Aveva 23 anni, i giornali di Leningrado, affini al potere, lo accusarono prima di pornografia, poi di antistalinismo, infine di “degradare” la gioventù moscovita. Eppure, era solo un poeta, era il novembre del 1963, Stalin era schiattato da dieci anni, Martin Luter King salmeggiava I have a dream, Gregory Peck vinceva l’Oscar per Il buio oltre la siepe e Nikita Chruščëv prometteva una vita sovietica più pop.
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Arrestato nel novembre del 1963, Iosif Brodskij, il poeta, fu processato il 18 febbraio 1964. Naturalmente, l’esito del processo era dato per ovvio: “Al processo non poterono assistere tutti coloro che lo avrebbero desiderato in quanto i posti furono occupati da lavoratori convocati dalle autorità per ingiuriare l’imputato nel corso delle udienze” (Marco Clementi, Storia del dissenso sovietico, Odradek Edizioni 2007, p.46). Il processo divenne emblematico: nonostante le promesse di apertura, l’Urss stritolava i dissidenti, mandava al confino i poeti. La trascrizione del dialogo tra il giudice e l’imputato, il poeta – il poeta per sua natura è sempre l’imputato, colui che è messo all’indice – ci è giunta, clandestinamente, grazie a Frida Vigdorova. Eccone alcuni passaggi.
Giudice: Qual è la sua specializzazione?
Brodskij: Sono poeta. Poeta e traduttore.
G: E chi l’ha riconosciuta come poeta? Chi ha inserito il suo nome tra quello dei poeti?
B: Nessuno. E chi ha inserito il mio nome tra quello degli uomini?
G: Avete studiato per questo?
B: Per cosa?
G: Per diventare poeta. Non avete frequentato un istituto dove preparano… dove insegnano…
B: Non credo che questo si possa ottenere con un’istruzione.
G: Ma con cosa, allora?
B: Io credo che… venga da Dio.
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L’ironia non paga ma le amicizie aiutano. Accusato di “parassitismo sociale”, il poeta viene condannato a cinque anni di lavori forzati. “Dopo qualche tempo all’ospedale psichiatrico annesso al carcere di Leningrado (ed è l’esperienza più dura), Brodskij è inviato nel villaggio di Norinskaja, nella regione di Archangel’sk, nel Grande Nord” (Giovanni Buttafava). La detenzione di Brodskij dura un anno e mezzo, grazie alle proteste di autorevoli artisti, come Eugenij Evtushenko, Dmitri Shostakovich, Anna Achmatova, Sartre. In una intervista, nel 1981, Brodskij parla sommariamente del periodo di detenzione. “Ti iniettano di tutto, ogni tipo di farmaco. Le iniezioni sono veramente… a volte sono veramente dolorose. Dopo quelle di zolfo, per esempio, non riesci più a muovere nemmeno un dito senza gridare di dolore. Oppure ti svegliano in piena notte, ti avvolgono stretto in un lenzuolo e ti buttano in una vasca d’acqua gelida. Poi ti tirano fuori e lasciano che il lenzuolo ti si asciughi addosso; be’, le pieghe ti entrano nella carne, fa molto male. Mi ricordo però che non sono mai riuscito a odiare i miei carcerieri perché di ognuno pensavo, ha una famiglia, è un poveraccio, un idiota, è fatto così, e questa è già di per sé una punizione”. In Russia, sostanzialmente, Brodskij non pubblica, se non qualche poesia, in sporadici almanacchi. Nel 1968 “sembra che una casa editrice accetti di pubblicare una raccolta di poesie di Brodskij. Il poeta prepara la scelta, arriva fin quasi alla firma del contratto. Ma le circostanze politiche si fanno precarie, e non se ne fa niente” (Buttafava). Alcune poesie, invece, vengono pubblicate negli Stati Uniti, introdotte da W. H. Auden.
