Ogni letteratura, per rinnovarsi, ha bisogno di un agnello sacrificale, di un poeta – non per forza il più bravo: il genio demoniaco della statistica non alligna in poesia, i poeti non si allineano sulla ‘griglia di partenza’, di solito disobbediscono agli ordini del critico cronometrista – che s’incarichi di portare il linguaggio in luoghi fino ad allora inesplorati. Un Mosè, insomma, che intuisca, di lontano, tra le vertigini del deserto e del balbettio, la promessa.
Questi poeti – in forma diretta o per screanzata fatalità – si sono disancorati dal proprio dire, non sono riusciti a dar contegno – e contentezza editoriale – al proprio talento. Si sono lietamente annientati. E così: l’Harar di Rimbaud, il baule-forziere della Dickinson, la camera di Hölderlin nella casa del falegname Zimmer, l’opera lasciata sola di Leopardi.
L’Indonesia – immensità da quasi trecento milioni di abitanti, pressoché ignorata dai guru dell’editoria – ha avuto in Chairil Anwar il suo profeta. Nato a Medan, Sumatra, nel 1922, eroe della “Generazione del ’45”, il ragazzo, d’indocile precocità, ha, per così dire, sverginato la poesia indonesiana, svecchiandola dal logorio di forme sature, esaurite. Anwar è il poeta della sonora individualità, della poesia-come-vita, dell’ispirazione estremizzata fino all’insensatezza, del distillato, scintillante dissiparsi. Nei suoi versi, improvvisi di proditoria schiettezza, la tradizione – “Pattirajawane, vegliato dagli Antichi” – si fonde al libertinaggio esistenziale, al culto dell’incultura, la trasgressione è ancorata a una norma interiore, senza sudditi. Chairil Anwar, anima sotto scacco, scrive in un paese sotto occupazione: prima quella olandese, secolare, che ghiaccia l’Indonesia al giogo, poi quella giapponese, durante la Seconda guerra. Da qui, i versi di un estraniato, di una belva braccata, il destino della sconfitta, il desiderio di “un mare che non ha nome”.
Chairil Anwar (1922-1949)
La morte, giovanissimo, a Giacarta, nell’aprile del 1949, elevarono Chairil Anwar al rango di una specie di rockstar. Morì solo, in disastro sentimentale – fresco di divorzio, inesorabile dongiovanni – forse di sifilide, probabilmente di tubercolosi. Aveva una figlia, Evawane Alissa, nata malata. Letterato d’infrangibile vitalità, tradusse W.H. Auden, Rainer Maria Rilke, Conrad Aiken. Scrisse una settantina di poesia, riserva aurea della poesia estremorientale contemporanea: la maggior parte sono state pubblicate postume.
In Italia, Anwar ha avuto un fido esegeta in Giulio Soravia, che in un numero di “In forma di parole” (ottobre novembre dicembre, 1990) ha tradotto un’ampia silloge delle sue poesie. La sua nota fa intuire, per chiaroscuri, l’estro del poeta:
“Chairil Anwar viveva contraddittoriamente: vestiva con eleganza, quando poteva, e dormiva sotto i ponti, tra mendicanti e prostitute. Ospite in casa d’amici, spesso, poiché conosceva tutti e di tutti era amico, era anche il misantropo scontroso e ribelle che faceva l’amore in pubblico in un parco di Jakarta per sfidare la società. Restava sostanzialmente chiuso in se stesso alla ricerca della vita, per carpire ciò che questa poteva dargli, quasi presentisse la fine vicina, ma anche sincero pellegrino del mondo, profondo e superficiale al tempo stesso. È probabilmente impossibile cercare di capire interamente Chairil Anwar, meno che mai di riassumerlo. In lui vivevano culture diverse, mondi diversi in equilibrio instabile e in un momento in cui storicamente ogni equilibrio crollò: Oriente e Occidente, il Giappone imperialista e militarista e le potenze colonizzatrici d’Europa, libertà e tradizione… La sua vita restò nel disordine fino all’ultimo, eppure con una lucidità singolare”.
Nessun libro di Chairil Anwar ha visto luce in Italia, l’Indonesia è lontana dai nostri radar poetici; una edizione dei Selected Poems di Chairil Anwar esce nel 1963 per la mitica New Directions (la casa editrice di Pound); Complete Poetry and Prose of Chairil Anwar esce a New York nel 1970, a cura di Raffel Burton.
L’uomo che voleva vivere mille anni non arrivò, su questa terra, neppure a ventotto. Ma chissà cos’è poi vivere, chissà in quali mondi continua a vagare Chairil Anwar prima di compiere la quota prefissa: 972 anni di erranza tra le ombre. Nelle sue poesie c’è l’agnello che raglia, la iena che scalpita, i marosi dei secoli resi alla sabbia. È difficile vivere da poeta – fare il poeta è tutt’altro.
***
Io
Quando sarà il mio tempo non voglio che nessuno pianga nemmeno tu
Che bisogno c’è di lacrime?
