26 Giugno 2022

Lorenzo Calogero, l’elemosinante, la bontà infinita, il poeta che fa paura

Un uomo si è aggirato inosservato per lunghi anni nei luoghi dell’Italia del primo Novecento: dalle peregrinazioni in Calabria, sua terra natale, al soggiorno napoletano, passando per la Toscana senese; dalle sfortunate Milano e Torino fino alla piccola somma d’amicizia con cui lo accoglierà Roma, dove incontrerà Leonardo Sinisgalli, che insieme a Giuseppe Tedeschi sarà suo primo e vero estimatore. Ma i veri estimatori si faranno avanti molto più tardi, dopo un’apparente e mai dimostrata scena suicida nella sua casa di Melicuccà. A questo punto ha inizio il clamore, la veglia macabra del mondo letterario che urla, dalla finestra di quella casa dove la morte sembrava attendibile: “Il nuovo Rimbaud italiano!”. Ma nessuno risponde, «ora è pallida terribile una distanza» ed è già pronto un più lungo silenzio.
Quest’uomo è Lorenzo Calogero, che circolò dove altri sostarono, con le sue quindicimila poesie e la valigetta da medico condotto, professione che esercitò tutta la vita con dolcissimi rimorsi. Un uomo occupato dal suo cappotto, impossessato, avulso, con i tratti infecondi e modesti delle ossa; niente sangue e nessuna ferita, solo un gonfiore, un turgore costante e senza spargimenti. 

Il corpo è indifeso, abbozzato non con materiale vivo ma con trascurato amore, con discrezione e ribrezzo, come se la diagnosi di morte avesse preceduto il sacramento della vita. Senza strumenti, infruttuoso in tutto ciò che non fosse monumento di poesia, si agitava sul posto; e pure i suoi abiti, i suoi fazzoletti erano recalcitranti a qualunque vittoria o scommessa, panni umidi su cui resistono le ciprie, i trucchi della solitudine. «Se fossi sposato non sarei ridotto così». Questo premeva forse a Calogero nel suo contraddirsi: la vita accompagnata, la vita nella vita e non quel seme distratto nelle vene, quella sconosciuta vita. A noi parrà impossibile non amare un uomo così doloroso, risibile, ma nel suo presente per molti fu giusto liberarsene, scherzare con indifferenza sopra quei testi a cui oggi dovremmo chiedere perdono.

La poesia ermetica lo ispira, quella metafisica lo rivendica a posteriori, ma la verità è che Calogero fu capace di imparare una nuova lingua, di divenirne il solo fragile interprete, consumato e irriconoscibile uomo. A leggere la sua opera viene quasi da chiedersi se egli meditasse o fosse davvero un incantato, compulsivo e carnale scopritore di ritmi e vocaboli assolutamente nuovi, nuovo anch’egli di una novità senza tracce. In continua esitazione le sillabe, tremanti, suscettibili e pari a questo nervosismo le pause, i lapsus categorici, inconcludenti di tanta sua poesia; poesia ripetitiva, tracciata sul medesimo calco, riprodotta come a ostentare una forma unica di vita, un solo atteggiamento monotono; non per questo implosa in un falso maledettismo anzi, in qualche strano, pure inspiegabile modo, rassicurante, facile nei sensi, dall’impatto fragoroso.

Lorenzo Calogero nel 1954, a Milano

La natura è ospedaliera, impermeabile, senza linfa, infestata con innocenza simile al bordo di un secchio. Le forme della creazione sono clinicamente abusate, ripetute con fretta e violenza; i fiori elencati qua e là come a istituire un tenore spontaneo alla furia delle parole; le cose naturali rese innaturali, piene di sfacelo, di cicli instancabili ma funesti. Al centro di questo cosmo un grande amore, un rimando insistente ad “Ella”, quasi scelta per scherzo, per vicendevole miseria. Potremmo chiamarla Concettina o Graziella ma resterebbe quel deluso venire alla luce, quella morte infantile, astrusa.

Vedo e sogno. Una contrada
è rarefatta, pigra stille versa.
Proclive poteva essere o comprendere
ciò che nell’aria si contrasta
o si ama, una semplice superficie tersa,
una voce che appaia nuda nel sonno,
la mia nella tua mano contratta.
Verde intatta poteva essere pura,
l’alba con pena. Da un ciottolo
un viottolo freddo piega l’ala
muta nel volo in un brivido
chiuso che cade nel vuoto
informe, e di sé imprime una gioia
da una celeste sostanza
ad un usignolo.

(da Come in dittici)

Che non si usino però parole ingrate contro certi innocenti e non si acceleri nel tacciarli di pessimismo o ancora peggio di facile torpore, per non dire piagnisteo meridionale. Questo difatti accadde quando la trama solitaria di Calogero venne stirata, ammirata e infine dimenticata ancora, poi di nuovo spolverata, senza raggiungere mai un sereno approdo. Restano i danni e le timidezze, forse le paure perché la poesia è completa solo per chi non vi si incatena ma per gli altri, figli assai morbosi, le lacune sono irrimediabili, i vuoti ordinari. Calogero sapeva, nel suo ignorare e rifuggire, che le parole possono l’insoluto, l’effimero, e che non vi è nulla di ultimato nella lettera, nulla di composto; a sostegno della frase c’è un disordine buono, una sfiducia nella realtà.

Forse il silenzio libero avanza
e quanto è sottomessa la luna
a questi aloni irrequieti
come le foglie secche
e i nuovi campi liberi odorano ancora;
ma tu stai di là dalle giunture del monte
e sono come corpi morti.

(da I Quaderni di Villa Nuccia)

Gli ultimi giorni della sua vita furono i peggiori, veri parassiti di un accordo che non vuole avvenire; giorni di poche lettere strazianti lasciate come a prevenire il miracolo. Forse nacque in lui il sorriso nubile dell’elemosinante che con occhi turbati subito chiede, poi non sa più che cosa chiede, né se chiede. Calogero non è un imperdonabile, è un affare chiuso, un bambino ritrovato, una bontà infinita che non si esaurirà e pure se non letto manterrà la divisa di elemosinante, i dolori emorroidali, le cicche, il piattino che cerca umiltà. Il suo sguardo ai margini delle strade fa più paura, dista irrimediabilmente dal volto; le arie tristi della sera lo maledicono.

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