“Dobbiamo essere umili. Siamo così facilmente vanificati dalle apparenze che non ci accorgiamo che queste pietre sono un tutt’uno con le stelle”
Ogni dire intorno a Hugh MacDiarmid (1892-1978) sfiora la furia della leggenda. Poeta-Minotauro d’implacabile grazia, MacDiarmid, figlio di un postino di Langholm, è l’Achille e il Don Chisciotte della letteratura scozzese. Amato da Yeats, idolatrato da Seamus Heaney – lo disse poeta “pazzo di scrittura” –, fu cofondatore del National Party of Scotland (da cui fu cacciato) e membro estremista del Communist Party of Great Britain (da cui fu espulso). Qualcuno lo accusò di essere fascista; George Orwell preferiva evitarlo. Nel 1933 si ritirò alle Shetland: i pescatori lo scortavano nei luoghi più remoti dell’arcipelago, alla mercé di una solitudine implacabile. Sguainò lo scots, l’antica lingua scozzese, come un’arma regale. Politica e geologia, gesto etico e un’atletica del contrasto contraddistinguono la sua opera più grande, On a Raised Beach, al contempo manifesto di geo-poetica e codice esistenziale, è il poema lapidario che insegna a “Essere noi stessi senza interruzione”, più vertiginoso – ditelo senza sussurrare, da oggi – della Waste Land di T.S. Eliot. Avete tra le mani qualcosa di terrificante.
Le poesie di MacDiarmid sono tradotte e commentate da Marco Fazzini
Illustrazione in copertina di Angelo Borgese