“Di me la notte sembra sapere tutto”. Su una poesia di Alejandra Pizarnik
Poesia
Giorgio Anelli
Ogni letteratura, per rinnovarsi, ha bisogno di un agnello sacrificale, di un poeta – non per forza il più bravo: il genio demoniaco della statistica non alligna in poesia, i poeti non si allineano sulla ‘griglia di partenza’, di solito disobbediscono agli ordini del critico cronometrista – che s’incarichi di portare il linguaggio in luoghi fino ad allora inesplorati. Un Mosè, insomma, che intuisca, di lontano, tra le vertigini del deserto e del balbettio, la promessa.
Questi poeti – in forma diretta o per screanzata fatalità – si sono disancorati dal proprio dire, non sono riusciti a dar contegno – e contentezza editoriale – al proprio talento. Si sono lietamente annientati. E così: l’Harar di Rimbaud, il baule-forziere della Dickinson, la camera di Hölderlin nella casa del falegname Zimmer, l’opera lasciata sola di Leopardi.
L’Indonesia – immensità da quasi trecento milioni di abitanti, pressoché ignorata dai guru dell’editoria – ha avuto in Chairil Anwar il suo profeta. Nato a Medan, Sumatra, nel 1922, eroe della “Generazione del ’45”, il ragazzo, d’indocile precocità, ha, per così dire, sverginato la poesia indonesiana, svecchiandola dal logorio di forme sature, esaurite. Anwar è il poeta della sonora individualità, della poesia-come-vita, dell’ispirazione estremizzata fino all’insensatezza, del distillato, scintillante dissiparsi. Nei suoi versi, improvvisi di proditoria schiettezza, la tradizione – “Pattirajawane, vegliato dagli Antichi” – si fonde al libertinaggio esistenziale, al culto dell’incultura, la trasgressione è ancorata a una norma interiore, senza sudditi. Chairil Anwar, anima sotto scacco, scrive in un paese sotto occupazione: prima quella olandese, secolare, che ghiaccia l’Indonesia al giogo, poi quella giapponese, durante la Seconda guerra. Da qui, i versi di un estraniato, di una belva braccata, il destino della sconfitta, il desiderio di “un mare che non ha nome”.
La morte, giovanissimo, a Giacarta, nell’aprile del 1949, elevarono Chairil Anwar al rango di una specie di rockstar. Morì solo, in disastro sentimentale – fresco di divorzio, inesorabile dongiovanni – forse di sifilide, probabilmente di tubercolosi. Aveva una figlia, Evawane Alissa, nata malata. Letterato d’infrangibile vitalità, tradusse W.H. Auden, Rainer Maria Rilke, Conrad Aiken. Scrisse una settantina di poesia, riserva aurea della poesia estremorientale contemporanea: la maggior parte sono state pubblicate postume.
In Italia, Anwar ha avuto un fido esegeta in Giulio Soravia, che in un numero di “In forma di parole” (ottobre novembre dicembre, 1990) ha tradotto un’ampia silloge delle sue poesie. La sua nota fa intuire, per chiaroscuri, l’estro del poeta:
“Chairil Anwar viveva contraddittoriamente: vestiva con eleganza, quando poteva, e dormiva sotto i ponti, tra mendicanti e prostitute. Ospite in casa d’amici, spesso, poiché conosceva tutti e di tutti era amico, era anche il misantropo scontroso e ribelle che faceva l’amore in pubblico in un parco di Jakarta per sfidare la società. Restava sostanzialmente chiuso in se stesso alla ricerca della vita, per carpire ciò che questa poteva dargli, quasi presentisse la fine vicina, ma anche sincero pellegrino del mondo, profondo e superficiale al tempo stesso. È probabilmente impossibile cercare di capire interamente Chairil Anwar, meno che mai di riassumerlo. In lui vivevano culture diverse, mondi diversi in equilibrio instabile e in un momento in cui storicamente ogni equilibrio crollò: Oriente e Occidente, il Giappone imperialista e militarista e le potenze colonizzatrici d’Europa, libertà e tradizione… La sua vita restò nel disordine fino all’ultimo, eppure con una lucidità singolare”.
Nessun libro di Chairil Anwar ha visto luce in Italia, l’Indonesia è lontana dai nostri radar poetici; una edizione dei Selected Poems di Chairil Anwar esce nel 1963 per la mitica New Directions (la casa editrice di Pound); Complete Poetry and Prose of Chairil Anwar esce a New York nel 1970, a cura di Raffel Burton.
L’uomo che voleva vivere mille anni non arrivò, su questa terra, neppure a ventotto. Ma chissà cos’è poi vivere, chissà in quali mondi continua a vagare Chairil Anwar prima di compiere la quota prefissa: 972 anni di erranza tra le ombre. Nelle sue poesie c’è l’agnello che raglia, la iena che scalpita, i marosi dei secoli resi alla sabbia. È difficile vivere da poeta – fare il poeta è tutt’altro.
***
Io
Quando sarà il mio tempo
non voglio che nessuno pianga
nemmeno tu
Che bisogno c’è di lacrime?
