23 Marzo 2022

“Amo la mia disperazione”. Zinaida Gippius: scandalosa, mistica, antibolscevica

Aveva lo sguardo felino del fauno, della strega azzurra. Léon Baskt, straordinario illustratore – farà fama creando le scene dei Balletti russi di Djagilev –, la blocca in abiti maschili, sdraiata su una sedia, virile, lo sguardo da ragazzo, spietato. Nata nei pressi di Tula nel novembre del 1869 da nobili tedeschi, i von Hippius, approdati in Russia nel XVI secolo, sarebbe stata il modello perfetto per un Davide, Zinaida Gippius, pareva uno degli ambigui fanciulli, asessuati, che ispiravano i pittori italiani del Seicento. Prima di tutte, prima che fosse moda – cioè: prima di Nancy Cunard e Mina Loy, delle Gertrude Stein, dei coniugi Bowles e di Djuna Barnes – fu la divina Zinaida a giocare coi sessi, a coltivare le contraddizioni: si atteggiava da maschio, era dotata di una intelligenza sopraffina, metteva in scacco gli intellettuali pietroburghesi del suo tempo.

A cavallo del secolo, ispirata da Nietzsche e dai cavalieri della decadenza francese, aveva infranto tutti i tabù. Educata, tra l’altro, a Kiev – il padre, alto ufficiale del Senato russo obbligò la famiglia a numerosi spostamenti – Zinaida era di una bellezza agghiacciante: spietata, iconica, di cristallo; nelle fotografie è circondata, sempre, da uomini, fissa l’obbiettivo con una consapevolezza mesmerica. Neppure ventenne, si era unita a Dmitrij Merežkovskij, il patriarca del simbolismo russo, il romanziere filosofo – alcuni libri del ciclo “Cristo e Anticristo”, Leonardo. La rinascita degli dèi e La morte degli dèi. Giuliano l’Apostata, sono in catalogo Castelvecchi –, massone, teorico di una fusione tra paganesimo e fede cristiana, profeta di una palingenesi capace di vincere la protervia zarista e la violenza comunista. Insieme, Dmitrij e Zinaida furono la coppia più audace dei primi anni del Novecento, in Russia, la più conturbante. Fondarono riviste; Zinaida, naturalmente, firmava con uno pseudonimo maschile, “Anton Krajnij”, che significa “Antonio l’Estremista”; il suo stile era severo, fermo, privo di orpelli, spesso cinico. Fu con le poesie, tuttavia, che lasciò un’impronta indelebile: a proposito della prima raccolta, edita nel 1903, Innokentij Annenskij, tra le menti più lucide del secolo, scrisse che le poesie della Gippius “sono la quintessenza di un quindicennio di modernismo russo”. I detrattori la dicevano “zarina della doppiezza”, “Madonna indecente”, “petulante androgina”; Andrej Belyj la adorava, “Tra gli artisti di oggi, Zinaida Gippius è la sola armata di una cultura finalmente potente; la sua profondità è fiera, indimenticabile”. La perizia estetica della Gippius è associata alla forza esoterica: a suo dire, la poesia avrebbe dovuto illuminare il popolo – utopia del tutto russa – conducendolo alla liberazione sessuale e spirituale.

Angelo Maria Ripellino – che guardava con sospetto alla poetica di Zinaida – descrive la posa della Gippius in forme suadenti, sibilline: “A leggere i libri di questa poetessa, che parla di sé sempre al maschile, ci par di vederla nel suo salotto di Pietroburgo, così come la descrivono le cronache letterarie del primo Novecento. Accovacciata su un divano, fumando raffinatamente le sigarette odorose che le stavano dinanzi in una scatola laccata di rosso, affascinava i suoi ospiti con paradossi ed enigmi filosofici… Non dissimile spunta ancor oggi la Gippius dalle quinte delle sue liriche, immerse in un clima infuocato di allucinazioni e di sortilegi”.

