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Politica culturale
«Sin dall’inizio, la vita si trascina. Si spande, tende ad andarsene oltre, muovendo dalla radice oscura, ripetendo sulla faccia della terra – suolo per ciò che si erge su di essa – lo spargersi delle radici e il loro labirinto». Inizia così La serpe, uno degli scritti più oscuri di María Zambrano: filosofo ispirato, anima devota alla parola rivelata, alla «ragione poetica» del capire e sentire insieme.
In questo testo umbratile, pervaso di leopardiana vaghezza, vibrante di suggestioni e significati ancestrali, Zambrano evoca una cosmogonia materica e a un tempo simbolica, declina un enigma che racchiude in sé il desiderio speculativo del filosofo coniugato all’intuizione profonda del poeta; atteggiamento che è asse portante di tutto l’immenso patrimonio ermeneutico dell’autrice.
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Zambrano narra di una serpe, che nasce nelle gravità più occulte della terra, nell’oscurità che custodisce il germe della luce, penetra il suolo e si propaga, come creatura strisciante, invasiva, viscere che anela al suo turgore nell’alba. Persegue il nascere di un corpo, vuole darsi luogo come materia, in anelito di sviluppo e disseminazione, tesa tra «ansia di crescere» e «spazio che la chiama».
Non ha orientamento meditato: s’accresce per il premere di un imperativo primigenio, e a ogni ostacolo vira e ruota, riprende forma secondo una nuova via. Il desiderio è d’aver sostanza, massa, di aprirsi e germinare, fino a innalzarsi verso cascate di chiarore.
Dal sottosuolo, dove si trovano «i giacimenti dell’acqua e della luce coagulata e sepolta», è la vita stessa che, col movimento ondulatorio della serpe, si moltiplica e dirama, diventa reticolo di radici aeree, di tralci, si eleva in entità arborea, infestante, interminata; cupida e indigente si spande, dandosi in sovrabbondanza, inciampando nelle proprie estremità, che divengono essere stesse ostacolo al «corpo perseguito», negazione e impedimento, che si fa impulso a direzioni nuove. Così la creatura oscura, mai nominata, fluida e capillare si superficializza, e conosce la salita al bagliore, l’ascesa.
Le propaggini che si elevano in altezza poggiano sulle parti recondite, che ne sopportano il peso e donano alimento: il peso inflitto ai rizomi basali diviene, per il germoglio, responsabilità e mandato; dalle radici profonde il tributo «di ciò che è nascosto sotto la luce a ciò che va verso di essa». Le appendici prime, infossate, gravate, avvezze a tenebra e fatica, sono torpide serpi che, quando si prestano a buio e peso, e non desiderano a loro volta emergere, ma accolgono il giacere sotterraneo come un «sepolcro di libertà», si fanno natura generatrice e generosa, si fanno madre.
Le fondamenta oscure che rinnegano invece il loro onere di sostegno, ma bramano apertura per sé medesime, si ergono sterilmente «avide, per mimetismo, trascinate dal vizio della ripetizione» e ripercorrono il salire, come infestanti si aggrappano al fusto cui avevano dato l’alba, pretendendo esposizione, soffocando ciò che avevano emesso, sostituendolo. Ma non è questo un atto favorevole alla vita: «una madre vi è, propriamente, solo quando nasce un corpo nuovo, un corpo volto alla luce che adempie la sua promessa. Una madre c’è solo nell’adempimento di una promessa della vita alla luce».
Tuttavia l’impulso primario della serpe-vita è informe e instabile: «Incombe, irrompe e svanisce al pari della prima, insufficiente, materializzazione di un sogno. Ombra di un corpo in cerca di un luogo, sul punto di cancellarsi ma indistruttibile nella sua leggerezza e, come i sogni, senza nascita».
Nasce dunque la vita come germinazione spontanea, inconscia, involontaria. «Distrazione» originaria da parte di una presenza suprema, «la fronte di qualche astro o di qualche essere più alto, più lucente e occulto di tutti gli astri sia immaginari che esistiti». Tale sventata emanazione presuppone allora un vincolo della mente altissima alla massa creata, un debito che si renda sostegno alla propria ideazione, una «dote» che si concretizzi in pienezza di devozione e cura: «Amore che emendi la disattenzione e che la elevi». L’entità così germinata si solleva e si struttura, si avvicina alla creatura più compiuta, mediante il nutrimento d’amore.
