30 Luglio 2020

Non è difficile accettare la diversità ma la normalità. Su “Io sono io”, libro grave e sincero. Non è solo una questione di genere

Il Fato gioca burlandosi del tempo e bara sul destino di noi esseri umani. Come biglie dentro un sacchetto, prima o poi saremo lanciati sulla pista e, cozzando, qualche sfera arriverà alla meta mentre altre rotoleranno fuori dai limiti consentiti. In verità, se solo fossimo meno ciechi e meno bari, il gioco del destino del mondo sarebbe divertente. Ma noi siamo ciechi e bari e più cerchiamo di truccare le nostre biglie, più, dio se la ride. Tanto, nessuno lo batte: vince sempre lui. Sa perfettamente, infatti, che le biglie non possono seguire la traiettoria imposta da chi le lancia. Dipende dalla fisica. Solo dalla fisica e, ovviamente, dal tipo di terreno. Se gioco al mare la sabbia fa attrito, ma se gioco su una pista, vedi quanto quelle piccole sfere di vetro, corrono veloci. Se una cade inavvertitamente a terra, prima o poi un altro giocatore la raccoglie per lanciarla su altro terreno. Io sono io, il libro di Cinzia Messina scritto in collaborazione con Francesca Viola Mazzoni (edizione Il Ponte Vecchio) è ricco e complesso come una partita di biglie. Piaget, non a caso, sosteneva che tra i tanti giochi infantili, questo fosse il più arduo da comprendere in quanto sono i bambini stessi a decidere di volta in volta insieme il sistema di regole.

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Io sono Io non è altro che il manuale di una bambina, nata biologicamente maschio, che insegna a noi adulti a giocare senza barare. E, l’unico modo per comprenderne le norme, è quello di partecipare al suo gioco senza finzioni. L’opera, originale e fuori da qualsiasi canone (non è un saggio, neppure un racconto lungo o un romanzo breve), è grave e sincera. Non si può definire un diario e neppure un’autobiografia, così, nonostante questo impianto da memoriale ibrido racconti l’incontro di due vite intrecciate e in divenire, si pone anche come vademecum per comprendere il significato di gender variant. Qui la parola “genere” stona anche se si tratta di quello letterario, in quanto Cinzia Messina preferisce evitare accuratamente qualsiasi definizione che incastri la forma. De-finire significa imporre limiti, ingabbiare, ma quando si tratta dell’adolescenza incasellare risulta un processo vano. Non si dice infatti “non è né carne né pesce?” Se poi al posto del genere metti un simbolo (*) quell’adolescente si trasforma in un fiore che sboccia seguendo il ritmo della natura.

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Non appassire precocemente diventa una sfida per chi quotidianamente deve giustificare la sua presenza nel mondo, lottare contro gli stereotipi e affermare il proprio diritto a esistere. “Non è solo una questione di genere” spiega bene Cinzia, parlando dell’infanzia gender variant, il tema assume in realtà un valore altro che investe la nostra cultura occidentale. Ogni bambin* avrebbe diritto a crescere come meglio desidera, ma la verità è che la norma impera. Io sono Io è pertanto la testimonianza della battaglia di una madre coraggiosa in difesa dei diritti di Marco, che vuole essere Greta. Il racconto, articolato su tre voci narranti (due principali, madre e figlia e una terza, quella di Francesca Viola Mazzoni, presenza assenza dove forte è l’imprinting della sua poesia) ha le caratteristiche di un’opera teatrale: due anime in scena si confrontano, si scontrano e si riappacificano. Cinzia si rispecchia in Greta e trova se stessa, Greta scopre se stessa in Cinzia. Tanti sono i caratteri che le rendono facce della stessa medaglia, ad esempio entrambe vogliono disperatamente essere amate. I ricordi più dolorosi del loro cammino insieme si uniscono alle parole di Francesca che traduce con rara intensità i non detto.

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L’intenzione dichiarata all’inizio del libro è quella di affidare a Greta il ruolo di voce narrante ma, alla fine, ci rendiamo conto che la figura principale è Cinzia. Questo libro non è banalmente la storia di una bambina tansgender, come qualcuno scriverà, ma è il racconto di una madre la cui esperienza diventa esperienza universale. Infatti, nonostante Cinzia ammetta candidamente di non avere mai seguito la politica poiché la trovavo noiosa, oggi, battendosi per il riconoscimento del genere non binario, fa politica a pieno titolo. I racconti delle narratrici si intrecciano in un abbraccio consolatorio. Cinzia rievoca la sua gravidanza gemellare, la nascita di Paolo e di Marco, la scelta precoce di quest’ultimo a seguire la sua natura femminile. Greta, invece, con una maturità che sconcerta è un fiume in piena pronto a travolgere l’intera famiglia, tanta era l’urgenza di diventare farfalla. Così, solo affrontando la complessità prendiamo coscienza della banalità del mondo. Dal momento del coming out all’abisso dei sensi di colpa il passo è breve. Per questo madre e figlia intraprendono un percorso di accettazione, rielaborazione e trasformazione fatto di ostacoli e leggi assurde. Dopo le sentenze di medici e di psicologi irrigiditi nel loro sapere accademico, si scopre il significato di Dolore, Inedia, Fame, Desiderio, Amore sulla propria pelle. Così gli amici, la scuola e le istituzioni anziché essere di aiuto, diventano presto le caselle di un Gioco dell’Oca dove rischi solo “passi indietro” e diventa abituale restare fermo un giro. Il The End sembra lontano ma, se i dadi non sono truccati, alla fine si arriva. Marco è solo uno scarabocchio all’anagrafe. Marco non è mai esistito, come sottolinea Greta, allora perché, noi adulti ci siamo così ostinati a credere alle fiabe? La verità è palese ed è davanti a noi con i capelli biondi e gli occhi chiari. Il colore dell’abbandono, scrive Francesca Viola Mazzoni, è quello di un arcobaleno che sbiadisce sotto uno scroscio d’acqua. Sono colori che si mischiano in un rigagnolo tra il grigio e il nero, assumendo l’aspetto di una non tinta.

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Con Greta ho scoperto che non è complesso accettare la diversità ma la normalità. Soprattutto se l’unico colore è quello dell’asfalto. Piaget sostiene che il gioco del bambino può essere paragonato alla morale dell’adulto in quanto sistemi complessi di regole. Ma se l’obiettivo è quello di cercare di vedere la morale dell’adulto nel bambino, abbiamo perso in partenza.  Secondo la pratica del gioco, infatti, i bambini riescono a capirsi e a loro poco importa se una biglia rotola fuori dai bordi. Nella storia di Greta, noi adulti, abbiamo tutti già perso la partita.

Ilaria Cerioli

Gruppo MAGOG