Il 19 novembre del 1962, Sylvia Plath piglia carta & penna e scrive una delle sue lettere, in rovinosa furia. “Mi creda: sono drogata dalla sua poesia, sono disperatamente ossessionata, una tossica-di-Smith”. Le racconta di aver vissuto nel Devon, “per un anno, a coltivare mele, a darmi all’apicoltura”. Qualche mese prima, in estate, si era rotto il matrimonio con Ted Hughes; ai primi dell’anno era nato il secondogenito, Nicholas. “Spero, per magia, di trasferirmi con i miei bambini a Londra: mi piacerebbe allora invitarla a prendere un tè o un caffè… è da tempo che vorrei incontrarla”. In dicembre, in effetti, Sylvia trasloca a Londra; ma non ci sarà tempo per il tè, per il desiderato incontro: a febbraio Sylvia sceglie di morire.
Quello stesso giorno – preda, dunque, dell’affiorare di un’euforia – Sylvia scrive alla madre: ha terminato il secondo libro di poesie, lo dedicherà ai figli, s’intitola Ariel.
Nel 1962 Stevie Smith – la poetessa a cui si rivolge, esagitata, Sylvia Plath – compie sessant’anni, ha pubblicato quello che doveva pubblicare, libri frivoli, dicono, frivoli e intenebrati, docili e crudeli, candidi come il giudizio divino, sottili come un pettegolezzo. La Plath aveva ascoltato le poesie della Smith alla radio: leggevano alcuni testi dai Selected Poems editi quell’anno. Le piacevano anche i romanzi, il primo, soprattutto, Novel on Yellow Paper, del 1936, quei libri lievi, senza trama, tutti dialoghi e sparute osservazioni, che fondono Dickens ai centrotavola, il tono civettuolo a un’anglicana severità. Quanto a Stevie Smith – che sarebbe morta quasi dieci anni dopo, nel marzo del 1971, per un tumore al cervello – c’è poco da dire. Intanto, che era nata Florence Margaret, il 20 settembre del 1902, in una famiglia di importanti armatori, a Kingston upon Hull. La chiamarono Stevie perché andava a cavallo con il piglio di Steve Donoghue, formidabile fantino degli anni Dieci e Venti.
Conteggiando il resto, fu una scudisciata di perdite. Il padre che, dismessa l’azienda di famiglia, se ne va per mare, qua e là, pressoché invisibile; la madre che muore quando Stevie ha sedici anni; la peritonite che la affligge fin da bambina e la tiene lontana da scuola. Sperimentò il pericolo della morte – e ne fu sottilmente affascinata.
Cresciuta con la zia, a Londra, fu per trent’anni la segretaria particolare di Sir Neville Pearson, il magnate dell’editoria. Di solito, illustrava le sue poesie con disegni aggraziati. Stevie non si accompagnò a nessuno, va da sé: preferì la vita segregata nel segreto – alcuni dicono fosse fredda, antipatica, di scorticante intelligenza: tutti caratteri che si addicono a una poesia vorace, sagace, divertita, che eleva le minime cose a simbolo, che mesce morte e sciocchezza. Una poesia, insomma, che spazza i luoghi comuni, che spiazza.
Straordinariamente dimenticata in Italia – dobbiamo a Gilberto Sacerdoti la traduzione, nel 1996, per Donzelli, di una scelta antologica, Il cinico bebè e altre poesie –, in UK è una specie di istituzione: la Faber ha da poco pubblicato, in trionfo (“Stevie Smith è un’eccentrica radicale… ci tortura con le domande che non abbiamo il coraggio di porci”), l’ennesima raccolta, Not Waving but Drowning and other poems.Il libro esce con giudizio entusiastico di Nick Cave: Stevie Smith is the wildest poet of them all. Un tempo, il sommo cantautore australiano, preferiva Poe, Coleridge, William Blake. La brutalità di Stevie Smith, diciamo così, sta tutta in una poesia disadorna, senza schemi né schermi (gli inglesi, di solito, costruiscono sgargianti corazze liriche), dal ferino intelletto. Si fa leggere, inoltre, è facile Stevie Smith: da qui la sua imperitura padronia libraria. (Attenzione, però: l’implacabile wit, il gioco di parole, l’arguzia british sono letteralmente intraducibili; così che pare di sciaguattare, a tratti, in un pantano poetico, in una pantomima).
