22 Dicembre 2022

La solidarietà non serve a niente: lottate per la vostra vita

Martedì 20 dicembre. Buona giornata mondiale della Solidarietà. Cenni storici: istituita nel 2005 con la Risoluzione 60/209, identifica la solidarietà come uno dei valori fondamentali e universali che dovrebbero essere alla base delle relazioni tra i popoli. La necessità per tutte le nazioni di collaborare ed essere solidali le une con le altre, di lavorare insieme per obiettivi comuni al fine di costruire un futuro più sicuro e prospero per tutti. In pratica: un conveniente spazio di qualche ora per lavarsi la coscienza. E allora eccoci pronti ad ammassarci, a sentirci vicini, peggio: a esprimere vicinanza. Anche tu non sei da meno, nell’intimo lo sai. Non mentire, non mentirti. Tanto ti vedo che vuoi condividere il post delle Nazioni Unite su Instagram, quello tutto colorato. Metterlo nelle storie per fare colpo sul figo in eskimo che all’università si professa comunista. Trattieniti, ti prego, un po’ di dignità.

Zehra Doğan ha 33 anni, occhi seri e una linea verticale tatuata sul mento. Quando arrivo se ne sta in calzini accovacciata, davanti al palazzo del comune della mia città. Lo sguardo è fisso in direzione del cemento sotto di lei. Sopra la sua testa il palazzo del comune e quello dell’Università si fissano tronfi. Tra il suo sguardo e il cemento un foglio di giornale e tre barattoli di vernice: nero, rosso, blu. Dipinge. Si muove come un ragno, tesse la sua tela. Racconta spostandosi sui piedi, le ginocchia piegate. Mentre braccia e mente sono impegnati nel dipinto, gambe e piedi sono lanciati in una danza inconsapevole. Dipinge prima con un pennello – uno solo, non uno per colore – per molti minuti. Poi continua con le dita. Allora lo sguardo si trasforma, diventa bambina. Qualche settimana dopo, leggendo Avremo anche noi dei bei giorni, la raccolta delle sue lettere dal carcere, mi racconto una storia sul perché di quel cambiamento: in prigione non aveva pennelli, ne colori. Forse in qualche strano modo è più naturale così. Per tenere in vita la sua arte (o forse facendo arte per sopravvivere) usava mani e spezie, sangue, il guano dei piccioni. Quando ha finito la sua danza-tessitura-racconto, una donna tricolore la fissa dalla grande pagina di giornale aperta distesa a terra. È un riflesso? La donna sul lastricato ha due trecce che unite in basso si scoprono una. Sopra la sua testa una scritta: Jin Jiyan Azadî. L’hashtag davanti alle parole è una macchia lasciata della modernità che ci circonda. Sopra la testa di Zehra invece resta il cielo di questa insignificante città.

Zehra Doğan è un’artista, giornalista e autrice curda di Diyarbakır, in Turchia. O così recita la sua pagina Wikipedia. Zehra è cruda. Nel 2017 è stata condannata a quasi tre anni di carcere a causa della sua attività giornalistica e artistica. “Mi hanno dato due anni e dieci mesi solo per aver dipinto la bandiera turca su degli edifici distrutti. Ma sono loro (il governo turco) la causa di tutto questo. Io l’ho solo dipinto”, ha twittato dopo la sentenza. È stata nella prigione di Diyarbakır e poi in quella a più alta sicurezza di Tarso.

In una delle sue prime lettere scrive:

“Il carcere è un edificio soffocante. Sembra essere stato costruito tenendo conto della psicologia umana. È fatto di corridoi stretti, con tetti bassi, come se fosse concepito per opprimere. I corridoi sono quanto più possibile tetri, lunghi, angusti. Per questa ragione non si ha nemmeno voglia di andare in infermeria. Solo un corridoio è tinteggiato. Una gran parte del soffitto è dipinta di rosso sangue, rappresentando la bandiera turca. Ed è percorrendo questo corridoio interminabile, buio, afoso, il cui soffitto è ornato dalla bandiera che raggiungiamo l’infermeria. Di verde non vediamo altro che l’infermeria. […] Qui gli anni passano nella nostalgia di un solo fiore. È difficile descrivere la nostalgia che si può sentire per un fiore”.