Ma l’animale vivo è costretto al movimento, all’espansione, a un avanzare spiraliforme, a una circolarità periodica e ripetuta che s’inoltra e arretra, gravato dal continuo distacco, «condanna primigenia […] di frammento staccato […] condizione indigente, incompleta e dedita a perdersi, mancante e persino mendica»: questo diffondere e separarsi da tutto rende la serpe-vita affetta da possesso e perdita, e solo laddove possedere e esser posseduto s’incontrano vi è il punto sacro in cui la vita coincide con l’essere eterno che l’ha generata: «Il punto invisibile dell’essere. Il punto inviolabile dell’essere». Dove la materia vivente apprende il perdersi e lo spossessarsi, apprende che la vita stessa che lo anima non gli appartiene. Essere e creatura lì coincidono, e condividono lo stigma di eternità in continua metamorfosi, di acquisto e resa, in eterno crepuscolo: «Luce impressa come macchia, corpo che è insieme la sua ombra, la sua immagine, carico di ciò che meno dovrebbe pesare, il riflesso»; ciò che è vivo ha la pulsione a realizzarsi pienamente in fisicità, a riempire lo spazio terrestre, a prender forma che saturi lo spazio, rendendolo pieno, disseminato, gremito. Eppure: «Avanza solitaria, avanza povera, cieca e sola, riflettendo la luce che non ha, la luce promessa che per il momento riluce solo come un appello, come un segno impresso in un essere cieco».
Terra si fa appoggio e grembo, spazio illimitato che non distende solo pianura e superficie, ma fornisce l’incavo vivo, nobile, il viscere «in cui la luce è custodita scintillante, indelebile. La luce formata di acqua e di fuoco, di aria e di sale. Il sale della terra che assorbe e fissa la luce»; arriva allora il momento in cui il corpo vivo si richiama alla sua origine profonda, vi ridiscende, fino a rendere interno a sé questo viscere candido e gravido, salendo allora a sagoma accurata, che ha viso e sguardo, identità. Il mammifero dal «luminoso volto», dal «viscere vivo» che, visitando la caverna terrestre senza ripudio né oblio, ma tenendola a sua volta in seno come fulcro e cuore, diviene creatura precisa, coerente in ricchezza biologica con la propria matrice oscura, e rigorosa, in esattezza di complessità.
«Avida e madre» la terra, segnata da crepe e fenditure, territorio armato di «bocche, gole, avvallamenti e dirupi», che appaiono come «abisso, luogo di caduta e di strapiombamento», quando invece «ciò che attraverso di essa sparisce sembra sia stato chiamato per essere custodito e, in ultima istanza, rigenerato».
Come si invagina in essa, la vita, e scompare, inghiottita e riconcepita «bianca e consistente», eretta e indomita nella sintesi del cambiamento che innalza, nella metamorfosi che al nuovo accende.
La serpe-vita si solleva ma non si stacca mai dalla terra madre, piuttosto «senza rottura né separazione, afferma la condizione materna della terra, la ostenta e la corona, arrivando a glorificarla»; fino al «sacrificio primigenio e primario» in cui tutto viene riassorbito: dolcemente come un prato in inverno, custodito nell’attesa; o schiantato con la violenza propria di «quell’indecifrabile finalità: che tutto il vivo che la Madre Morte dà alla luce sia abbattuto, denudato alla luce. E nel venir denudato si riduca in polvere, in terra, in un’altra volta solo terra».
Il generare la vita è opera di un divino celato e buio, abissale «scintilla di fuoco […] avido della luce perduta laggiù nel profondo»; ed è nel ricordo del bagliore, nello sforzo di concepirsi che s’avvita la materia: esce la serpe afflitta nella doglia contorta, nella sete della «luce primigenia» che, caduta a pioggia, è ora reminiscenza remota, nostalgia, nelle concamerate cavità, orfane di bagliore celeste.
