Quando si parla di cristianesimo la ‘forma’ è la ‘sostanza’. Il fatto, se vi va, è ‘eucaristico’. Il pane spezzato ha una forma che conduce alla figura trinitaria e perfetta di Dio; quel pane – per altro, insipido – ha il sapore della carne misteriosamente calata nell’impasto, la carne di Cristo. D’altra parte, le lettere dell’alfabeto ebraico, quello della Bibbia, non sono soltanto lettere, un pentagramma per la gola, ma attributi di Dio. I nervi di Dio. Le sue ossa. In effetti, l’icona – cristianesimo ortodosso – non è una semplice immagine, è uno specchio. Gesù è dietro le spalle dello spettatore, fa ciao ciao alla ‘vera’ rappresentazione di sé, in sangue e spirito – veronica, icona della verità. Cose insostanziali e insussistenti, si dirà. Proprio no. Il cristianesimo, infatti, è pura ‘forma’ – perciò sostanza. Senza ‘forma’, il cristianesimo non c’è, non esiste. La visione estetica ha una sottile preminenza su quella teologica.
Per questo, la Chiesa cattolica, in questa fetta d’Occidente, è stata il main sponsor dell’arte occidentale. L’arte occidentale, nelle sue punte eccelse, infatti, è sostanzialmente religiosa, da Giotto a Raffaello, da Michelangelo al Bernini. E ora? Ora la Chiesa è diventata ricettacolo di schitarrate, ode al pauperismo, una appendice dello scoutismo. Prendete le chiese di oggi, ad esempio, cioè la ‘forma’ (la chiesa) rispetto alla ‘sostanza’ (la Chiesa). Se va bene fanno schifo, rigurgiti in cemento armato. Se va male sono orrende, la sviolinata di un archistar che ha un architrave nel cervello. Tutti lo sappiamo, ma nessuno ha i documenti – e la virilità intellettuale – per dirlo. Finché Angelo Crespi, già fustigatore degli afrori dell’arte contemporanea (Ars Attack, 2013), che sul tema ha appena costruito un pamphlet che fa piangere (per quello che c’è scritto) ma fa godere (per come è scritto: scuola giusta, quella dei grandi polemisti esteti, da Henry de Montherlant a Julien Green e Jean Clair), Costruito da dio (Johan & Levi 2017, pp.136, euro 11,00), fa la cosa più semplice. Giustappone due immagini. L’interno del Duomo di Milano. L’interno della chiesa di San Paolo Apostolo di Foligno, firmata da Massimiliano Fuskas (che da fuori, ghigno ateo, pare la Kaaba, il luogo di culto musulmano, un cubo privo delle fiocine di marmo gotiche, della verticalità feroce delle chiese cristiane, un cubico terrore). Drammatica conclusione (che in realtà è il blocco di partenza da cui scatta la riflessione di Crespi): “Il tempo delle cattedrali è finito, non possiamo che prenderne atto e farcene una ragione. Forse è finito il tempo della trascendenza e dobbiamo accontentarci di un’epoca di ateismo immanente, in cui lo sguardo degli uomini deve essere rivolto a terra e non più alzato al cielo come inducevano a fare le ardite costruzioni gotiche”. Dietro al problema ‘formale’, in effetti, c’è quello ‘sostanziale’. Pregare davanti a un Crocefisso del Mantegna o davanti a un altare di cemento non è la stessa cosa. Pregare in una Chiesa superba non è uguale a fare il rosario in una chiesa oscena. Nel brutto – in ciò che di brutto ha creato l’uomo – Dio, se c’è, non c’è. Con pudica – ma prodigiosa, potente – voracità, Crespi ‘battezza’ le chiese aspirapolvere, piscine, frigoriferi: la chiesa progettata da Mario Botta a Torino e quella di Richard Meier a Roma (“sembra una piscina. Uno di quegli orribili poliplessi natatori che inorgogliscono i capoluoghi di provincia”), quella di Cino Zucchi a Sesto San Giovanni fino al santuario di Santo Pio a San Giovanni Rotondo progettato da Renzo Piano (con “una facciata in cui due ulteriori archi si intersecano formando una M in stile McDonald’s che di notte, illuminata, fa molto fast food o drive-in”). Nella seconda parte del libro, Crespi se la piglia con i sacrari del contemporaneo, i musei, contenitori dell’ovvio e del disutile, basiliche del disincanto e dello scempio, a cui non lesina formidabili fiondate: “Se in generale il museo tende a diventare una cattedrale, in alcuni casi particolari assume l’aspetto di una fabbrica, talvolta di un divertimentificio in cui la funzione primaria non è l’attribuzione del valore all’opera d’arte, bensì l’entertainment del pubblico (o nei casi migliori edutainment)”. Se i custodi del Bello (le chiese) e del bello (i musei) sono le interiora dell’osceno, cosa dobbiamo fare? Forse, a questo punto, godere. Il pamphlet urticante di Crespi, in effetti, assolve a una funzione salutare. Il tramonto dell’Occidente è una quinta high tech progettata da un architetto assoldato dai tecnocrati, e a danzare sull’Apocalisse sono donne discinte, nettamente plastificate e facilmente abbordabili che azzannano tartine alla Tate discettando di Cattelan. Evviva. Morto un Occidente se ne fa un altro.
