Foyer del Teatro Vascello. Roma. 29 ottobre 2018.
Il pubblico si assiepa dinnanzi al palcoscenico. La “prima battuta” è di un manichino, la posa elegante, stentorea, muto ancor prima che abbia inizio la rappresentazione. Un doppio dell’attore o del soggetto, un simulacro che, reinterpretando la lezione di Jean Baudrillard, non sostituisce ancora l’uomo, ma ne rappresenta la contraffazione, come l’automa. Il manichino, a differenza dell’automa però, non interroga più le apparenze, come il mistero dell’anima o no. Esso appartiene al mondo della merce e del valore di scambio. Un feticcio o “colui” che lo indossa. Che cos’è un feticcio? Un qualcosa a cui vengono attribuire qualità che esso non ha. Come non pensare allora all’attore che, in questa girandola di scenari, come quelli di Tango Glaciale, riveste, si sveste e traveste in continuazione, si denuda anche, ma sempre recando su di sé le aspettative, i fantasmi dello spettatore, in definitiva: qualcosa che non gli appartiene.
Un crimine si consuma ogni sera. Il manichino è fermo a quale fermata? Inutile chiederglielo, perché non risponderà. Tre persone si incontrano a una fermata di quale città? Le foto segnaletiche si scompongono in un caleidoscopio di linguaggi, eterogenei tra di loro, immaginari propri del primo Tango degli Ottanta, che qui si sono voluti restituire in una fedeltà all’originale. Quella di Raffaele Di Florio è una vera e propria “ricostruzione archeologica”.
I movimenti e le coreografie, a cui si dedica Anna Redi, inizialmente stereotipati, come quelli di un manichino, mutano nel corso dello spettacolo per confluire nei bellissimi assoli di Jozef Gjura e di Filippo Porro: l’uno dai movimenti sinuosi e sensuali, ma capace di fendere quella “ quarta parete” frapposta tra lui e la platea, come fossero, la sua voce e la sua espressione, le lame di un coltello; Porro, ironico e molto preparato, intona un assolo in compagnia di un sax, cade e rotea, mentre il sax sospeso inneggia ad uno scenario surreale.
Gli scenari che si succedono come, ad esempio, quello casalingo, un insieme di bit colorati, a cui si accompagnano altrettanti bit sonori, e una Grecia dai toni accessi, sono egualmente ironici, al contempo dissacranti. Gli attori Giulia Odetto, nei panni della Fortuna, e Filippo Porro, nei panni del Discobolo, reinterpretano l’immaginario di una Grecia in cui si intrufola Superman. Il ricco bagaglio è anche quello del fumetto, del pop. In sottofondo il punk. Questo spettacolo vive di contrasti.
Ci siamo solo divertiti? O abbiamo assistito ad una mistificazione che si denunciava tale?
Gli attori accentuano i toni, si esibiscono dinnanzi a scenari proiettati, infine riproducono con ostentazione e con una rigidità che non gli appartiene un’Arcadia perduta, la distruzione del classicismo. “È sempre un contrasto molto estremo, ricercato nelle punture, negli angoli negli spigoli” dice Di Florio. Il contrasto vive anche dei pezzi detti e cantati: da Marlene Dietrich a Saffo sino ad un rap di Tomas Arana che fa il verso e a Duchamp, in arte Rrose Selavy e a Shakespeare, e a Sartre, sino ad arrivare a Sinatra.
La mistificazione si denuncia come tale, senza per questo distribuire gli attori nel foyer o dietro agli spettatori. La rappresentazione è frontale. “Una scelta obbligata dal fatto che gli attori dialogano con le proiezioni. Il cliché familiare della cucina si rompe sul finale, quando tavolo e sedia vengono portati alla ribalta quasi a voler sfondare la quarta parete”, sempre Di Florio. Ma ciò non accade. “Il gesto è chiuso su questo palcoscenico”. Non vi sono vie d’uscita. Se non al termine dello spettacolo, acclamato da un sonoro applauso finale o da una recensione che ha del fantasmatico. Abbandonando la penna, l’autore saluta il suo feticcio. D’altronde, parafrasando Baudrillard: quanto all’idea che informa la recensione neppure essa ha mai potuto essere scoperta. Era lei l’arma del delitto.
Agnese Azzarelli