Eccomi belva feroce
espulsa dal mucchio
che i proiettili forino pure la mia pelle
continuerò sempre
a correre portando ferite e veleno
a correre
finché scompaia la sofferenza
e io non mi preoccuperò più
voglio vivere altri mille anni
*
Preghiera
a chi crede
Mio Signore
nello sconcerto
ancora so pronunciare il Tuo nome
Anche se è tanto difficile
ricordarTi tutto
La Tua luce è calore terso
una candela tremolante nel buio solitario
Mio Signore
ho perso ogni forma
sono a pezzi
Mio Signore
vago in paesi che non sono miei
Mio Signore
busso alla Tua porta
non so voltarmi e andarmene.
*
Note per il 1946
Le mie mani poi penderanno inerti
prenderanno forma nella nebbia giocando con la luce nell’acqua
e la voce che amo cesserà di carezzarmi
e scolpirò una lapide a colpi di becco.
Noi – cani inseguiti – riusciamo solo a vedere una parte dello spettacolo
senza sapere di Romeo e Giulietta che s’abbracciano nella tomba e nel letto
per un grand’uomo che nasce, centomila ne affogano
ma tutti saranno registrati, per tutti dev’esserci posto.
Noi non ci perseguiterà più il mal dei re
col fucile messo via, ormai un souvenir polveroso
in caccia di senso, consegnati a ragazzi nati per l’occasione
e perciò niente occhiolini! Occhio attento e penna affilata
scrivi perché la carta è arida, la gola è secca, vogliono inumidirsi!
*
Racconto per Dien Tamaela
Sono Pattirajawane
vegliato dagli Antichi
uno solo.
Sono Pattirajawane
schiuma di mare.
Col mare per sangue.
Sono Pattirajawane
quando sono nato
gli Antichi mi portarono il remo.
Sono Pattirajawane, custode dei boschi moscati.
Sono il fuoco sulla spiaggia. Chi s’avvicina
pronunci tre volte il mio nome.
Nel silenzio della notte le alghe danzano
al ritmo del mio tamburo
alberi di noci moscate corpi di vergini
che vivono fino all’alba.
Via alle danze!
Siamo felici!
Dimentichiamoci!
Attenti a non farmi arrabbiare!
Posso far morire gli alberi, stecchire ragazze
mandare gli spiriti degli Antichi.
Io sono nella notte e nel giorno.
Il ritmo delle alghe, il fuoco che brucia l’isola…
Sono Pattirajawane
vegliato dagli Antichi
uno solo.
*
Crepuscolo in un piccolo porto
Stavolta non c’è più chi cerchi amore
tra edifici vecchie case serque
di pali e fughe di cordami. Navi barche alate per sempre
sospiri perché esiste un legame e questo è certo.
Gocce di pioggia affrettano il buio. Colpi d’ala di un’aquila
sfiorano l’oscurità, il fremito del giorno nuota veloce
incontro a una dolcezza futura. Immobili
qui onde di terra e d’acqua s’acquietano.
È tutto. Sono io solo. cammino
a pettinare questa lingua di terra senza speranza
per raggiungere il capo e riprendere con un addio il cammino
dalla quarta spiaggia, singhiozzo ultimo in un abbraccio.
*
Notte sulle montagne
Io penso: è questa la luna siderea,
che illividisce le case e immobilizza i rami?
Stavolta una risposta la voglio davvero
a rincorrere ombre come gioco di bimbi.
*
Dai!
Andiamocene da questo paese
come abbiamo progettato da tanto tempo
siamo già d’accordo
e uno a uno
riversiamoci dove c’è maggior progresso
prima di partire
defoliamo a zero gli alberi ondeggianti
rasiamo le donne dai capelli ondeggianti
dalla nostalgia non ti puoi strappare
Traduzione di Giulio Soravia
*
Gesù
ai veri cristiani
Quel Corpo
zampilla sangue
sangue zampilla
crolla
si spezza
turbina la domanda: sono l’errore, sono l’errante?
ho visto il Corpo grondare sangue
in quel sangue mi specchio
riflette gli scintillanti occhi dell’epoca
e muto all’improvviso in un’altra forma
ferita suturata
ne gioisco
quel Corpo
zampilla sangue
sangue zampilla
*
Pini in lontananza
I pini pattugliano le distanze
mentre il giorno si fa notte
i rami sbattono contro la finestra
spinti da un vento acido.
Ora posso sopravvivere
da tempo ho svuotato l’infanzia
ciò che allora era importante
ormai non conta nulla.
Vita: posticipata sconfitta
abbandonare gli amori sconfinati
della giovinezza, sapere che conta
soltanto il non detto, prima della
definitiva acquiescenza.
*
L’annuncio
Non è mio intento dettare
la dittatura di un destino:
ciascuno è la propria solitudine.
Tra tutti ho scelto te
ma all’improvviso il vuoto, brutale
ha teso la sua trappola. C’è stato un tempo
in cui eravamo come bambini
incoronati dall’oscurità: ci siamo
baciati e coccolati fino a sfiancarci.
Non volevo lasciarti mai.
Ma non unire la tua vita alla mia:
non posso stare con una creatura umana
troppo a lungo. Ti scrivo da una nave
da un mare che non ha nome.
Chairil Anwar