Per gentile concessione pubblichiamo un brandello dal libro di Angelo Crespi, “Costruito da dio. Perché le chiese contemporanee sono brutte e i musei sono diventati le nuove cattedrali” (Johan & Levi Editore, 2017)
Chiediamoci: queste chiese sono davvero orrende? Se sul bello oggettivo molti nicchiamo, convinti che il nostro personale gusto sia imprescindibile nel valutare una cosa, sul brutto oggettivo ci troviamo d’accordo. Se una cosa è brutta spesso lo è in modo oggettivo e totalmente irredimibile. Tralasciamo per clemenza le chiese di periferia frutto delle scarne linee guida della Cei e progettate da oscuri architetti, e concentriamoci invece sulle elaborazioni delle archistar che hanno misurato il proprio ingegno anche nel campo del sacro. Edifici che – spesso in opposizione, spesso in ossequio alla disciplina postconciliare – sono o anonimi e cheap, oppure magniloquenti nella “ricerca forzata della monumentalità”, oppure frutto di mera esibizione strutturale, ma il risultato non cambia.
La chiesa del Santo Volto a Torino, disegnata da Mario Botta, è stata consacrata nel 2006. È un edificio a pianta centrale di dodicimila metri quadrati con sette torri perimetrali alte trentacinque metri, tutto in pietra rossa nel tipico stile dell’architetto svizzero. Il quartiere, sugli argini della Dora Riparia, un tempo a vocazione industriale, è stato – come si è soliti dire – riqualificato con un museo dell’ambiente, un cinema multisala, un ipermercato, uno skatepark e, appunto, una chiesa che tristemente assomiglia a una centrale atomica con le prese d’aria di un mostruoso aspirapolvere, quasi si volesse acchiappare Dio con un marchingegno degno di Ghostbuster. Potrebbe essere scambiata benissimo per un magniloquente salone congressi, e di fatto lo è: sotto la chiesa al posto della cripta (dove nei secoli addietro si usava custodire le spoglie dei martiri o dei santi) ci sono settecento posti a sedere, una enorme sala attrezzata “con strumenti audiovisivi, microfoni, pc, videoproiettore ed è previ- sta l’assistenza tecnica in sede e la presenza di hostess. Il centro ha un’ampia hall e un accogliente foyer, aree idonee anche per mostre, esposizioni e catering. Sono infine presenti luminosi spazi per la re- ception e la segreteria. Disponibili, inoltre, la sala Perazzo da novantanove posti e sei salette da cinquanta posti attrezzate per incontri e meeting”.
