Dicono fosse un prodigio: a sette anni fu dichiarata ḥāfiẓa, una ‘protettrice’ del Corano, che conosceva a memoria. Poco meno che adolescente, sapeva impartire lezioni ai guardiani della Legge; si diede al vagabondaggio teologico, le impedirono di dare alle stampe un proprio commento del testo sacro. Zeb-un-Nissa – anche nota come “Zebunnisa” – nacque in Deccan il 15 febbraio del 1638: era la primogenita del futuro imperatore Moghul Aurangzeb, discendeva per lignaggio diretto da Gengis Khan e da Tamerlano.
Il padre, col nobile nome di ʿĀlamgīr I – ovvero: “Conquistatore del mondo” – ascese al trono Moghul quando la figlia compiva vent’anni. Governò da Delhi, non prima di aver lottato e vinto il fratello, che aveva mire da re: gli spiccò il capo; il padre, Shah Jahan, aveva costruito, in memoria di sé e della moglie, il Taj Mahal. Aurangzeb, spesso raffigurato con un falco bianco nella mano destra, governò su uno degli imperi più vasti e potenti dell’epoca: lo splendore, come sempre, fu cementato nel sangue. Il sovrano impose la legge islamica sull’intero continente indiano, si mostrò intransigente verso gli infedeli, malsopportava gli induisti, sedò ogni rivolta con acrobatica fermezza. John Dryden, poeta ‘laureato’ del regno britannico, gli dedicò un’opera. D’indole coriacea, di leggendaria frugalità – a differenza del padre, non spese i denari dell’impero, a imperituro onore del popolo e di Dio, in opere sfarzose – Aurangzeb governò fino alla morte, nel 1707, compiva novant’anni.
La figlia, per un po’, fu intima consigliera del padre. Dicono fosse versata in matematica, filosofia, astronomia; spendeva in libri, stipendiava copisti, aiutava le vedove e gli orfani. Dicono di una bellezza leggendaria: volto dal pallore lunare, capelli neri, labbra sottili. Qualcuno, anni dopo, ne ha tentato il ritratto, avvalorando il mito. Si cuciva i vestiti da sé, prediligeva il bianco.
“La sua voce era così bella che quando leggeva il Corano, commuoveva gli uditori fino al pianto. Era umile nel portamento, cortese, paziente e audace nel sopportare il dolore. Nessuno l’ha mai vista arrabbiata – era abile nel maneggiare le armi, scese più volte in guerra, al fianco del padre”.
Jessie Duncan Westbrook
Naturalmente, fu preda di molti pretendenti: li sconfiggeva quasi subito, con intelligenza preveggente. Era sagace, in forma d’aquila la sua mente – non si sposò mai. “Benché sia la figlia di un re, percorro la via della rinuncia:/ tale è la mia gloria”, recita un suo distico. Naturalmente, le affibbiarono uno stuolo di amanti: il più noto, Akil Khan, era governatore della città di Lahore e valente poeta. Bello, dal cuore leonino, fece di tutto per incontrare Zeb-un-Nissa, che da tempo aveva optato per la vita celata, tra labirinti di ancelle e insondabili palazzi. “Desiderandoti, sono diventato polvere che fluttua sulla terra”, le scrisse; e lei, di rimando, “Anche se ti muterai in vento, non potresti toccare nemmeno una ciocca dei miei capelli”.
Su questo amore – secondo lo schema classico del rifiuto smaliziato, della vendetta, della relazione impossibile – si è romanzato a lungo. Alcuni credono che Zeb-un-Nissa, segretamente, piuttosto, incontrasse il fratello, Akbar, ostile al padre. In ogni caso, la donna visse per vent’anni rinchiusa nella fortezza di Salimgarh, nella campagna di Delhi, reclusa per ordine del sovrano. Alla liberazione, le fu concesso di vivere da raminga, percorrendo i dettami di un’esistenza solitaria. “Morì nel 1689, dopo sette giorni di malattia, sepolta nel suo giardino, secondo i suoi desideri, in una dimora prossima a Lahore. La tomba, un tempo arricchita da marmi pregiati e da una cupola d’oro, è ora desolata, rasa al suolo nei cupi tempi della dissoluzione dell’impero Moghul”.