Nelle grotte terrestri, nei visceri infossati, avidi di superficie, bagnati di povertà e desiderio, la vita eternamente nasce dolente, rattorta, cupida d’altezza e lucore, e si solleva a cercare, e precipita nel riconfermarsi in sé, nel rinsaldarsi in peso e gravitazione, come magnete a richiamo di ogni perduta vibrazione luminosa.
Nel «duplice anelito» verso l’alto, che è sottigliezza e splendore, e verso il basso, che è ricerca di alimento e consistenza, di fondatezza, la vita fa della terra, suo guscio, un «corpo planetario» che incarna la «condensata palpitazione del cosmo»; e proprio nel buio delle sue viscere abita il «fuoco, respirazione, alito che procede verso la parola», oggetto magico, soffio iniziale, emissione di fremito significante, precedente il linguaggio, vergine di ogni intento e inferenza logica, di ogni dominio.
Se l’universo nasce da un’origine che è distacco e caduta, la sostanza vivente ne attesta il palpito, ne conserva nelle radici il sospiro ideativo, mentre la morte ne ribadisce e reitera l’eterno dissesto. Quella morte che «conserva la vita» procurando «materia e corpo» al soffio che, illimitatamente, si dona e cerca rifugio.
Tra vita e morte, è mediatore il tempo. Divinità oscura, sfumata, «l’inesplicabile distruttore che suscita una risposta creatrice», quell’«orizzonte che presenta la morte perdendosi in essa». Tempo che è diacronia e successione, genesi e comparsa delle creature, loro teatro e scorrimento, «processione»; trionfo di finitezza che, nondimeno, si rinnega: quando frena e pare concludersi, s’appende sospeso, spalancandosi: il creatore si riposa, al settimo giorno rimane immobile in sé, e si dona «il sussistere dell’essere dopo il suo darsi».
Se i giorni della vita sono punti geometrici sulla linea sillabata del tempo – che è «asse, cardine, mediatore» – pure accade ch’esso si fermi e stia immobile, a custodia di quel recupero che è quiete nel posare, ritiro e ritorno; e se l’oggetto animato, nel suo esistere, segue il diagramma dell’istante successivo e susseguente, lo fa fino a quel suo ritirarsi, «calma del creatore nel creato» che è, nella morte, varco alla pace originaria e remota, luogo disteso in opalescente, antichissima quiete.
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Nel suo scritto più cifrato e buio, Zambrano sembra averci lasciato la chiave di tutta la sua opera, e gli strumenti interpretativi di molti aspetti dell’umana esistenza. Come in un frattale, che al cospetto dello spirito avvinto si dispiega, ogni ambito esperienziale e contemplativo d’un tratto propone il disegno di questa ctonia e sublime cosmogonia: la sostanza affetta da incremento e dilatazione perviene al culmine foriero di catastrofe, cui segue il ripiegamento nelle proprie concavità sorgive, dove la rovina trasfigura a rinascita.
C’è sempre questo nascere cavo e viscerale in Zambrano, questo dotarsi di figura e propagazione nello spazio, fino a ergersi in tracotanza ed eccesso. La salvezza nel saper rientrare all’interiorità profonda, abbracciando la metamorfosi, avvicinando la penombra, la molteplicità, il sussurro dell’arcano.
Accade così per il pensiero, che nasce nelle viscere dell’encefalo, nei recessi più intimi e velati del sistema limbico, prende forma come diramazione che vola sulle vie lisce del linguaggio razionale, e si eleva in teoria astratta, s’impenna in sillogismo, in entimema, e poi precipita per la perdita di contatto col proprio nutrimento. La filosofia corre questo rischio di astrazione dottrinale, ergendosi sulle impalcature scoscese delle proprie deduzioni; mentre la poesia diviene quel territorio eletto in cui il soggetto «non perseguita il reale ma ne è perseguitato», un soggetto ricettivo e docile, dilatato in ascolto: «Poeta sarà sempre colui che non si sottrae all’interminabile persecuzione, ed è naturale e perfino giusto, secondo una certa giustizia, che guardi con sospetto a chi non solo sembra essersi liberato, ma si lancia a perseguitare in quella strana maniera che consiste nell’indagare le ragioni delle cose […] il poeta, al posto delle ragioni delle sue ragioni, offrirà il suo essere, sostegno di ciò che non si lascia dire, di tutto quel che si nasconde nel silenzio». Il filosofo erige, il poeta discende.
