Proverò a dare un resoconto all’inglese, infarcito di fatti personali, di Oswald Spengler (1880-1936) e soprattutto del secondo volume de Il tramonto dell’Occidente che mi è stato affidato come un pugnale senza custodia.
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In principio fu l’ira senza il coraggio di Achille. Ero a Londra, non mi importava di quel che avevo fatto prima – ricerche di storia tedesca, lettura di testi orribili come Il tramonto – e una telefonata mi disse che sul Corrierone Magris elogiava Spengler in considerazione della nuova traduzione Aragno di Giuseppe Raciti. Alzai le spalle, non ne volevo sapere più nulla di quel testo anche perché era un frangente in cui l’Italia mi sembrava avvolta dalle nebbie di Salvini e forse, in fondo, Magris aveva fatto un inchino allo spirito dei tempi: della serie, stanno arrivando i barbari, spendiamo una parola buona per quel vecchio brutto e cattivo che era Spengler.
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Tra i tanti articoli dedicati al volume Aragno, mi colpì questo. Era puntuale, era informato.
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Quando ero all’università si poteva leggere Spengler solo nella versione Longanesi. Questo voleva dire a) trovare la prima traduzione di Evola e condannarsi a essere definito reazionario, inattuale ecc., oppure b) la rivisitazione di quella traduzione fatta da Furio Jesi. Neppure Jesi era uno stinco di santo. I suoi Materiali mitologici, stranamente pubblicati da Einaudi, erano infidi. Proponevano una versione appassita della cosiddetta destra, mummificata e rimbambita da miti di Odino.
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Spengler è soggiaciuto a lungo sotto l’etichetta moda culturale. Quando Pavese nel dopoguerra voleva farne una traduzione Einaudi, il consulente numero uno, Delio Cantimori (ex fascista ravennate, poi prontamente comunista dopo l’armistizio) gli scrisse una lettera saputella. Non far tradurre Spengler, era solo una moda culturale degli anni Venti.
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Cos’è una moda culturale? È un libro che vien letto da tutti come un romanzo. Mezza Europa leggeva Il tramonto, dal Danubio al Tamigi. Qualche poeta inglese che faceva l’eremita in Islanda scriveva con brio: E regaleremo Spengler al consigliere di Buckingham, / perché si faccia due risate. Era il 1937, il baffetto in camicia bruna regnava da qualche anno e il libro di Spengler aveva giocato il suo ruolo, modificando la psiche dei lettori di lingua tedesca.
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Spengler era uno che credeva nelle cose proprio perché erano impossibili. Quelli della sua generazione, Jünger, Heidegger e gli altri, non ne potevano più della sconfitta nella Prima guerra. Il loro motto era credo quia absurdum. Heidegger lo disse in pubblicò quando salì in cattedra a Friburgo e le camicie brune erano al potere, usando la metafora del tempo che macina come la macina che distrugge il grano e, lentamente, anche se stessa: Vangelo piegato al Mein Kampf.
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Spengler scrisse credo quia absurdum nel 1933, in Anni della decisione quando si poteva ancora giocare a dire che la vera essenza della Germania del Nord era il socialismo.
Ricordi di uomini illustri. Durante le vacanze natalizie di secoli prima, tornato a casa, mio padre, scornato finiano senza più illusioni, uscì di stanza borbottando che leggevo un libro lontano dalla vita. A buon rendere.
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Spengler si esprime in un gergo visionario perché da ragazzo aveva ingurgitato libri che erano all’opposto rigidi, secchi, scientifici: c’era la moda del positivismo. Lui lo racconta in una piccola autobiografia scritta solo per se stesso, di qui il titolo A se stesso. È un testo importante per capire come fermentavano le sue idee alla vigilia della prima guerra mondiale. Me l’aveva spiegato anni prima, orrore o paradosso della vita, un professore che gesticolava e aveva amato tutta la vita Carlo Marx.
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Il gergo di Spengler, lo vedrete, è visionario: per Musil si prestava facilmente a diventare cliché affettato. Musil vedeva bene però che era un gergo autofecondantesi: riesce a creare le pagine con facilità estrosa.
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E ora un’avvertenza. Il primo volume del Tramonto uscì nel dicembre 1917 e nella prefazione riportava: “Un pensiero avente una necessità storica, che non cade semplicemente in un’epoca ma che fa epoca, è solo in un senso limitato proprietà di colui cui capita di esprimerlo… vorrei esprimere la speranza che questo libro non abbia da apparire del tutto indegno a fianco delle gesta militari della Germania” (tr. Evola). Come potesse poi la sua spiegazione della matematica babilonese e dell’arte egizia di quel primo volume contribuire alla guerra di trincea, resta mistero insoluto.
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Il secondo volume apparve poi con prefazione nel dicembre’22: “ecco che ora si grida al mio pessimismo, accusa con la quale coloro che restano eternamente attaccati allo ieri stigmatizzano ogni pensiero destinato solo agli esploratori del domani. Però non è per costoro che io ho scritto, i quali scambiano il raziocinio sofistico intorno alla natura dell’azione per l’azione stessa. Chi si mette a definire ignora il destino… occorre una nuova generazione con adeguate disposizioni. Ciò che mi è nato fra le mani lo sento come qualcosa che, malgrado la miseria e il disgusto di questi anni, vorrei chiamare con fierezza: una filosofia tedesca”.
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E allora leggiamo estratti da questo secondo volume secondo la nuova versione.
