05 Aprile 2019

“Testimoniare l’intestimoniabile”: dialogo con Franco Rella, il samurai del paradosso

Il libro non è uno specchio, il rispecchiamento delle nostre convenzioni, delle consuetudinarie ambizioni. Il libro è un pugnale di vetro: ci scuoia, ci scandisce fino al mostro – o al santo – assiso al centro del nostro labirinto di nervi, arterie, sentimenti. Leggere non è mai un atto leggero, è gesto che incendia il tempo e lo spazio, è un rischio. “Cosa vedremo noi, i lettori, quando, entrati in una inquietante, in una quasi assurda intimità con l’autore, al punto che avvertiamo l’odore nel suo respiro, e il peso della sua mano che calca sul foglio, cominciamo a sentire che anche i nostri occhi si riempiono di terra?”. Intorno alle Scritture estreme (così il titolo di uno dei suoi libri più fortunati, Feltrinelli, 2005) e alla lettura come atto radicale, di grazia verticale, Franco Rella ha costruito una muraglia bibliografica (tra i tanti, Il silenzio e le parole, Dall’esilio, La responsabilità del pensiero) e una serie di traduzioni d’elezione (ha lavorato nell’opera di Rainer Maria Rilke, Gustave Flaubert, Charles Baudelaire, Franz Kafka). Anche in Immagini e testimonianze dall’esilio (Jaca Book 2019), libro pieno di sfaccettata sapienza, da meditare a lungo, Rella rientra in alcuni autori miliari – Thomas Mann, Iosif Brodskij, Eugenio Montale, Herman Melville, Paul Valéry, tra gli altri – e ne scuoia il carisma. Samurai del paradosso (“La narrazione più di ogni altro linguaggio dà forma a ciò che non ha espressione, all’indescrivibile stesso. È la testimonianza che testimonia l’intestimoniabile”), Rella non usa la letteratura come esercizio di narcisismo accademico: essa è l’uncino che ci permette di capire l’uomo e di agganciare la gola della Storia. Senza fare la ramanzina del benpensante, privo dello scoutismo filosofico dei puri di cuore, redditizio e televisivo (“Ogni giorno siamo testimoni della tragedia dell’esodo di milioni di persone… Ogni giorno vediamo l’inabissarsi in mare di uomini, donne e bambini in una sorta di immane e insensato olocausto… Di questo avrei dovuto parlare?… Ma è di questo che io sono in grado di parlare. Dell’esilio di K. e di Dora Markus. E della dimensione esistenziale e metafisica dell’esilio”), Rella ragiona dentro le parole grandi, tiene accesa la fiamma. D’altronde, il pensatore non aiuta le vecchiette ad attraversare la strada: impone la giovinezza, imprime un’altra direzione alle strade.

Lei intende la scrittura, riferendosi a Kafka, come ciò che è casto e osceno, puro e svergognato. “Atto strano dello scrivere. Atto incomprensibile e assurdo”, scrive. Che senso guida, allora, l’atto di scrivere?

Ernesto Sàbato tenta, in Prima della fine, di indagare nel fondo di un interrogativo che potremmo formulare così: “La scrittura è un dovere o una colpa?”. L’unica risposta che – secondo Sàbato – è possibile dare a questa domanda è questa: “La scrittura è un dovere e una colpa”. Non è possibile infatti “esprimere le orribili e contraddittorie manifestazioni dell’anima”; non è possibile “in un mondo in decomposizione” esprimere il caos in cui ci si dibatte senza liberare, e dunque far essere nel mondo “idee e ossessioni” che altrimenti rimarrebbero inspiegabili, e silenti e che pure dobbiamo esprimere. Come Sàbato anche Kafka, anche Proust, anche Thomas Mann.

Di cosa è testimone lo scrittore, cosa dovrebbe testimoniare in un tempo in cui la letteratura sembra una ancella della sociologia?

Una letteratura ancella della sociologia, o servile a un’ideologia, non è vera letteratura. Di questa si occuperanno i dibattiti televisivi e le classifiche di vendita. Simone Weil ha detto che l’arte testimonia la verità, ma che la verità del mondo è un insieme di contraddittori. Esplorare questa tensione è il suo compito.

Che rapporto – di testimonianza, di protesta, di complicità, di rivolta… – c’è tra lo scrittore e la Storia, tra la storia dello scrittore e la Storia di cui è parte?

La Storia ha detto Hegel è un banco da macellaio, nel senso che tende a far scomparire macellando le singole storie che si sono situate in essa. Lo scrittore dovrebbe diventare, come ha detto Michel Tournier, il “pastore” delle singole storie, a partire dalla sua storia, quella che vive e quella che racconta.

