03 Luglio 2018

“Lo sport italiano muore da piccolo, nelle periferie in cui nessuno sembra essere capace di mettere in gioco valori positivi, in cui non si riesce a relazionarsi senza faide e intimidazioni”: lettera aperta di un genitore deluso

Sarà che ho avuto un’infanzia stramba, solitaria. Sono sempre stato competitivo. A me la vita, come dice Leopardi, non “è male”: per me la vita è lotta. E nella lotta vince il più forte, il più intelligente, il più furbo. Da ragazzo, ecco, mi importava vincere. Durante i Mondiali del ’94, sedotto dalle magie di Roberto Baggio, mi venne il pallino del calcio. Solo un cretino può fissarsi con il calcio a 15 anni, quando di solito i ragazzi scalpitano per diventare campioni – Francesco Totti esordisce in Serie A sedicenne… Il mio orgoglio è che ho iniziato con le scarpe da ginnastica, non avevo neanche le scarpe coi tacchetti, mi davano del frocetto, facevo il secondo portiere. Dopo tre mesi il primo gol, in un torneo di periferia; dopo quattro mesi il primo gol in campionato, entrando dalla panchina; in capo a due anni ero il capitano della squadra, giocavo anche con la ‘prima’, che militava in categorie dove al secondo dribbling ti spaccano gli stinchi. Ho fatto tanti sport, senza eccellere in nessuno, perché già allora preferivo il mondo immaginario della letteratura a quello reale: ero un buon velocista dilettante – buoni risultati, in campo regionale, in salto in lungo e in alto, ottimi nella staffetta – un discreto cestista – ripetute finali nazionali con la squadra del liceo, a Torino – un modesto calciatore. Avevo la voglia e la corsa, ecco, correvo veloce, eccellevo nell’arte della fuga. Non mi dispiaceva spadroneggiare. Ora. A uno come me la vita ha dato in sorte un figlio che ha la competitività di un bradipo sul divano. Per anni ha praticato il nuoto, in forma agonistica. I genitori degli altri con il cronometro in mano. Io in macchina, nel parcheggio della piscina di turno, a scrivere. Mio figlio non mi vuole a bordo vasca o in platea. Spesso arrivava ultimo, ogni tanto tra i primi nella sua batteria e sotto il trentesimo posto in assoluto. Però si fa il fisico, mi dicevo, e si allena alla fatica. Giusto. Solo che, poveretto, neanche una gratificazione. Il nuoto, di per sé, è una noia – avvilenti allenamenti avanti-indietro su una vasca – e i coach, secondo l’idiozia comune, nonostante le buone parole, insistevano in sorrisi e complimenti soltanto con quelli che arrivavano primi. Gli altri erano ranocchi degni di bollire per ore in vasca. Mi è capitato di assistere a una patetica cena di fine stagione agonistica con la responsabile del settore che si collega via Skype, su grande schermo, con la figlia, ovviamente la nuotatrice più brava del reame. Questo è sport o frustrazione genitoriale male applicata? Per la cronaca, ora mio figlio gioca a pallanuoto, perde tutte le partite, come la squadra di baseball di Charlie Brown, ma gli va bene così, ha gli amici, contento lui. Quando mi arriva l’articolo di Daniele Mingucci detto ‘Dacco’, però, mi dico, qui c’è un problema. Che valore ha lo sport per i nostri figli? Come bisogna insegnarlo? Inculcando quali ideali? Il problema, ripeto, è enorme. Anche perché, rispettosamente parlando, non mi pare che i risultati dello sport italiano siano eccellenti. Più che crescere campioni ideali, forse, è meglio forgiare uomini. (d.b.)

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Approcciandomi da papà allo sport giovanile, in meno di dieci anni ho visto di tutto. Fino all’apoteosi di ieri, quando un carabattolo di un metro e mezzo autoproclamatosi profeta dello sport giovanile qui dove vivo io, mi ha aggredito per quasi un’ora con minacce non troppo velate, calunnie e intimidazioni di vario genere. Sperava di farmi saltare i nervi e non ci è riuscito perché, a sua insaputa, stavo vivendo un momento catartico, uno di quelli in cui tanti pensieri confusi piano piano si connettono e improvvisamente – è successo a tarda sera – prendono una forma sensata. I puntini si sono uniti.