In realtà, Ripellino fa la diagnosi della prima Gippius, quella che precede la Rivoluzione. Zinaida e il marito cavalcarono il febbraio, la vittoria dei bolscevichi li costrinse all’esilio, a ritrarsi prima in Crimea, poi a Varsavia, infine a Parigi. I cosiddetti “Taccuini neri”, i diari del biennio 1917-19, sono la cronaca spietata degli orrori perpetrati dalla Rivoluzione di Lenin: la Gippius si spoglia del manto satanico, del reliquiario provocatorio, per una scrittura plumbea, appropriata al massacro: “A Kiev, 1200 ufficiali uccisi; gambe mozzate, stivali rubati… A Rostov, ecatombe di cadetti, appena adolescenti, scambiati per membri del Partito Democratico Costituzionale… Chi ha ancora anima in corpo, vaga come fosse un cadavere: non protesta, non attende nulla, non soffre più, e infine crolla nel torbido torpore indotto dalla fame”. Merežkovskij intravide nella Rivoluzione la vittoria dell’Anticristo, la Gippius, per un po’, pensò che il morso indemoniato dei bolscevichi fosse una parentesi, “Le cose che accadono ora nulla hanno a che fare con la storia russa. Presto saranno dimenticate, come le atrocità compiute dai barbari in una qualche isola lontana, svaniranno, senza lasciare tracce”.

Il marasma rivoluzionario è descritto, giorno per giorno, per sketch allucinanti: “Il ‘governo’ bolscevico si configura sempre più come mera marmaglia criminale. L’esecutore dei pogrom è eletto commissario. I giornali sono stati chiusi. A teatro, per un concerto di beneficienza, sono state eseguite le sonate di Rachmaninov accompagnate dalle parole del Cristo risorto di Merežkovskij. Al pubblico di operai non è piaciuto il senso di quelle parole: uno di loro ha sparato al cantante, l’ha quasi ucciso”. Il sistema di controllo è capillare e delirante – “Quasi ogni giorno il bollettino del governo annuncia: ‘Le forze oscure della borghesia macchinano azioni controrivoluzionarie’. Allora le Guardie rosse, a fucili spianati, si precipitano nella folla, urlano ‘disperdetevi!’, sparano. Morti privi di nome… Vergogna è caduta sulla Russia. Un tempo essere russi era un vanto; sarebbe meglio che morissimo, senza vedere altri crimini” –, la minaccia è dappertutto: “Scrivo, di notte, spari… Spengo il fuoco, la strada è bianca, deserta, ombre fendono i muri. Siamo letteralmente circondati da truppe. Trascinano le mitraglie. Sul Don: sangue e fumo. Siamo nelle grinfie di un gorilla e il suo proprietario è un bandito”.

Naturalmente, i diari e le poesie di Zinaida sono pressoché introvabili in Italia. In esilio, l’ispirazione della Gippius, lentamente, scema: l’impegno antisovietico, la missione mistica, una nostalgia divenuta ossessione le inimicano un po’ tutti i salotti. Da par suo, lei non riconosce la nuova orda dei poeti russi: malsopporta la Cvetaeva, che vede come un vampiro sessuomane capace di sottrarle palco e attenzioni. Così, inesorabilmente, la sua poesia, raffinata, voluttuosa, artefatta, a tratti dolce, sarà a poco a poco superata da quella della Achmatova, di Pasternak, di Majakovskij, della Cvetaeva, relegando Zinaida ai fasti di un tempo definitivamente defunto.

Negli anni Trenta la coppia si trasferisce per un po’ in Italia: dai diari di Zinaida traspare una cauta ammirazione – condivisa da molti russi in esilio – per Mussolini, a cui il marito aveva dedicato il saggio su Dante: “Mussolini ha compiuto un gesto meraviglioso mantenendo la promessa di incontrare Dmitrij, per parlare del suo Dante… Sembra essere davvero l’uomo ‘predestinato’ per questo paese, in questo momento. Non s’interessa del passato o del futuro, il suo ‘destino’ è la pienezza dell’istante”, scrive nel 1936. Durante la Seconda guerra, Zinaida s’inventò una rivista per dare spazio a scrittori rigettati dal proprio paese per ragioni ideologiche. Gli ultimi anni, furono un baratro: pesava sulla Gippius la discendenza tedesca, l’allontanamento dalla Russia, una connaturata antipatia. La morte del marito, nel 1941, la sfinì. Si sentiva sola al mondo; lo era. Teffi, straordinaria umorista russa espatriata a Parigi, traccia un ritratto chiaroscurale della fine di Zinaida: “Trascorse gli ultimi mesi scrivendo, di notte. Riempiva diari, uno dopo l’altro, con la sua bella calligrafia. Sarebbe stato il monumento al compagno di una vita, diceva, quel ‘Grande Uomo’, come lo chiamava. Un simile trasporto era insolito in lei: donna dall’intelletto gelido, acutissimo, che spesso soggiaceva alle leggi del cinismo. Doveva averlo amato molto, moltissimo”.