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C’è all’apparenza una flagrante differenza tra la democrazia parlamentare occidentale e quella in vigore nelle civilizzazioni egizia, cinese e araba, a cui è completamente estraneo il concetto di suffragio universale popolare. Ma per noi, attualmente, la massa intesa come corpo elettorale è formalmente la stessa che in altri tempi fu la lega dei sudditi, ossia come oggetto per un soggetto, dunque nel ruolo che a Bagdad e Bisanzio ebbe la setta e il monacato o altrove l’esercito governativo, una società segreta ovvero un corpo separato in seno allo stato. La libertà, come sempre, è soltanto negativa. Essa consiste nel rifiuto della tradizione: dinastia, oligarchia, califfato; ma presto l’esercizio del potere passa senza residui da questi ad altri potentati… di fatto, col suffragio universale anorganico, il senso originario di un’elezione viene ben presto soppresso. Quanto più radicale è la distruzione politica dei ceti e delle professioni nelle loro articolazioni organiche, tanto più informe e tanto più incondizionata è la loro resa alle nuove potenze, alle direzioni di partito, che dettano la loro volontà alla massa con tutti i mezzi di cui dispone la costrizione psicologica e si disputano il dominio coi metodi di cui la massa neppure s’avvede e tanto meno comprende, foggiando l’opinione pubblica a loro talento, come un arma da brandire l’una contro l’latra. È così che un impulso irresistibile spinge ogni democrazia lungo una via che la porta a sopprimersi con i suoi stessi mezzi… La costituzione tedesca del 1919 è indubbiamente la più avanzata costituzione del momento; ci permette infatti di conoscere già l’epilogo; ancora qualche minuscola variazione e tosto si conferirà ai singoli il potere illimitato.
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Oggi viviamo senza opporre alcuna resistenza agli effetti dell’artiglieria spirituale della stampa, al punto che nessuno o quasi dispone della necessaria distanza interiore per cogliere l’enormità del fenomeno. La volontà di potenza celata sotto le spoglie democratiche ha portato a compimento il suo capolavoro, il quale consiste nel coniugare il senso di libertà e la lusinga che ne deriva con una condizione di schiavitù che non conosce termini di confronto. Il senso civico liberale va fiero dell’abolizione della censura, di quest’ultimo limite opposto allo spirito, mentre il dittatore capitalista della stampa tiene le schiere dei suoi lettori schiavizzati sotto la frusta dei suoi editoriali, dei suoi telegrammi e delle sue illustrazioni. La democrazia ha completamente strappato dalla vita spirituale delle masse popolari l’uso del libro e vi ha sostituito il giornale. Il mondo dei libri, con la sua ricchezza dei punti di vista, che stringeva il pensiero alla scelta e all’esercizio della critica, è oramai solo la prerogativa di una cerchia ristretta. Il popolo legge solo un giornale, il ‘suo’, che in milioni di esemplari penetra quotidianamente in tutte le case, attirando nella sua sfera gli spiriti fin dal primo mattino e gettando i libri nel dimenticatoio a forza di supplementi; così, quando un’opera riesce ancora a imporsi all’orizzonte, ecco che la stampa interviene a scongiurarne gli effetti mediante una critica preconcetta.
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Che cos’è la verità? Per la massa è ciò che si legge e si ascolta continuamente. Un povero babbeo può sedersi da qualche parte e cumulare principi allo scopo di fissare la verità – resta il fatto che si tratta della ‘sua’ verità. L’altra, la verità pubblica, quella del momento, la verità che conta nel mondo effettivo dell’azione e del successo, oggigiorno è un prodotto della stampa. Ciò che essa vuole, è vero. I suoi padroni producono, mutano e scambiano la verità. Bastano tre settimane di lavoro redazionale e tutto il mondo conoscerà la verità.
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Fin qui sembra filosofia, ma Il tramonto è innervato da una serie di richiami storici che lo trasformano in romanzo di classe, in una costruzione di paragoni tra le forme di civiltà che si sono susseguite fino agli anni in cui Spengler scrive. È un libro svolto sulla parola tedesca che sta per ‘occidente’: Abendland, terrra della sera, terra del tramonto.
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In attesa che anche l’Oriente e la Cina incomincino a tramontare, beviamoci un Bols e godiamoci Spengler… L’uomo civilizzato è sterile. Non solo secondo i termini fisiologici. L’ultimo uomo delle metropoli non vuol più vivere: beninteso, vivere come singolo. Solo quando vive come massa invece non teme più la morte. La prole è diventata qualcosa di inconcepibile, soprattutto perché l’intelligenza potenziata fino allo spasimo non trova più alcuna ragione che giustifichi la sua esistenza… è la fine della democrazia. Se nel mondo della verità è decisiva la dimostrazione, nel mondo dei fatti è centrale il successo. Solo per questo si è lettori e elettori, ossia soggetti a un doppio servaggio, mentre i partiti diventano il docile seguito di pochi individui, sui quali la politica di potenza getta già le prime ombre. Ai parlamenti toccherà la medesima sorte delle monarchie nell’Ottocento, essi si trasformeranno lentamente in uno spettacolo non meno solenne che vacuo. E ciò che un tempo furono lo scettro e la corona, qui saranno i diritti del popolo, presentati in gran pompa al cospetto della massa e la cui considerazione appare proporzionalmente inversa alla loro effettiva portata… per noi che siamo stati posti da un destino in questa civiltà e in questo preciso momento del suo corso, in cui il denaro celebra le sue ultime vittorie, la direzione lungo la quale è possibile volere e potere alcunché e oltre la quale non vale la pena vivere, appare tracciata con molta precisione. Noi non godiamo della libertà di conseguire questa o quest’altra cosa; possiamo fare solo il necessario, o niente. E il compito che la necessità della storia si è prefisso sarà comunque assolto, con o senza il concorso dei singoli. Il fato conduce chi acconsente e trascina chi si ribella. (Andrea Bianchi)