“Democrazia e tragedia sono strettamente connesse”. Questo concetto, storicamente ineccepibile, mi pare abbia anche un sentore attuale, ha a che vedere, dice, con il contraddittorio. Oggi c’è la democrazia, ma non il tragico, c’è, tragicamente, soltanto il ‘teatrino della politica’. È così? Cosa resta della democrazia e del ‘tragico’?

In Grecia la tragedia rappresentava le contraddizioni che solcano la comunità, e la democrazia cercava di gestire politicamente queste contraddizioni. La democrazia contiene però al suo interno la sua possibile negazione. I trenta tiranni ad Atene, il populismo oggi: macchine di semplificazione estrema delle contraddizioni, che non vengono risolte ma vengono fatte tragicamente implodere.

Con irrevocabile forza, più che all’epoca di Montale – che fu eletto Senatore a vita – e di Brodskij – voce della cultura russa in esilio –, il poeta oggi vegeta nell’indifferenza, è indifeso, alieno ai grandi mezzi di comunicazione, alienato, voce fuori mercato e fuori controllo, sempre altra. Perché? Perché la voce del poeta non risuona sulle prima pagine dei giornali, nei tiggì, perché la poesia si è ridotta al ‘poetico’ pronto all’uso per passare una lieta giornata? Cosa è successo?

Credo che i poeti non abbiano mai avuto la vita facile. Oggi i grandi (e anche i piccoli) media puntano sull’intrattenimento. Vivono e si nutrono della pubblicità legata agli ascolti. La legge del mercato, a cui il poeta si oppone anche con la sua illeggibilità. Paul Celan parla dell’oscurità della poesia “che muove da una distanza o estraneità che essa stessa, forse, ha inteso progettare”. Un canale televisivo martellava tutto il giorno la notizia che alla sera ci sarebbe stata l’intervista a Fabrizio Corona.

L’atto di scrittura e di pensiero, cioè l’uomo, infine, abitano parole paradossali, ‘nulla’, ‘silenzio’, ‘spaesamento’, ‘espatrio’, ‘perturbante’, ‘estraneità’. Sembra che scrivendo si faccia scempio di sé, si certifichi una personalità atta a essere disintegrata: è così?

A me pare che lo scrittore e l’artista attraversino territori in cui abitano silenzio, perturbamento, espatrio, estraneità. Mi pare anche che lo scrittore e l’artista si facciano testimoni e narratori di questo viaggio. E per essere testimoni e narratori è necessario resistere al disgregamento.

Lei passa da una dimensione, per così dire, etica ed estetica a una dimensione politica quando (a pagina 186) parla di migranti, di muri, di morti. Eppure, l’atto letterario, pur pregno di verità esistenziale (“L’esilio di Kafka è diverso dall’esilio del migrante in terra straniera, ma entrambi vivono la condizione di chi è völlig Fremder, totalmente straniero”) non sembra incidere sulla Storia (potrebbe, d’altronde)? Siamo ceduti, dunque, al fallimento?

Io credo che far propria l’esperienza, anche letteraria o come dice Brodskij metafisica, della totale estraneità faccia scoprire le parole e le immagini con cui possiamo parlare della terribile condizione di estraneità di cui a livello politico e sociale siamo testimoni. Edward Said, esule palestinese in America, che non ha mai dimenticato la drammatica diaspora palestinese, dice che nulla parla dell’esilio come un breve racconto di Conrad. Evidentemente quel racconto gli ha permesso di “vedere” di più, di capire di più.

Sostanzialmente, nel libro parla di autori e libri di ieri, cita dei ‘classici moderni’, per così dire, per quanto intramontabili, di decisiva urgenza. Come giudica la letteratura italiana ed europea, oggi? Cosa legge?

In genere mi pare che negli ultimi decenni ci sia la tendenza, in letteratura come in filosofia, di aggirare le laceranti domande che ossessionavano i grandi scrittori e i grandi filosofi del Novecento. Più prossimi degli autori a cui ho fatto e faccio più spesso riferimento, ricordo anche Philip Roth, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Yoram Kaniuk, Yehoshua Kenaz. Più prossimi ancora Nicole Krauss, Nathan Englander. Tra i poeti Valduga e Magrelli. Ma ammiro in modo sconfinato Simenon. Ho trovato grande letteratura anche in scrittori cosiddetti di genere, come Herbert Lieberman, Tim Willocks, Karin Slaughter.

Gruppo MAGOG