Il vero mausoleo di Zeb-un-Nissa, un autentico capolavoro, è il “Diwan-i-Makhfi”, il suo canzoniere, raccolto la prima volta nel 1724, assai diffuso in India e in Persia. Zeb-un-Nissa aggiunge una nota propria, un pathos cupo e onnipossente agli schemi della poesia classica, forgiata dal poeta persiano Hafez. Orientata verso il Sufismo – in contrasto con il legalismo professato dal padre – Zeb-un-Nissa usa l’arte poetica come ascesi, come rotta verso la sapienza. Quando scrive che l’amore primeggia sulla ragione, che la saggezza è il fiacco sigillo del potere e che i folli d’amore sono i veri sapienti, ricorda – in altro ambito, diacronico – le parole di Caterina Vegri, mistica bolognese vissuta nel XV secolo, che nell’idolo dell’obbedienza vide l’opera del demonio, rispetto al valore dell’intuizione, del cuore (“L’esortazione all’obbedienza contro la coscienza è una tentazione… questo vissuto primato della coscienza ha una portata rivoluzionaria”, Giovanni Pozzi).
Come nome lirico, Zeb-un-Nissa scelse “Makhfi”, che significa “Nascosto”. Questo è lo stigma della sua esistenza: la vita nascosta, la poesia che svela il nascosto, i nascondigli dell’artigliato Amato. La parola dal nascosto senso: perla verbale che va scoperta dopo averne levato tutti i veli. Nudità che abbacina: sulla soglia dell’indicibile, deponiamo la lingua, pari a un fiore; soltanto allora, le labbra sapranno sussurrare Dio.
Il canzoniere di Zeb-un-Nissa, inedito in Italia, è tradotto in Occidente nel 1913, per John Murray, Londra, da Megan Lal e Jessie Duncan Westbrook. Dalla vita di Zeb-un-Nissa, ammantata di leggenda, Annie Krieger-Kryncicki ha tratto uno studio biografico, d’impianto femminista, Captive Princess, edito nel 2005 dalla Oxford University Press.
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Zeb-un-Nissa
A Te, l’Unico dalle nubi della Tua pietà nasce la rosa del mio giardino – la sola che ammiro. Permettimi di lodarti sulla soglia del mio libro. Sete del Tuo amore hanno il mio corpo e la mia anima; Come Mansur sopra i grani di sabbia così il mio corpo urla – tutto è spezzato Tu sei il tutto – Tutto è Dio.
Le onde del Tuo diluvio d’amore dimostrano che la barca è mortale: nessun Noè potrebbe resistere agli abissi e sopravvivere lì dove la mia anima è sommersa dal Tuo cuore.
Schiavi i poteri dell’oscurità mi obbediranno se parola di lode sarà da Te accolta. Ora io sono il sultano di me stesso. Ora non faccio dardeggiare le lacrime insieme alla lingua perché è perlaceo il sangue che stilla dal mio corpo e si incista nelle ciglia.
Sopporta con grazia il tuo dolore: è infinito e lascia alla notte la traccia della passione – finché una primavera di gioia non ti troverà.
*
Il mio cuore è impaziente: è preso da cupa estasi quando il vento, dopo lungo errare, porta il profumo della tua presenza sulle sue ali.
Aspetto, ancora, in questa notte di pianto finché tu non cedi ai miei occhi le trame della tua bellezza – e ne gioisco.
Grazie all’Islam il mondo ha intuito una folgore nell’oscurità: camminavo sicura tra i Rotoli della Legge, volta verso Dio con speranza e timore –
soltanto Dio può guidare il peccatore Lui, l’insondabile, che sa squadernare i cuori e intuire ciò di cui hanno bisogno.
O Profeta, splendi come gemma solitaria il più bello tra i diademi del Paradiso guarda ai dolori degli uomini e intercedi per loro:
tu sei il velo che distilla la luce tu sei la torcia divina – nient’altro fissano i miei occhi scintillanti.