Certo, anche le antiche abbazie servivano a molte cose e potevano ospitare moltitudini di fedeli per diversi motivi, ma vi aleggiava un alito di sacro che sembra essere escluso dalla mission del centro congressi Santo Volto, nato con il preciso obiettivo «di divenire fulcro catalizzatore delle tematiche di maggior interesse tecnoscientifico, culturale, sociale e di attualità, nonché di confronto tra mondo laico e cattolico, in una prospettiva etica e valoriale», manco ci si dovesse firmare all’interno il compromesso storico o i Patti lateranensi. L’edificio, costato una trentina di milioni di euro, è completato da una torre campanaria all’incontrario, dato che le campane si trovano ai piedi della ciminiera, riadattata alla bisogna avvolgendovi un filo metallico elicoidale con una croce sulla cima che la rende molto gabbia di Faraday. La chiesa di Richard Meier a Roma sembra invece una piscina. Uno di quegli orribili poliplessi natatori che inorgogliscono i capoluoghi di provincia. Si trova nel quartiere popolare Tor Tre Teste ed è dedicata a Dio Padre Misericordioso, misericordia che Dio Padre crediamo debba esercitare al massimo grado davanti alle vele dell’archistar statunitense. L’edificio, consacrato nel 2003, è una delle nuove chiese sorte nella periferia romana dopo il Concilio Vaticano II e poi in occasione del Giubileo del 2000, una di quelle che Antonio Paolucci criticava perché troppo simili a musei e grandi magazzini. E fa parte di quei quasi cinquanta luoghi di culto spuntati nella capitale a seguito della campagna promossa nei primi anni novanta dall’allora cardinale vicario Camillo Ruini: quod non fecerunt Barberini, fecit Ruini. Il segno distintivo di Meier si imprime nelle vele che raggiungono i ventisei metri di altezza, rigorosamente in cemento mangiasmog in ossequio alla cultura ecologistica della postmodernità, e rappresentano appunto le vele – a dire dell’architetto – della «barca della Chiesa» che ci «condurranno verso un nuovo mondo». Una ben augurante profezia in stile Orietta Berti per cui finché la barca va, lasciala andare.
Il cemento è uno dei must dell’architettura moderna applicata alle chiese. Al suo fascino non si sottrae neanche Massimiliano Fuksas nel progettare la chiesa di San Paolo Apostolo a Foligno, un monolitico cubo in calcestruzzo armato, consacrato nel 2009 come atto di riparazione dei danni del terremoto umbro-marchigiano del 1997. L’edificio, concepito come una scatola nella scatola di trenta metri di lunghezza e ventisei di altezza, dal costo di tre milioni di euro, è di una tracotanza epocale, nonché fuori contesto rispetto al territorio (ma proprio così voleva l’architetto romano), cioè la tipica cittadina umbra dai tetti rossi. Fuksas, che a meno di una senile conversione immaginiamo se non ateo almeno agnostico, stando alle rivoluzionarie e giovanili esuberanze di matrice comunista, tratteggia con la sua scatola di cemento una teofania negativa, una via negationis molto interessante ed efficace per dimostrare l’esistenza di Dio: certi che Dio non possa abitare un luogo di tanta bruttezza, ragionando a contrario Egli potrebbe esistere in ogni altro dove, per cui il mondo risplenderebbe tutto della presenza divina tranne quel piccolo cubo. E per questo ce ne faremo una ragione. Ragione che non riescono a farsi i fedeli folignati: a Natale di un paio di anni fa non hanno resistito al freddo intenso che regnava nel cubo fuksasiano, cosicché la messa venne celebrata nel salone parrocchiale attiguo e si decise per il trasferimento delle liturgie, almeno fino al disgelo. La questione ha un vago sapore teologico: Dante rappresenta il centro dell’Inferno come una ghiacciaia, il Cocito, dove è imprigionato Satana. La Conferenza episcopale italiana non deve avere troppa confidenza con la Divina Commedia, tanto da aver approvato la chiesa di Fuksas che già nella forma ricorda un diabolico frigorifero. I parrocchiani si sono lamentati che spesso dentro la navata faccia addirittura più freddo di fuori, che le correnti d’aria gelida mettano a repentaglio la salute degli officianti e dei credenti. E non è prevista facile soluzione. Don Giovanni Zampa, uno dei parroci, spiega che il problema è stato affrontato, ma «purtroppo l’edificio ha dei vincoli estetici posti dal progettista che non ci consentono di intervenire». Piuttosto che i caloriferi, pensa Fuksas, muoiano i cristiani.
Angelo Crespi