I tempi, per lo più, sono appropriati. Vista l’isteria bellica, è tornata di moda, per così dire, la dissidenza anti-sovietica. Gli editori hanno dissodato antiche storie, intramate nell’orrore, pertinenti a un’era eroica. Così – a titolo di esempio – Ponte alle Grazie ha da poco pubblicato un romanzo di Giovanni Greco, Bruciare da sola, che ha per protagonista Nadežda Mandel’štam, la moglie di Osip, icona della lotta al regime stalinista; l’anno scorso Feltrinelli ha stampato un libro, Lo scrittore senza nome. Mosca 1966: processo alla letteratura, in cui Ezio Mauro ripercorre, con doti romanzesche, il fatidico processo intentato ad Andrej Sinjavskij e a Julij Daniel’. Tutto bello. Il paradosso editoriale, piuttosto, mi sorprende, sa di intimidazione etica: di Nadežda Mandel’štam e del caso Sinjavskij-Daniel’ si pubblicano esegesi, commenti, resoconti, racconti; nessuno osa riproporre le fonti. Eppure – pur ornando di allori Greco, lo scrittore – sarebbe bene recuperare gli scritti autobiografici di Nadežda Mandel’štam, L’epoca e i lupi e Le mie memorie (stampati, nel 1971 e nel ’72 da Mondadori e Garzanti; tra l’altro, con un passo narrativo notevole, cupa sinfonia polemica, requiem sul reiterato eccidio); sarebbe necessario ristampare il Libro bianco sul caso Daniel’ Sinjavskij, costruito da Aleksandr Ghinsburg, testo cardinale della dissidenza russa, edito da Jaca Book, con l’autorevolezza di un gesto politico, nel 1967. Invece: si preferisce interpretare, mediare, semplificare, ridurre l’irriducibile della lotta a fatto di cronaca, magari attualizzando, estenuando, spalmando miele sulle ferite inferte; roba, appunto, da editoria da diporto, portuale, sulla portantina, a rimorchio dei tempi, incapace di audacia.
In fondo, si tende ad anestetizzare la dissidenza, a dissiparla, storicizzando, rielaborando, in una vaga presunzione di liceità morale. Ignavia estetica, insomma, cauta protervia anestetica… Il Libro bianco sul caso Daniel’ Sinjavskij, invece, la bibbia del dissenso, andrebbe pubblicato così com’è, con quel caos caustico di documenti, perché dimostra l’accelerazione spasmodica del regime nel controllo della letteratura, del poeta. Stalin, che voleva forgiare una generazione di ingegneri dell’anima, spediva i letterati dissenzienti nei campi di lavoro; Chruščëv e Bréžnev li marginalizzavano, li processavano, riducendoli a paria sociali. Così, nel 1961 i servizi segreti sovietici sequestrano Vita e destino, il romanzo di Vasilij Grossman; nel 1964 il poeta poco più che ventenne Iosif Brodskij viene processato per “parassitismo sociale” e costretto ai lavori sociali; “il 10 febbraio alle 10 del mattino”, è il 1966, in una piccola aula del Tribunale di Mosca vengono giudicati Daniel’ e Sinjavskij, rei di aver pubblicato, sotto pseudonimo, all’estero, libri antisovietici (per chi strologa tra i segni: il 10 febbraio nasce Boris Pasternak, la sua morte, nel 1960, apre l’era di un diffuso, sottile, pervasivo sistema di controllo della letteratura sovietica). Per la prima volta, un processo è intentato ad autori di libri, a letterati che hanno osato rispondere con creatività alle fatue imposizioni di regime. Sinjavskij, noto all’estero come Abram Terts, non dimenticò il proprio cupo cinismo davanti ai propri accusatori:
“La democrazia occidentale è fondata sulla ‘libertà della persona’, sulla ‘libertà di concorrenza’ ecc. In occidente dicono: libertà di scelta. Io ironizzo su queste cose. Il Signore Iddio non è un parlamento. Per un credente il problema della libertà non esiste. Per l’uomo teleologico non vi è libertà di scelta. In questo senso parlo degli scrittori sovietici, ad essi non si pone il problema della scelta. O credi, oppure, se non credi (misura con lo sguardo il banco degli imputati), vai in prigione”.
Nel 1965 il Nobel per la letteratura viene assegnato a Michail Šolochov, “il massimo rappresentante della letteratura del realismo socialista” (Cesare G. De Michelis), autore de Il placido Don, un tempo idolatrato, oggi rosolato nell’oblio, già deputato al Soviet Supremo: amava scagliarsi contro Daniel’ e Sinjavskij. Durante il XXIII congresso del Pcus (che inquieto senso di tranquillità questo sviolinare acronimi e cifre, con sinuosa ricorrenza) Šolochov diede sfoggio di oratoria omerica:
“Noi, letterati sovietici, determiniamo il posto dello scrittore nella vita della società come comunisti, come figli della nostra grande Patria, come cittadini del paese che lavora all’edificazione della società comunista, come interpreti delle idee umanistico-rivoluzionarie del partito, del popolo e dell’uomo sovietico… Sono orgoglioso di essere figlio di una Patria potente e bella. Essa ci ha creato, ci ha dato tutto, senza misura. Noi chiamiamo la nostra Patria sovietica con il nome di Madre… Penso che tutti lo comprendano; non c’è niente di più sacrilego e rivoltante che insultare la propria madre, offenderla volgarmente, alzare contro di lei la mano! Io mi vergogno per coloro che hanno calunniato la Patria e hanno infangato ciò che abbiamo di più caro”.