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Così Wallace Stevens: «La poesia deve essere qualcosa di più di una concezione della mente. Deve essere una rivelazione della natura. Le concezioni sono artificiali. Le percezioni sono essenziali» (Stevens, Adagi).
Ecco che Stevens, se pur nella sua immanenza ostinata, conosce l’ascesa e la ricaduta: da aneliti mistici disattesi, nell’implosione, nel crollo, la progressiva «decreazione» in cui l’anima ritrova la parola radicata, base solida delle cose.
Persino qui, in un poeta che persegue l’umanesimo assoluto, che rifiuta ogni sacra rivelazione per diffidenza verso qualsivoglia teologia, è comunque l’enunciazione, il lemma nella sua postura coricata, meditativa che riavvicina l’individuo al tutto, rendendolo amante riamato di una trascendenza che – per quanto dichiaratamente creata in opera, in poesia – è nido e dimora: «Qui, ora, dimentichiamo l’un l’altro e noi stessi. / Sentiamo l’oscurità di un ordine, un tutto, / […] entro il suo confine vitale, nella mente. / […] Quanto in alto l’altissima candela irraggia il buio. // Di questa luce stessa, della mente centrale, / facciamo un’abitazione nell’aria della sera / tale che starvi insieme è sufficiente». (Stevens, Soliloquio finale dell’amante interiore, in Il mondo come meditazione).
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E similmente, se pur con valenze spirituali e devozioni soprasensibili più accentuate, Zambrano: con atteggiamento passivo e fecondo, mai in opacità avara, o in abbagliante riduzione razionalistica, ma piuttosto in attenzione limpida, la parola poetica è rivelata, patita, è discendere al «fondo sacro», alla realtà «primaria, originaria»; eternamente inviolata, perché occulta e ambigua, appena nominabile: «Rispetto al filosofo, il poeta sa più del silenzio, la sua parola ha inteso rompere appena il silenzio o non romperlo affatto».
Nell’ápeiron Anassimandro – filosofo degl’ispirati albori, ancora pervasi di poesia – inciampò: per indecisione e smarrimento, per inadeguatezza di ogni risposta logica; scendendo «fino a quella profondità in cui la coscienza originaria, lo stupore ancora muto, si sveglia circondato dalle tenebre». Incontrò allora quella realtà che è «pura palpitazione, germinazione inesauribile»; ma questo accadde nell’epoca che generò Eraclito, Parmenide, Empedocle: quando filosofia e poesia, in grazia e fervore, ancora coincidevano. Poi la divergenza: nel razionalismo dialettico la prima, nella vocazione al rivelato la seconda.
Ebbene, nel «metodo» filosofico di Zambrano questa divergenza vorrebbe ricomporsi in una recuperata, aurorale armonia tra «ragione» e «visione», compenetrando il pensare col vedere, o meglio facendo sì che si abbia «irruzione del vedere nel pensare» (Zambrano, I beati).
La «conoscenza poetica» o «ragione poetica» di Zambrano rifiuta la dicotomia: «All’inizio del conoscere, il capire e il sentire non avrebbero potuto vivere separati […] riunirli, richiede già un certo sapere e una certa arte basati sulla fiducia nella non-irrazionalità del sentire e assistiti dalla docilità dell’intelligenza […] tutti i simboli […] chiedono nel mentre che danno, e domandano con la loro risposta. In essi domanda e risposta si trovano unite».
Percezione e comprensione si integrano, e questa è l’unica via per avvicinarsi alla verità nativa dell’essere, che è comunicata in modo multiforme, arcano, obliquo; la natura si dà in messaggi iniziatici, alchemici, proteiformi, che evocano e rimandano, senza mai affermare in modo rigido, perentorio, chiarificato: «Un simbolo deve essere captato nella pluralità delle sue significazioni, in un unico atto di pensiero. Cosa che non è possibile che accada se il sentire non accompagna il capire; se il sentire non procede come sua guida il capire e non prosegue, poi, guidato da questo».