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Dal 1971 le autorità sovietiche invitano Brodskij a lasciare il paese, a trasferirsi, figlio di ebrei, discendente di una antica ed eminente famiglia rabbinica, in Israele. Lo invitano all’esilio forzato. Il 4 giugno 1972 il poeta lascia per sempre la Russia, la sua Gerusalemme è la poesia: prima atterra a Vienna, per incontrare Auden, poi vola negli Stati Uniti. Decide di non recitare la parte del martire, dell’artista vessato dai Soviet: “Non mi piace parlare del mio arresto. È come darsi delle arie. È roba melodrammatica. In tutta la mia vita ho sempre cercato di evitare il melodramma. Mi hanno messo tre volte in galera e due volte in un ospedale psichiatrico, ma questo non ha influenzato minimamente la mia scrittura. Non c’è alcun nesso tra le due cose. Fa parte della mia biografia, ma la biografia non ha assolutamente nulla a che vedere con la letteratura, o molto poco” (in una intervista del 1991, raccolta in: Iosif Brodskij, Conversazioni, Adelphi, 2015).
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Nel 1962 Anna Achmatova presenta a Brodskij l’artista Marina Basmanova, di marziale bellezza. A lei Brodskij continua a scrivere poesie, dedicate semplicemente a “M.B.”. Non si sposano, ma l’8 ottobre 1967, dall’unione tra Iosif e Marina, nasce Andrei. Il figlio è registrato con il nome della madre, per evitare ritorsioni; è allora che Marina si separa dal poeta. Lasciando la Russia, Brodskij si separa per sempre da Marina e da Andrei. Nel 1990 Brodskij sposa Maria Sozzani, altra bellezza che intimorisce: nel 1993 nasce la figlia Anna. Solo negli anni Novanta Iosif può incontrare, a New York, il figlio Andrei, che si è sposato e ha tre figli.
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In un discorso pubblico agli studenti del Williams College, è il 1984, Brodskij rievoca, in modo elusivo, gli anni della detenzione. Il discorso s’intitola Per citare un versetto e dà una interpretazione più compiuta del versetto evangelico, standardizzato in buonismo, “porgi l’altra guancia”. “La più sicura difesa contro il Male è un individualismo estremo, l’originalità di pensiero, la bizzarria, perfino – se volete – l’eccentricità”, dice Brodskij. Il cuore del discorso è un racconto. “Vent’anni fa, in una delle numerose prigioni della Russia settentrionale, avvenne la scena seguente. Alle sette del mattino la porta della cella si spalancò e sulla soglia apparve una guardia che apostrofò i detenuti. ‘Cittadini! Il collettivo delle guardie carcerarie vi sfida tutti, voi detenuti, a una competizione socialista: si tratta di spaccare la legna ammassata nel cortile’”. Brodskij sta al gioco in forma esasperante, la sua è una obbedienza che abbacina, al cubo. “Alle quattro le guardie smisero perché il turno di servizio, per loro, era finito; dopo un po’ si fermarono anche i detenuti. Ma l’ascia di quello là continuava ad andare su e giù. Gli gridarono di piantarla, glielo dissero le guardie e i prigionieri, ma lui niente… Agli occhi degli altri era diventato quasi un automa. Alle cinque, alle sei, l’ascia era ancora in movimento: su e giù. Guardie e detenuti seguivano ogni suo gesto, e sulle loro facce, a poco a poco, la smorfia sardonica lasciò il posto a un’espressione di stupore e poi di terrore. Alle sette e mezzo l’uomo si fermò, si avviò barcollando verso la sua cella, vi entrò e stramazzò addormentato. Per il resto del suo soggiorno in quella prigione non fu più indetta nessuna gara socialista tra guardie e detenuti, sebbene il legname continuasse ad ammucchiarsi”. Morale: “L’etica fondata su un versetto citato erroneamente non ha cambiato nulla nell’India post-gandhiana, salvo il colore del governo… Analogamente, nella Russia post-tolstojana un’etica fondata sull’erronea citazione di questo versetto indebolì di molto la volontà di resistenza della nazione di fronte allo Stato di polizia”. Il “porgere l’altra guancia”, letto nel complesso della citazione evangelica, non significa remissione, “resistenza passiva o non violenta”. Al contrario, “vi è implicita l’idea che il male può essere reso assurdo per eccesso; vi è implicito il suggerimento di rendere assurdo il male sminuendone le pretese con una condiscendenza pressoché illimitata che svaluta il danno. Un atteggiamento simile mette la vittima in una posizione molto attiva, nella condizione di un aggressore mentale. La vittoria possibile in tali circostanze non è una vittoria morale, bensì esistenziale”.