Fu sommerso da un vasto rio di applausi, lo scrittore cortigiano, incurante dell’abisso che lo stava travolgendo. Credeva di essere nel giusto, la giustizia era un boia mascherato da bebè. In una lettera inviata, tra gli altri, all’Unione degli scrittori sovietici e alla “Pravda”, Lidija Čukovskaja, l’amica di Anna Achmatova, custode della sua memoria, ricordò all’onnipossente Šolochov il senso specifico della letteratura russa:
“I libri creati dai grandi scrittori russi, hanno insegnato e insegneranno all’umanità a penetrare nei complessi motivi degli errori, dei delitti e delle colpe umane, non in modo sommario, ma in modo approfondito e sottile… In questa penetrazione sta propriamente la capacità umanizzatrice della letteratura russa”.
La Čukovskaja – che pure riconosceva la granitica grandezza de Il placido Don –, in sostanza, dava del burattino a Šolochov, scrittore impagliato, impaniato nel pantano ideologico, “avete parlato da apostata della letteratura… la storia non dimenticherà il Vostro infame discorso”.
Reflui di epoche defluite nel niente, in cui la letteratura teneva sotto scacco il potere, convalidava un’identità, armava congiure. Per lo più, oggi, cattedratici del tedio, usiamo la letteratura come ripiego, come gesto socialmente utile, improvvisato, cronachistico – vedi l’improvvisa gemmazione del romanzo ucraino –, per sempre gregario. Uno studente, giorni fa, mi diceva che “la lotta alla mafia” è incarnata da Roberto Saviano, non ha mai letto Leonardo Sciascia; pur dilatando gli argini dello Strega – si è passati dal mistico pentagono ai magnifici 7 – sono riusciti a dimenticare il solo romanzo formalmente impeccabile, Il cannocchiale del tenente Dumont, di Marino Magliani, che non occhieggia al diletto domenicale p mercantile né alla sociologia di rincalzo.
Il Libro bianco sul caso Daniel’ Sinjavskij è dedicato “alla luminosa memoria di Vigdorova Frida Abramovna”: morta nel 1965, “prese molto a cuore la sorte di Iosif Brodskij”; a lei, tra l’altro, dobbiamo la registrazione stenografica del processo al poeta. Sembra di sostare, insomma, in una specie di chiostro sacro, nella dissidenza come lume e bisbiglio, in una sequela che lega Mandel’štam a Brodskij, Anna Achmatova a Boris Pasternak ad Andrej Sinjavskij – che a Pasternak dedica uno dei suoi saggi più persuasivi e penetranti, stampato da Rizzoli nel 1966, così opportuna che è ora introvabile. Viene da tremare, quasi. In questo tabernacolo di figure estreme, si erge a celebrante Cristina Campo, che riteneva i poeti dissidenti russi dei santi postumi, e Sinjavskij “il solo poeta religioso oggi vivente”. Durante l’arringa difensiva, proprio Sinjavskij pone un problema cruciale:
“Ci si può domandare: che cos’è la propaganda e che cos’è la letteratura? La posizione dell’accusa è questa: la letteratura è una forma di propaganda: la propaganda può essere solo pro-sovietica o antisovietica; quindi se non è sovietica, è certamente antisovietica. Io non sono d’accordo con queste affermazioni… Sono profondamente convinto che nel campo letterario non si possa giudicare con formule giuridiche. Infatti la verità dell’immagine artistica è complessa, spesso l’autore stesso non la può spiegare”.
Nel cortocircuito d’oggi, anche la dissidenza, fatta tra le coccole, nella cioccolateria delle opinioni comuni, sbarbate, da talk, è evoluta in propaganda.
Per questo, forse, Andrej Sinjavskij, un tempo tradotto e pubblicato in lungo e in largo, è pressoché scomparso dal territorio editoriale italico: probabilmente possiamo farne a meno. Nessuno, per altro, ha tempo di pubblicare le memorie e le poesie dal carcere di Julij Daniel’. Ci siamo dimenticati perfino di Šolochov: nonostante tutto, un romanziere più affascinante e più potente di troppi contemporanei. Diamogli uno Strega.
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Febbraio
La giornata è radiosa fuori dalla finestra la primavera è disegnata in blu da un bambino non ho motivo di attendermi pietà o speranza: mi basta questo.
Il male è dimenticato. Soltanto ieri crocifiggevano le nostre anime in un crocevia di urla. Così, care ragazze, guardo la finestra come si fissa uno specchio.
La grigia lana della neve si è sbrigliata, grandi gocce pendono come amuleti. Tra qualche giorno sarete più belle occhi miracolosi, e un velo sulle spalle.
Ancora qualche giorno e dimenticherete la notte setacciata da sogni fragorosi; mollerete ogni convenzione e gli anni correranno a ritroso togliendovi il fiato.
(Le ruote sfioriscono e sarò in una piccola stazione. Annuso la bellezza a mille miglia di distanza: ne sorrido e mi ritiro, tra trafitture d’invidia).
La primavera ci tormenta con i suoi richiami teneri e brutali. Care ragazze, è ora di liberarsi dal dolore, di spogliarsi delle pellicce.