Poco prima della lettera della Plath, era stato Philip Larkin, in un formidabile articolo uscito su “New Statesman” (Frivolous and Vulnerabile, 28 September, 1962), a dichiarare pubblicamente il genio di Stevie Smith, fino ad allora remoto, in una villanella dello spirito. Il grande poeta scrisse, in sostanza, che “le poesie di Stevie Smith hanno due virtù: sono del tutto originali e, di tanto in tanto, commoventi. Queste qualità bastano a porle al di sopra del 95 per cento della produzione lirica odierna”. Parlò di Stevie come di una inesausta scoperta, disse di una poesia senza tempo e per sempre nuova; scrisse che il genio della “scribacchina che tutto annota come viene, poco importa se sia un fatto sciocco, irriverente o tragico” era senza fonti e senza pari, “elargisce bizzarrie”. Le sue “filastrocche”, scrisse Larkin, restano in testa a lungo, a imprevista profondità. In una formula: “le poesie di Miss Smith parlano con l’autorità della tristezza”.
Nel 1967, dopo la morte di John Masefield, fu in lizza per diventare “Poet Laureate” dell’impero lirico britannico. Sarebbe stata la prima donna a svolgere quel regale incarico. Alcuni documenti da poco pubblicati da Downing Street (l’incarico di “poeta laureato” è singolarmente politico), svelano che la candidatura di Stevie Smith fu quasi subito accantonata: gli ‘esperti’ di governo la giudicarono “instabile” e “autrice di poesie da ragazzina”. D’altronde, furono scaricati anche W.H. Auden (“eccessivo”) e Robert Graves (“troppo anti-establishment”) a cui preferirono il più cauto Cecil Day-Lewis. Allen Ginsberg inviò una cartolina al governo inglese indicando “Donovan for Laureate”. Il biglietto è coronato con un fiore che s’irradia come il sole; Donovan, cantautore scozzese all’epoca ventenne, aveva fatto successo con Catch the Wind.
Due anni dopo Stevie Smith fu coronata con la prestigiosa “Queen’s Gold Medal for Poetry”. Non le importò poi tanto; era troppo intelligente per dar credito ai premi, sopraffine falene, vampiresche chimere.
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Stevie Smith
(1902-1971)
In sogno
Nei miei sogni dico sempre arrivederci e me ne vado non so dove né perché e non mi importa. La separazione è dolce, separarsi è ancora più dolce e più dolce di tutto è la notte, l’aria che erompe.
Nei miei sogni agitano sempre le mani e dicono arrivederci mi offrono l’ultimo bicchiere e io bevo e sorrido, sono felice di iniziare il viaggio, sono felice di andarmene sono felice e sono così felice che i miei amici non sappiano cosa penso.
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No!
Non disperare dell’uomo, non assalirlo coi tuoi oltraggi chi sei tu da considerarlo tanto poco? Non sei anche tu un uomo, nel tuo cuore non allignano forse orrore, furore e marziali intenti? Non hai paura anche tu, non sei crudele anche tu non pensi sempre e soltanto a te stesso sfiancato dall’ambizione e dal desiderio di essere amato imbastardito da virtuosi ideali mossi dalla bellezza? Ami tua moglie, hai cura dei tuoi figli: dunque, non dire che l’uomo è vile – lo sei anche tu. Ma non lo è l’umano. Per questo, il tuo giudizio si dimostra presuntuoso, falso, del tutto vano, generato dalla tua generica tristezza, figlio di ambizioni fallimentari che hanno forgiato per te una filosofia fiacca, ornamentale il nobile abito di chi è venuto al mondo per gareggiare con il male più che per sconfiggerlo. Ma tu conosci il tuo cuore e sai che non è del tutto malvagio dunque, dal particolare giudica il generale e se proprio devi giudicare, guarda con pietà alla vita altrimenti, disperando di te, levati dalla lotta, va.
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Città celeste
Voglio la città celeste dove celesti cittadini abitano e il mare è quieto come uno specchio di mirabile, mirabile vetro.