Il carcere è privazione della libertà, è insensatezza, un luogo “dove il tempo si congela”. Per lei sembra diventare anche un luogo di incontri e di dolorosa, lacerante formazione. Per provare a spiegare tutto questo, il lunedì di novembre in cui la vedo a Padova, racconta: “in carcere ho conosciuto una donna di trent’anni, che ne aveva 18 quando è entrata, quando l’ho conosciuta aveva ancora 18 anni”. Tutto attorno facce un po’ inebetite, contrite e certo molto solidali.

I miei presenti concittadini – la decina o poco più che si è radunata per ascoltare Zerha – sono, va da sé, estremamente informati su ciò che sta accadendo in Iran: ne fanno un punto di onore, una questione di identità. Tutti già sanno cosa significa Jin Jiyan Azadî: quando l’artista lo scrive per terra si guardano compiaciuti – magari un po’ segretamente speranzosi di cogliere qualche sguardo interrogativo. Ma no, sono tutti preparatissimi. Il capannello si sposta in una sala del palazzo. Si parla delle proteste iniziate nel paese dopo la morte di Mahsa Amini, ma anche della “questione curda” e dell’attentato che il giorno prima ha colpito Istambul, di come il governo turco sia riuscito, in meno di ventiquattro ore e in apparente mancanza di qualsiasi prova, a incolpare il Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan.

Da quel pomeriggio le proteste non si sono ancora fermate, continuano da più di tre mesi. Ad oggi sono migliaia i manifestanti arrestati, undici i condannati a morte. Due già giustiziati. Lo scorso lunedì la BBC riportava la scoperta di segni di tortura sul cadavere di un giovane tassista morto in custodia alla polizia. È morta anche Aida Rostami, dottoressa trentaseienne che nelle ultime settimane aveva curato i feriti delle manifestazioni a Teheran. Secondo la polizia si sarebbe trattato di un incidente strale, i medici che hanno effettuato l’autopsia sembrano aver rilevato i segni tipici delle torture. Arrestato anche l’avvocato delle giornaliste Nilufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, a loro volta in prigione accusate di propaganda contro il sistema per la pubblicazione di reportage sull’assassinio di Amini.

Da quando sono iniziate le proteste in Iran, le iniziative di solidarietà con le donne iraniane in Europa e in tutto il pulitissimo occidente non si sprecano. Anche quella a cui partecipo a Padova in un certo senso lo è. Anche se dovrebbe essere prima di tutto un momento di ascolto. Quando la parola solidarietà viene usata nell’introduzione a Zehra, sono già pronta all’ennesimo evento cittadino che mi spingerà a un’inevitabile sonnolenza. Lei però reagisce in modo spiazzante: “io non sono qua per essere solidale con le donne iraniane”, dice, “perché questa è una cosa che riguarda me in prima persona”. Ancora una volta, il suo sguardo è diretto e non fa sconti. “E poi la questione non riguarda solo le donne iraniane, ma anche i beluci, turche, curde”. La voce è decisa, sera, il tono forte e calamo. Scandisce con cura ogni parola guardando chi la sta a sentire in faccia, pur consapevole che il traduttore sia l’unico nella stanza a capire il curdo. Gli dà il tempo di tradurre. Continua:

“Non possiamo nemmeno basare tutto quello che succede in Iran sulla questione del velo e rischiare di creare islamofobia in Europa: non si tratta di questo. Dobbiamo invece chiederci: dopo la rivoluzione che sta avvenendo in Iran, i popoli saranno liberi? Dobbiamo discutere insieme di come questi popoli (turchi, iraniani, beluci, curdi…) possono convivere pacificamente. La libertà dei popoli è più importante della questione del velo”.

Com’è difficile, per noi, immaginare un mondo plurale come quello che descrive lei. Manca l’esercizio del pensiero.

In carcere, Zehra legge testi filosofici, politici, studia psicologia, storia, teorie femministe. Si fa domande, discute con le compagne di prigionia. Ne scrive nelle lettere e ancora ci pensa. Con lo scorrere delle pagine, le sue considerazioni si fanno più dure. Scrive alla sua amica: “Naz, questo mondo di maschi puzza di ascelle. Vocifera con la sua bocca putrida, vomita sulle nostre guerre, il suo sfruttamento e la vita asfissiante che ci impone la chiama “libertà”. E ogni volta è a causa delle donne che comincia perché la guerra che l’uomo conduce contro di noi non è una guerra di sessi ma una guerra ideologica”. Ogni parola è potenza, è potere.