L’argomento era lo sport giovanile: tre quarti della squadra dei miei figli smette sul più bello. La spiegazione di noi genitori è che c’è troppa pressione; quella degli allenatori è che i ragazzi “devono” tirar fuori gli attributi. Non è una cosa nuova e chi sta nello sport lo sa bene: a 15 anni circa i ragazzini spesso, spessissimo, mollano. Si può fare qualcosa? “Devono” tirar fuori gli attributi. Ma polisportive, allenatori, genitori, amici, nonni… qualcuno può dare un contributo di qualche genere? No, perché “devono” farlo loro. Al netto della simpatia, la discussione è finita così.

I ragazzi crescono e – giustamente – gli allenatori pretendono di più, di più, di più. Sono le regole dell’agonismo, si dice, e i ragazzi si “devono” adeguare. Solo che i ragazzi di quell’inferno di stress, pressione, rabbia repressa, rimbrotti, mica hanno voglia – tre ore al giorno cinque o sei giorni a settimana. E mollano. Noi genitori, almeno io, li dobbiamo mandare a scuola, far studiare, tener lontani da cattive frequentazioni, dargli degli orari eccetera. Dobbiamo anche forzarli a fare sport? Certo, lo sport è importante, ma non dovrebbe essere anche svago? Insomma, quando hanno un’età e cominciano a esserci anche altri impegni se decidono di mollare, mollano.

Con gli allenatori non c’è margine di trattativa: i ragazzi “devono”, sennò – espresso con parole più o meno gentili – a noi non servono. Se sali di un piano e ti rivolgi ai dirigenti c’è un senso esperto di impotenza: le cose stanno così, gli allenatori non possono fare di più, ci mettono impegno, dedizione eccetera eccetera e se i ragazzi non reggono è un peccato ma… Insomma non c’è niente da fare! Non ci sono valori che si possono mettere in campo, non si può dialogare, mediare: mi sono preso inutilmente un’ora di insulti perché non si può fare altro che fallire!

Lo sport è per i piccoli e per pochi sparuti superstiti (quelli che hanno genitori migliori di me e di chi permette ai figli di mollare).

Ma davvero va bene così? In pratica, il pallino viene lasciato totalmente in mano ai ragazzi e alla loro voglia insicura. Sì, è un modo di far selezione, ma è una selezione talmente ampia che qualche dubbio lo fa venire. Qui dove vivo io, ad esempio, nonostante i migliori impianti forse d’Europa sembra ci sia una tagliola a cui non sopravvivono gli over 15: fino a un certo punto si arriva a livelli regionali e anche più, poi ogni due tre anni si azzera tutto e ci si accontenta della mediocrità. Allenatori e dirigenti hanno davvero la coscienza a posto? Davvero non si può fare di più? Noi genitori (inesperti, per carità) meritiamo davvero di essere aggrediti da nanerottoli morali?

Lo sport italiano muore da piccolo, muore nei paesini e nelle periferie in cui nessuno sembra essere capace di mettere in gioco valori positivi, in cui non si riesce a relazionarsi senza faide minacce calunnie intimidazioni, in cui le piccole aspirazioni di chi è alla guida rendono piccole anche le persone: il grande potenziale dei nostri ragazzi viene disinnescato prima che possa esprimersi. Forse perché si spera nel campione con una tale ansia da prestazione che non si riesce a dare il tempo di crescere a nessuno, forse si buttano in campo frustrazioni adulte da cui i giovani stanno volentieri alla larga, forse si lavora semplicemente male, senza considerare le persone – grandi e piccole – nella loro interezza e ci si accontenta di contare i partecipanti senza curarsi di chi siano. E si perde, entusiasmo e persone, mica solo le partite…

È una pentola in cui non sta bollendo niente, suona a vuoto e i nostri ragazzi se ne vanno – giustamente – altrove. I mezzi uomini, anche se trovano un contesto per sbraitare e comandare, restano mezzi uomini in un mondo mediocre. Peccato!

Daniele Mingucci

 

 

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