Voglio camminare nei celesti campi ricchi di papaveri lucenti e indossare un celeste manto di bianco candore.
Quando cammino nei celesti giardini i miei piedi sono nudi ci sono alte onde d’erba ma nessuna creatura violenta.
Di notte, volo sopra i tetti in equilibrio sui raggi lunari; i fiumi del cielo sono d’oro d’argento i suoi canali.
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Sunt Leones
I leoni che hanno divorato i cristiani nelle arene abbandonandosi a nativi appetiti, hanno giocato una parte non del tutto trascurabile nel consolidare fin dal principio la posizione della Chiesa cristiana primitiva. I riti iniziatici sono sempre sanguinari e i leoni, come osserviamo nell’arte contemporanea, decisero di tingere la sabbia del Colosseo di una rossa tonalità sacrificale: che i cristiani si sentissero un po’ tristi è ovvio, lo sono pressoché tutte le persone che vengono divorate. La morte fu la loro corona immortale uno stato di cose piuttosto soddisfacente. La mia idea è che fino ad oggi sia stato negato che furono i leoni a procurare i martiri sui cui si fonda la Chiesa masticando sangue cartilagini carne e ossa. Se scrivo questa poesia è perché penso che sia stato trascurato il ruolo avuto dai leoni. Dalle fauci dei leoni grandi benefici e benedizioni sono sorte dunque, il nostro debito verso la lionità non deve essere mai dimenticato.
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Qui giace un poeta che non voleva scrivere la sua anima corre urlando nella notte: “Oh, datemi carta & penna voglio cominciare ora”.
Povera Anima, stai zitta. Al momento della Morte nessuna penna, carta, nozione – nessun Tempo.
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Anima
Nella fiamma del fuoco crepitante sono rari i peccati della mia anima quanto ai pensieri nel mio cranio sono quelli di un letto con un solo loculo. Ma l’occhio dell’eterna sapienza brulica con il luccichio di un pipistrello per questo i pensieri nel mio cervello si placano soltanto sul brusco dell’eterna notte.
Bene: dai il cibo al pesciolino che nuota nella boccia prigionia al gatto la specie che nasce cieca Iddio pilucchi pure la mia anima.
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Non ci saluta, annega
Nessuno si accorse del morto né che stava gemendo: era più lontano di quanto pensassi e non ci salutava, sbracciando: annegava.
Povero tipo, amava sempre scherzare e ora è morto faceva troppo freddo, il cuore ha ceduto così dicevano.
Oh, no no no, faceva sempre freddo (e il morto continuava a gemere) sono rimasto lontano per tutta la vita sbracciavo: non vi stavo salutando – annegavo.
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Quando il passero vola sul fragile ramo sembra troppo difficile l’atterraggio: è marzo, i rami scheletrici danzano e il chiassoso passero si tuffa con maestria. Vola di nuovo nel mio cuore, mio amato quando sei assente il mio cuore si libra troppo in alto.
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La ragione
La mia vita è vile la odio tanto aspetto ancora un po’ poi me ne andrò.
Perché attendere? Speranza sgorga viva il bene accadrà posso solo prosperare.
Il fatto è che non so decidermi se Dio è buono, impotente o malvagio.
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Non chiedo comprensione, non chiedo pace in questi crudi giorni non chiedo la libertà non chiedo che la sofferenza abbia termine.
Non prego Dio di uccidermi né di ascoltare il mio grido – non lo imploro di fermarsi, di non corrermi accanto.
Non chiedo nulla, non parlo non domando, non desidero: lo facevo quando ero debole.
Ora sono forte, recinta dal dolore come in una cotta di magica maglia: a credito sull’oggi non attendo il domani.
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Dolce è soltanto uno teneri e tersi i petali oscillano al mio torso sei tu, o tu, o tu?
Dolce è soltanto uno non conosco il suo nome e gli amici che cadono al suono dei petali credono sia colpa dell’amore.
Dolce è soltanto uno questo petalo è un indizio mostra il volto ma sa fin troppo bene a cosa tendo.
Dolce è soltanto uno l’ultimo respiro dell’ultimo petalo che grida forte dal ghiacciato sepolcro il suo nome – e il suo nome è Morte.