*
Svegliati, destati anima mia, è primavera; sciogli il narciso dall’odore divino liberati dal suo incantesimo e lascia che ti mostrino l’idolo del vino. Non deviare dalle vie proibite: l’Amato tiranno abbasserà gli occhi ammirando le tue vittime, intrappolate dall’orgoglio: per i tuoi sguardi vorrebbero morire.
Alcuni rendono culto alla Kaaba alcuni pregano nei cortili del Tempio Makhfi, invece, pensa che la segreta gioia è serbare il suo idolo nel cuore.
*
Perché dovrei sostenere che il Sinai scintilla di celestiale radianza? Non conta la ragione; che il mondo disprezzi ciò che il cuore illuminato conosce.
Il mio cuore è un incendio, brucia nelle fiamme d’amore, in modo tanto violento che tutte le onde del Nilo sono una goccia alla mia sete.
Il peccato mi inghiotte – inutile seguire le tracce dei santi pellegrini e volgermi alla Mecca anche se l’amico di Dio, Abramo, lì vuole trascinarmi.
Sono stanca del regno dei sapienti non credo più nella ragione: passione, prendimi con te; amore portami a mille mari da qui.
Quando sfioro le acque le onde si accucciano altrove: il mio cuore in fiamme sembra la fiaccola di fuoco di Mosè.
Anche se i miei giorni sono intrisi di un dolore infinito, fato, adoperati per il peggio, perché ho in me, sempre l’Amico che supera ogni amico.
Dimmi, Makhfi, sono io che pecco? Sono forse io il peccato? E dov’è la colpa: nel corpo, nell’anima, in un errore che mi precede da millenni?
* Il vino ha perso sapore la terra si è voltata in deserto e la bella erba ora è zizzania: la vita, primavera e incendio, sfuma. Ho tentato la gloria, scopro la fine: le mani, cave, non hanno amici da salutare – se anche il perdono di Dio mi sarà negato le mie preghiere diventeranno paglia.
Ma, Makhfi, fissa con occhio che discerne: nella più profonda disperazione si nasconde la beatitudine – sul sentiero dell’amore la fatica insegna a fortificare il desiderio.
*
Poiché sono folle d’amore, il mondo mi disprezza: per questo fuggo dalle sue vie e cerco un rifugio contro la crudeltà.
Un eremo, dove far stare in pace la mia anima, un angolo nel crudo deserto dove nessun secolo potrà possedermi.
Quale uomo, schiavo d’amore, vorrebbe salvare una vita tanto misera? Povero amore: un tempo i tuoi devoti erano audaci!
Quando ero giovane, Amore si negava: che rotte ho percorso e quali vagabondaggi finché la Sapienza non è venuta in mio aiuto!
Anche oggi faccio brillare lo specchio del cuore: è giusto che rifletta la mia gioia: l’eterna bellezza del Sé germoglia sotto i miei sguardi.
Accecato dall’agonia, nessun volto al mondo si accorge di me: gli occhi esistono soltanto per ammirare Te.
*
Quanto a lungo, cuore in fiamme vuoi nasconderti? L’incendio ti corrode e il vapore dei tuoi sospiri ormai oscura le stelle nel cielo. Spinto dal mio amore devo vagare come Manjun tra deserti di cenere: ha perso la testa, in eterno, per Leila, destinata a spargere gli inutili semi del pianto. L’anima illuminata dall’Amore di nulla ha paura: il mondo invisibile dichiara che il folle sulla via dell’Amore diventerà saggio e fiero perché Amore gli rinnova gli occhi.
Guarda, Makhfi, la superba cavalcata del crudele Amore: schiaccia i cuori degli uomini e la sua spada è istoriata con il sangue degli amanti che ha ucciso!
*
Quando scoprirai il tuo volto vedrai le mie ciglia incenerite da uno sguardo. Piango da troppe notti e il corpo è tormentato dalle tempeste del desiderio. Il mio cuore è ormai una lampada spenta. Impigliato tra le trecce dei tuoi capelli nessuna speranza mi conforta.
Un fiore non sboccia finché il sangue non lo irrora.
Sussurra del tuo amore o taci, Makhfi: il cacciatore uscirà dal nascondiglio per catturarti.