Eccomi belva feroce espulsa dal mucchio
che i proiettili forino pure la mia pelle continuerò sempre a correre portando ferite e veleno a correre finché scompaia la sofferenza
e io non mi preoccuperò più
voglio vivere altri mille anni
*
Preghiera
a chi crede
Mio Signore nello sconcerto ancora so pronunciare il Tuo nome
Anche se è tanto difficile ricordarTi tutto
La Tua luce è calore terso una candela tremolante nel buio solitario
Mio Signore
ho perso ogni forma sono a pezzi
Mio Signore
vago in paesi che non sono miei
Mio Signore busso alla Tua porta non so voltarmi e andarmene.
*
Note per il 1946
Le mie mani poi penderanno inerti prenderanno forma nella nebbia giocando con la luce nell’acqua e la voce che amo cesserà di carezzarmi e scolpirò una lapide a colpi di becco.
Noi – cani inseguiti – riusciamo solo a vedere una parte dello spettacolo senza sapere di Romeo e Giulietta che s’abbracciano nella tomba e nel letto per un grand’uomo che nasce, centomila ne affogano ma tutti saranno registrati, per tutti dev’esserci posto.
Noi non ci perseguiterà più il mal dei re col fucile messo via, ormai un souvenir polveroso in caccia di senso, consegnati a ragazzi nati per l’occasione e perciò niente occhiolini! Occhio attento e penna affilata scrivi perché la carta è arida, la gola è secca, vogliono inumidirsi!
*
Racconto per Dien Tamaela
Sono Pattirajawane vegliato dagli Antichi uno solo.
Sono Pattirajawane schiuma di mare. Col mare per sangue.
Sono Pattirajawane quando sono nato gli Antichi mi portarono il remo.
Sono Pattirajawane, custode dei boschi moscati. Sono il fuoco sulla spiaggia. Chi s’avvicina pronunci tre volte il mio nome.
Nel silenzio della notte le alghe danzano al ritmo del mio tamburo alberi di noci moscate corpi di vergini che vivono fino all’alba.
Via alle danze! Siamo felici! Dimentichiamoci!
Attenti a non farmi arrabbiare! Posso far morire gli alberi, stecchire ragazze mandare gli spiriti degli Antichi.
Io sono nella notte e nel giorno. Il ritmo delle alghe, il fuoco che brucia l’isola…
Sono Pattirajawane vegliato dagli Antichi uno solo.
*
Crepuscolo in un piccolo porto
Stavolta non c’è più chi cerchi amore tra edifici vecchie case serque di pali e fughe di cordami. Navi barche alate per sempre sospiri perché esiste un legame e questo è certo.
Gocce di pioggia affrettano il buio. Colpi d’ala di un’aquila sfiorano l’oscurità, il fremito del giorno nuota veloce incontro a una dolcezza futura. Immobili qui onde di terra e d’acqua s’acquietano.
È tutto. Sono io solo. cammino a pettinare questa lingua di terra senza speranza per raggiungere il capo e riprendere con un addio il cammino dalla quarta spiaggia, singhiozzo ultimo in un abbraccio.
*
Notte sulle montagne
Io penso: è questa la luna siderea, che illividisce le case e immobilizza i rami? Stavolta una risposta la voglio davvero a rincorrere ombre come gioco di bimbi.
*
Dai!
Andiamocene da questo paese come abbiamo progettato da tanto tempo siamo già d’accordo
e uno a uno riversiamoci dove c’è maggior progresso
prima di partire defoliamo a zero gli alberi ondeggianti rasiamo le donne dai capelli ondeggianti
dalla nostalgia non ti puoi strappare
Traduzione di Giulio Soravia
*
Gesù
ai veri cristiani
Quel Corpo zampilla sangue sangue zampilla
crolla si spezza
turbina la domanda: sono l’errore, sono l’errante?
ho visto il Corpo grondare sangue in quel sangue mi specchio
riflette gli scintillanti occhi dell’epoca e muto all’improvviso in un’altra forma
ferita suturata
ne gioisco
quel Corpo zampilla sangue sangue zampilla
*
Pini in lontananza
I pini pattugliano le distanze mentre il giorno si fa notte i rami sbattono contro la finestra spinti da un vento acido.
Ora posso sopravvivere da tempo ho svuotato l’infanzia ciò che allora era importante ormai non conta nulla.
Vita: posticipata sconfitta abbandonare gli amori sconfinati della giovinezza, sapere che conta soltanto il non detto, prima della definitiva acquiescenza.
*
L’annuncio
Non è mio intento dettare la dittatura di un destino: ciascuno è la propria solitudine. Tra tutti ho scelto te ma all’improvviso il vuoto, brutale ha teso la sua trappola. C’è stato un tempo in cui eravamo come bambini incoronati dall’oscurità: ci siamo baciati e coccolati fino a sfiancarci. Non volevo lasciarti mai. Ma non unire la tua vita alla mia: non posso stare con una creatura umana troppo a lungo. Ti scrivo da una nave da un mare che non ha nome.