Con questa attitudine e condotta esegetica, poeta e filosofo possono coincidere, o destrutturarsi e sfumare l’uno nell’altro: «L’amico del silenzio, sia poeta o filosofo […] discende attraverso le gallerie mentre i reietti della caverna dormono. E si introduce cautamente nel sogno degli uomini, nelle viscere addormentate, depositando in esse un germe di parola, e non una parola totale o che pretende di esserlo. Il filosofo-poeta entra nelle viscere del sogno e lo riscatta, per intanto, dal suo essere mortale ispirando con un soffio di luce visioni autentiche, aprendo un atomo di tempo nella atemporalità del sogno e facendo sorgere un’immagine di realtà – immagine, ma di realtà – che resta nella coscienza del dormiente quando si sveglia».
Se nella filosofia teoretica ogni domanda ottiene una risposta autoelargita secondo il metodo deduttivo, e ogni risposta è modulo edificante, monomero di quel colossale polimero di alienazione che è l’interpretazione antropocentrica del reale, in poesia tutto è ridiscesa e ascolto, percezione e rivelazione.
Lo schema della serpe che arborizza e diffonde sconsideratamente, perdendo il contatto con la propria origine nutrice e pulsante e finendo per farsi sterile e implodere in sé stessa, si ripropone anche in questa sfera: pensiero che diviene arido ragionamento filosofico, parola che ramifica in arborescenze di linguaggi svuotati, arroccati e labirintici come cattedrali; burocratizzati, opacizzati da automatismi verbali e tecnicismi: «Nel principio è la parola [ma] nell’origine dell’essere umano che conosciamo, il linguaggio, con i suoi rami ancora indifferenziati. Albero dunque, il linguaggio, del seme caduto del verbo, che, anche se caduto, è germinante e oscuramente fecondo, perché oscura è ogni fecondazione in questo pianeta che abitiamo. [Solo] ai livelli più alti della scala del vivente ci appare la parola con il suo seme, il cui primo frutto sarebbe, è, il linguaggio che si dà in forme differenti per tutti gli esseri viventi: un alimento la cui immagine si riflette nella naturalità misteriosa dei campi di grano, i mari del pane. Questo primo frutto del seme del lógos è proprio la parola stessa, non il linguaggio che da essa deriva, che essa ha seminato. La parola è fiore unico che nasce, in ogni momento; è una pietra preziosa ma disprezzata, finché non appare gonfia di luce: la luce di un fuoco occulto, o priva di fuoco, perché già la luce di per sé sprigiona il fuoco. La parola è nell’Aurora perenne; è dunque rivelazione e non solo manifestazione; e ancor meno è un premio, una corona; una croce sì, può esserlo» (Zambrano, Dell’Aurora).
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Eppure nella Serpe vi è anche la narrazione di alcuni degli aspetti più luminosi dell’esistenza: ad esempio, nella creatura che avverte l’essere generante solo nella perdita e nello spossessamento c’è la più commossa narrazione della Grazia. Ma anche la speranza è un tema evidente, che sempre vive e pulsa tra le pagine di Zambrano come entità sovrana, alata e trionfante in leggerezza, elevato passaggio dalla sponda del passato al futuro, ponte a lunga campata «tra la passività, per estrema che sia, e l’azione, tra l’indifferenza che confina con l’annichilimento della persona umana e la piena attualizzazione della sua finalità. […] Un ponte […] anche al di sopra del tempo perché, giungendo ad annullarlo trasportandoci, quasi, dalla sponda del passato al futuro, essa opera, già in questa vita, una specie di resurrezione». La speranza è esempio di creatura che cresce e si sviluppa magicamente, pur nell’indigenza e nello stento, perché «non spera nulla, si alimenta della propria incertezza: la speranza creatrice, quella che estrae la sua stessa forza dal vuoto […] che crea stando sospesa […] la speranza liberata dell’infinità senza termine che abbraccia e attraversa l’intera estensione delle epoche».
La speranza è anch’essa derivazione che dalla coscienza cresce e s’innalza, fa campata di ponte su ogni ostacolo e contraddizione, ma non perde contatto con la propria intima essenza, che posa sul fondale: «In virtù e per opera della speranza l’uomo può realizzare quella cosa impossibile che è camminare sopra il proprio tumulto interiore, sopra il tempo che gli passa, e può in un certo senso elevarsi e sostenersi sopra la propria profondità» (Zambrano, I beati).