Nell’aula quel giorno le viene chiesto di Jin Jiyan Azadî. Donna Vita Libertà. Tra le parole non c’è alcuna virgola: è un triangolo. “Donna e Vita” spiega, “hanno la stessa radice”. Continua: “per me è molto importante spiegare cosa significano queste parole. Prima [di usarlo] bisogna capire bene che cosa significa questo slogan, capirne la filosofia per non farlo diventare preda di una cultura populista”. Comprendere le parole prima di usarle, non riempirsene la bocca in un’abbuffata di valori che facciamo nostri senza sapere di cosa parliamo.

“Questo grido è sempre stato usato dalle donne curde, e oggi possiamo dire in tutto il Medio Oriente. La cosa più importante è la libertà delle donne. Il Kurdistan è diviso in quattro parti e da cento anni c’è una lotta per questo stato. Negli anni ’70 i curdi hanno creato un movimento rivoluzionario curdo per lottare. Negli anni ’90, le donne che erano unite dentro al movimento rivoluzionario curdo hanno capito che se le donne non sono libere la società non può essere libera – e quindi hanno creato il movimento delle donne curde”.

Da qui: donna vita libertà. Una filosofia “basata sui diritti umani, ecologia e democrazia”. Dice che il fatto che lo slogan sia diventato così popolare in tutto il Medio Oriente e addirittura nel mondo deve essere una vittoria per il popolo curdo. “Come è importante pronunciare uno slogan con una sola voce,” ha scritto di recente in un articolo tradotto in italiano, “è altrettanto importante conoscere la filosofia dello slogan e chi sono i suoi creatori.” Le donne curde combattono da anni nei territori in cui si divide il loro popolo: Iran, Iraq, Turchia e Siria. Combattono per il riconoscimento della loro identità ma anche per la libertà delle donne nel Medio Oriente intero. Non c’è libertà dei popoli senza libertà delle donne.

Zehra ci insegna qualcosa anche sul nostro presunto femminismo liberale. Insegna qualcosa a tutti quelli che credono che la soluzione sia marciare su terre lontane, rovesciare regimi, esportare democrazia. A tutti quelli che lottano contro i poteri che schiacciano “gli altri”. Che compatiscono. Che sono solidali, che guardano alle disgrazie altrui senza dare nemmeno una rapida occhiata nello specchio. Dice della solidarietà non ce ne facciamo molto: “come donna, io chiedo alle donne occidentali, e a tutti gli europei, di essere veramente femministi. Non serve a niente fare i femministi liberali. Per essere veramente femministi, dovete andare contro il vostro stato, andare a chiedere il conto, pretendere spiegazioni”.

“Sono stata in carcere, oggi sono fuori, in Europa, ma non posso dire che qui mi sento libera. In primis perché sono una rifugiata, un’immigrata. Secondo perché quando ero piccola i carrarmati che giravano il mio quartiere – e a cui buttavo qualche pietra pensando fosse un gioco – erano carrarmati tedeschi, anche se i militari che c’erano dentro erano turchi. Gli elicotteri che giravano sopra le nostre teste erano italiani. Oggi, i droni che girano sulle teste curde e mediorientali sono prodotti occidentali”. Poi una domanda, che è più uno schiaffo in faccia:

“Come può allora chiunque dire di sentirsi libero in Europa, dove viene prodotto tutto questo per essere poi esportato in zone di guerra?”.

Mi massaggio la guancia, mentre lei termina, con la stessa decisione e sobrietà con cui ha cominciato:

“Chiedete ai vostri governi: perché avete fatto accordi con l’Iran? Perché mandate armi in Medio Oriente? Perché i gruppi jihadisti hanno le nostre armi? Perché i carrarmati che girano ogni giorno in Medio Oriente sono prodotti nei nostri paesi? Non serve a niente essere liberali se non si va a chiedere il conto al proprio Stato. Quello che succede oggi in Medio Oriente, domani può succedere qua. Noi non chiediamo solidarietà: chiediamo che lottiate anche voi. Lottate per la vostra libertà. Non basta essere solidali: lottiamo insieme per la nostra libertà”.

Agli altri le proprie battaglie. Se davvero si vuole aiutare, meglio combattere le proprie. Solo così si può sperare di raggiungere la vera autodeterminazione dei popoli. Confrontare il mostro nello specchio. Ma è certo più facile esprimere solidarietà e odio per un nemico lontano, restando al sicuro dietro lo scudo dell’impotenza, piuttosto che affrontare i propri demoni. E così nel 2005 un’idea geniale: istituiamo la giornata mondiale della solidarietà.

Gruppo MAGOG