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Di Iosif Brodskij, pubblicato sontuosamente da Adelphi, sembra esserci molto: saggi, interviste, dialoghi. Ma… dove sono le poesie? Sparse in volumi singoli, non sempre eccelsi: perché nessuno le raccoglie in un volume unico? Trent’anni fa, nel 1989, l’almanacco L’anno di poesia pubblicato da Jaca Book, pubblicava un poemetto tratto dagli anni della detenzione di Brodskij. Queste sono le parole introduttive di Giovanni Buttafava: “Nella vicenda umana di Iosif Brodskij, il premio Nobel per la letteratura 1987, la permanenza nell’ospedale psichiatrico del carcere di Leningrado nel 1964 rappresenta un momento breve, ma drammaticamente intenso e difficile. Il giovane poeta, senza mai aver pubblicato un verso, aveva raggiunto una notevole fama fra i lettori del giro clandestino del samizdat; come si dirà poi, aveva commercio con altri intellettuali e poeti, giovani e meno giovani, come Anna Achmatova; viveva in una sorta di universo parallelo, protetto dalle proprie letture, dalle frequentazioni scelte, dagli esercizi di scrittura, dal proprio individualismo inesorabile che rifiutava o evitava contatti col sociale-socialista, che invitava al colloquio. Nell’ospedale psichiatrico del carcere, il ventiquattrenne “parassita”, in attesa di essere giudicato per “fannullaggine” in un processo che fece epoca e rivelò più di ogni altro evento le contraddizioni e i limiti del nuovo corso sovietico, è costretto a scoprire gli altri, a toccare l’ingiustizia, a vivere direttamente il dolore e l’oppressione, a verificare il rapporto-scontro fra individuo e struttura sociale. Dalla breve esperienza manicomiale Brodskij uscì rafforzato, sempre più convinto della propria via individualistica e poetica, ma la prova fu ardua… Frutto di quell’esperienza è soprattutto un poemetto, Gorbunòv e Gorciakòv, sul quale Brodskij lavorò per tre anni, dal 1965 al 1968, più a lungo che su qualunque altro suo progetto. È una delle sue opere più ricche, più rivelatrici, ma anche più originali rispetto al rimanente corpus della sua produzione poetica”.
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Il poeta deve ostinatamente essere ‘rieducato’ – quanto sono frollati in manicomi e ospedali, o in una manicomiale indifesa indifferenza? –, maleducato al tempo, inadatto ai moti sociali, ai ritmi ‘progressivi’. Ma il poeta, anche quando soccombe e la lingua si fa stimmate, vince. (d.b.)
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Nel buio fitto un’enorme città
“Nel buio fitto un’enorme città”.
“Il discorso del caos, ridotto a un sunto”.
“Là c’è un enorme manicomio, quasi
un buco dentro l’ordine del mondo”.
“Maledizione, quanti spifferi dagli angoli!”
“La tua maledizione non mi tocca: non vedo
vita davanti a me, trionfo di parole”.
“Come si fanno verbo i sostantivi!”
“Così dal nido l’uccello se ne va,
dal pensiero del cibo risospinto”.
“Sulla piana una stella si alza e cerca
un interlocutore rilucente”.
“E la pianura stessa, quanto può lo sguardo
Abbracciare, come la posta lento,
tiene vivo di notte il discorso”. “Come fa?”.
“Con tutte le asperità del terreno”.
“Come distinguere le voci nell’oscurità,
anche se questo gioco non ha senso?”
“Se la voce è più alta, è Gorbunòv,
quando è più bassa, è Gociakòv che senti”.
Iosif Brodskij
*traduzione italiana di Giovanni Buttafava