Ripercorrere a ritroso ottundimento e dimenticanza, ritrovare la dimensione percettiva significa per Zambrano ritrasformare il linguaggio in parola, la parola in poesia, come via della cura, della ritrovata radice, dell’annullata distanza, del senso profondo dell’essere.
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Ancora Stevens:
«Non basta coprire la roccia di foglie. / Dobbiamo guarirne con una cura della terra / o una cura di noi stessi che sia eguale a una cura // della terra, una cura oltre la dimenticanza. / E tuttavia le foglie, se venissero in boccio, / se venissero in fiore, se dessero frutto, // e se noi mangiassimo i colori incipienti / del fresco raccolto, potrebbero curare la terra. / La finzione delle foglie è icona // del poema, la figurazione della beatitudine, / e l’icona è l’uomo. La corona perlata di primavera, / l’ampia ghirlanda d’estate, la cuffia autunnale del tempo, // la sua copia del sole, queste coprono la roccia. / Le foglie sono poema, icona, uomo. / Sono una cura della terra e di noi stessi, // nel predicato che altro non c’è. / Sbocciano, fioriscono e fruttano senza mutamento. / Sono più di foglie che coprono la sterile roccia, // germogliano con l’occhio più bianco, il getto più pallido, / nuovi sensi nelle generazioni del senso, / il desiderio di giungere al termine delle distanze, // il corpo ridesto, la mente in radice. / Fioriscono come un uomo ama, come vive e ama. / Danno frutto perché l’anno possa conoscersi, // come se comprenderlo fosse buccia bruna, / il miele nella polpa, l’ultimo trovare, / la pienezza dell’anno e del mondo. // Nella pienezza il poema cava sensi dalla roccia, / con moti tanto vari e tali immagini / che la sua sterilità diviene mille cose // e non esiste più. Questa è la cura / delle foglie, della terra e di noi stessi. / Le parole sono insieme icona e uomo» (Il poema come icona, da La roccia)
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E così Zambrano: «La parola si desta […] dentro questa fiducia radicale che si annida nel cuore dell’uomo e senza la quale egli non parlerebbe mai. E si direbbe persino che la fiducia radicale e la radice della parola si confondano tra loro o si diano in un’unione che permette alla condizione umana di emergere. È di indole docile la parola, lo mostra proprio nel suo destarsi quando comincia a sgorgare indecisa come un sussurro in parole slegate, in balbettii appena udibili, come un uccello ignaro che non sa dove andare ma si dispone ad alzare il suo debole volo» (Zambrano, Chiari del bosco).
In un heideggeriano «esserci» come «ente sempre capace di interrogare, e dunque oltrepassare, il proprio abisso, l’abisso delle proprie “entrañas”, dell’“io vivente e profondo” pre-potente rispetto ad ogni potenza del lógos interrogante, anteriore alla domanda che il lógos stesso è» (Cacciari, Lichtung), Zambrano si sottrae però al rigore del distacco, e non desidera elevare l’ente dal proprio «esser-pathos», auspicandolo senziente e attento all’annuncio che scuote e sovverte le strutture logiche, che mormora nel vuoto: «Il modo migliore perché qualcosa si riveli è che galleggi sul Nulla, quel Nulla che i trattatisti spirituali trasformano in cammino del Tutto. Quel Nulla che filosoficamente, e nonostante Heidegger, non ha ancora trovato adeguata “rivelazione”, e che per il semplice mortale è l’inafferrabile, invisibile orizzonte, il pauroso terreno in cui si apre, come nel deserto luminoso, la sorgente della speranza quasi invisibile». (Zambrano, Per l’amore e per la libertà).