Zinaida morì il 9 settembre del 1945, sussurrando “Valgo poco… ma Dio è saggio”. Il Giappone si era arreso la settimana prima; fu sepolta a Sainte-Geneviève-des-Bois, di fianco al marito. Quasi nessuno partecipò al suo funerale: spiccava il profilo austero di Ivan Bunin: aveva ottenuto il Nobel per la letteratura nel 1933; qualche anno dopo sarebbe stato sepolto pure lui in quello stesso cimitero. Era elegante – e anticomunista.

*

Sanguisughe

Nell’ansa tranquilla dove il fiume tace
nere sanguisughe si attaccano alle radici dei giunchi.

Nell’ora terribile del disinganno, al tramonto dei giorni,
vedo attaccate le sanguisughe all’anima mia.

Ma l’anima stanca è mortalmente placida.
Sanguisughe, nere sanguisughe dell’avido peccato!

1902

(trad. it di Angelo Maria Ripellino)

*

Fino in fondo

A te sconfitta, la mia accettazione,
la vittoria e te amo allo stesso modo;
nel fondo del mio orgoglio – rassegnazione
e gioia e pena – tutt’uno, in eterno.

Sopra le acque, nel silenzio cupo
della sera lucente – tra la nebbia vaga
l’ultima crudeltà – dolcezza senza fondo
e nella verità di Dio – il divino ingannare.

La mia disperazione amo immensamente
nell’ultima goccia giace la felicità.
Una sola cosa so, è certa:
bisogna bere ogni calice fino in fondo.

1901

(trad. it. di Claudia Cucca)

*

Più piano

Poeti, non è ancora ora di scrivere,
la Vittoria è nelle mani di Dio.
Oggi bruciano le ferite
e nessuna parola ha valore.

Nell’ora del dolore inutile,
della battaglia senza soluzione
serve il candore del silenzio
o, forse, una silenziosa preghiera.

1914

(trad. it di Claudia Cucca)

*

Quiete

Per le vie, bianca calma di pace.
Il mio cuore non si sente.
Perché il cuore tace?
Che quiete, una quiete silente…

Città di neve, bianca – risorgi!
La luna – scudo macchiato di sangue.
Il futuro è ancora ignoto…
Cuore mio risorgi!, risorgi!

Non a tutti è dato risorgere.
Neve che tace come morte silente.
Sulla città si stende il peccato.
Su tutti io piango, piango – silenziosamente.

1918

(trad it di Claudia Cucca)

*

Temperanza

Sempre qualcosa non basta
sempre qualcosa eccede
come se a tutto ci fosse risposta
con una sillaba finale, che manca.

Se qualcosa si compie – non è come dovrebbe,
è inopportuna, inconsistente, instabile…
Ogni segno è errato,
in ogni decisione – l’errore.

La luna serpeggia sull’acqua –
il sentiero d’oro splende e mente…
Ovunque eccesso e mancanza.
Soltanto in Dio la temperanza.

1924

(trad. it di Claudia Cucca)

*

Sainte Threse de l’Enfant Jesus

Fanciulla piccina, ignota,
fanciulla con le rose, a me impercettibile,
non sapendo nulla, ogni cosa ti è nota,
tu conosci la via impercorribile –
vieni a me dal paese montuoso,
dai responso al cuore, è ansioso…
Dolce fanciulla, vicina e ignota,
vieni a me, sconosciuto e indecoroso…

Lei non giudica, modesta,
ascolta i desideri del cuore,
le sue rose di tale purezza
emanano una gioia così dolce…
Oh, vieni con me, vicina ed ignota,
rosa rosata, da mille foglie ammantata…

1936

(trad. it di Claudia Cucca)

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