Sacro: sepolcro vuoto – gola sgozzata – attesa mutilata.
Sequela che insinua inseguimento. Il dio: è quadrupede. Il dio: è iena. Il dio: è fionda. Il dio: è il cucciolo d’uomo sulle tue spalle – è il brigante che ti assale alle spalle. È il fiancheggiatore – è il fustigatore. Aquila nostra; nostra quota d’ignoranza.
Così, uomini che più di mille e cinquecento anni fa mercanteggiavano in miraggi, si gettavano, come fuochi fatui, negli invivibili luoghi, tra spelonche di pietra e rosari di scorpioni.
Così, donne che dell’alcova fecero altare; che agli altarini e ai pettegolezzi preferirono l’urlo, l’amore dissennato, l’insania della visionaria presa per strega, preda di lumi lupo e di allucinazioni in maniero.
Così, in India, i sapienti che annegano nel bosco, che tentano, con perigliosa impotenza, l’annientamento. “Questi saggi della foresta hanno pensato tutto”, scrive William Butler Yeats, il poeta totale, che a Maiorca, in ritiro, traduce le Upanishad per soggiogare ogni linguaggio e rimarcare il proprio lignaggio, per scardinare ogni idolo e ogni illusione, rintracciando arcane coincidenze tra India e Irlanda, tra Ṛṣi, i cantori dei “Veda”, e bardi, scoprendo “in quell’Oriente qualcosa di ancestrale che dimora dentro noi stessi”.
Padri del deserto in continua lotta contro di sé e il demone che li azzanna e li azzera; donne contorte da un Dio che le esalta e le esilia; maestri indiani che sondano il nulla per distillare il tutto.
A che servono questi libri? A che leggerli?
A tutto fuorché a fomentare ‘cultura’, a sommare conoscenza a conoscenza, dogi di un nozionismo inerte. Riconoscersi mero eco; esporsi alla spoliazione; risoluti nell’irrisolvibile. Avete mai slacciato uno spirito dalle sue catene? Avete mai assaporato il genio della libertà? Guardatevi, già state mutando volto: ciò che agli occhi degli altri è assurdo, risuona come l’assoluto, il solo.