E infine, nella passività feconda, che patisce e s’illumina, il dono della parola rivelatrice; qui l’assonanza con Simone Weil impressiona e sbalordisce: «L’attenzione non è altro che la ricettività portata all’estremo […]. L’attenzione spontanea è uno stato di passività in cui l’attenzione, una specie di raggio di luce, è attratta da una parte o dall’altra a seconda dello stimolo che la chiama. […] La prima azione sarà allora una specie di inibizione, paradossalmente, una ritirata del soggetto stesso così da permettere alla realtà, proprio lei, di manifestarsi. In questo momento l’attenzione deve fare una specie di pulizia della mente e dell’animo. Deve vedersela con l’immaginazione e con il sapere. Deve portare la concentrazione del soggetto fino al limite dell’ignoranza, per non dire dell’innocenza. […] Se quando diamo intensamente attenzione a qualcosa lo facciamo proiettando su di esso le nostre conoscenze, i nostri giudizi, le nostre immagini, si formerà una specie di spessa coltre che non permetterà a questa realtà di manifestarsi. Prestare attenzione anche nei sogni a quel che finalmente un giorno in un istante appare […] come da sé, alla stregua di un premio. L’esercizio dell’attenzione è la base di ogni attività, è in certo modo la vita stessa che si manifesta. (Zambrano, Per l’amore e per la libertà).
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A ritroso, prima delle diramazioni, delle precisazioni, delle contrapposizioni. A monte delle adottate intenzioni, delle schierate utilità, dei combattimenti. Dove la parola sorge enigmatica, magnetica, ancora in penombra. Viva e mobile, incoercibile all’utile, al banale automatismo di affermazione del lógos. Indomabile agli schematismi, ai sistemi filosofici rigidi, volatile e smisurata, ritmata al battito, disciolta nel cosmo, libera la parola.
Se per Stevens la poesia è un resistere, un durare oltre i desolati astrattismi:
«La poesia deve resistere all’intelligenza / quasi con successo. Illustrazione: // Una figura bruna nella sera d’inverno resiste / all’identità. La cosa che porta resiste // al senso più necessario. Si accettino, dunque, / come secondarie (parti non proprio percepite // del tutto ovvio, particelle incerte / del solido certo, il primario libero da dubbi, // cose fluttuanti come i primi cento fiocchi di neve / da una bufera che dobbiamo subire tutta la notte, // da una bufera di cose secondarie), / un orrore di pensieri che a un tratto sono reali. // Dobbiamo subire i nostri pensieri tutta la notte, finché / l’ovvio luminoso svetta immoto nel freddo» (Uomo che porta un oggetto, da Trasporto all’estate),
per Zambrano, dissimile nelle premesse, ma pur compagna negli esiti, la «ragione poetica» è un arretrare alle sorgenti, nel silenzio totipotente da cui affiora la rivelazione ampia, il puro senso, l’unico annuncio: che ricompone le controversie, le minute diatribe, le dialettiche sterili e stantìe. Feconda origine, lucente rivelazione sussurrata, colma di lealtà e limpidezza, radice di ogni speranza, perché è proprio «la storia della speranza umana» ad essere, in verità e giustizia, «la vera storia dell’uomo».
Isabella Bignozzi
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Questo testo ha profondi debiti di gratitudine verso i seguenti volumi e saggi:
María Zambrano, I beati, a cura di Carlo Ferrucci, SE 2010
María Zambrano, L’uomo e il divino, traduzione di Giovanni Ferraro, Edizioni Lavoro 2008
María Zambrano, Chiari del bosco, a cura di Carlo Ferrucci, SE 2016
María Zambrano, Per l’amore e per la libertà – Scritti sulla filosofia e sull’educazione. A cura di Annarosa Buttarelli, traduzione di Laura Mariateresa Durante, Marietti 2021
María Zambrano, Dell’Aurora, a cura di Elena Laurenzi, Marietti 2020
Laurenzi, Marietti, Genova-Milano 2000
Wallace Stevens, Tutte le poesie, a cura di Massimo Bacigalupo. I Meridiani, Mondadori 2015
Wallace Stevens, Il mondo come meditazione, a cura di Massimo Bacigalupo, Guanda 1998
Wallace Stevens, L’angelo necessario, saggi sulla realtà e l’immaginazione, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Abscondita 2018
Massimo Cacciari, Lichtung: intorno a Heidegger e Maria Zambrano, in Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, a cura di Arnaldo Petterlini, Giorgio Brianese, Giulio Goggi, Mondadori 2005
Silvano Zucal, María Zambrano, Il dono della parola, a cura di Annarosa Buttarelli, Mondadori 2009