascurato il ruolo avuto dai leoni.
Dalle fauci dei leoni grandi benefici e benedizioni sono sorte
dunque, il nostro debito verso la lionità non deve essere mai dimenticato.

*

Qui giace un poeta che non voleva scrivere
la sua anima corre urlando nella notte:
“Oh, datemi carta & penna
voglio cominciare ora”.

Povera Anima, stai zitta. Al momento della Morte
nessuna penna, carta, nozione – nessun Tempo.

*

Anima

Nella fiamma del fuoco crepitante
sono rari i peccati della mia anima
quanto ai pensieri nel mio cranio sono quelli
di un letto con un solo loculo.
Ma l’occhio dell’eterna sapienza
brulica con il luccichio di un pipistrello
per questo i pensieri nel mio cervello si placano
soltanto sul brusco dell’eterna notte.

Bene: dai il cibo al pesciolino
che nuota nella boccia prigionia
al gatto la specie che nasce cieca
Iddio pilucchi pure la mia anima.

*

Non ci saluta, annega

Nessuno si accorse del morto
né che stava gemendo:
era più lontano di quanto pensassi
e non ci salutava, sbracciando: annegava.

Povero tipo, amava sempre scherzare
e ora è morto
faceva troppo freddo, il cuore ha ceduto
così dicevano.

Oh, no no no, faceva sempre freddo
(e il morto continuava a gemere)
sono rimasto lontano per tutta la vita
sbracciavo: non vi stavo salutando – annegavo.

*

Quando il passero vola sul fragile ramo
sembra troppo difficile l’atterraggio:
è marzo, i rami scheletrici danzano
e il chiassoso passero si tuffa con maestria.
Vola di nuovo nel mio cuore, mio amato
quando sei assente il mio cuore si libra troppo in alto.

*

La ragione

La mia vita è vile
la odio tanto
aspetto ancora un po’
poi me ne andrò.

Perché attendere?
Speranza sgorga viva
il bene accadrà
posso solo prosperare.

Il fatto è che non so decidermi
se Dio è buono, impotente o malvagio.

*

Non chiedo comprensione, non chiedo pace
in questi crudi giorni non chiedo la libertà
non chiedo che la sofferenza abbia termine.

Non prego Dio di uccidermi
né di ascoltare il mio grido – non lo imploro
di fermarsi, di non corrermi accanto.

Non chiedo nulla, non parlo
non domando, non desidero:
lo facevo quando ero debole.

Ora sono forte, recinta dal dolore
come in una cotta di magica maglia:
a credito sull’oggi non attendo il domani.

*

Dolce è soltanto uno
teneri e tersi
i petali oscillano
al mio torso
sei tu, o tu, o tu?

Dolce è soltanto uno
non conosco il suo nome
e gli amici che cadono
al suono dei petali
credono sia colpa dell’amore.

Dolce è soltanto uno
questo petalo è un indizio
mostra il volto
ma sa fin troppo bene
a cosa tendo.

Dolce è soltanto uno
l’ultimo respiro dell’ultimo petalo
che grida forte
dal ghiacciato sepolcro
il suo nome – e il suo nome è Morte.

Gruppo MAGOG