Tre anni fa ci lasciava Yves Bonnefoy. Lo ricordiamo traducendo un brano di profonda eleganza che dedicò a Borges: una delle sue ultime prose, inclusa nel libretto Dentro una scheggia dello specchio (“Dans un débris de miroir”, 2006) ancora non tradotto in italiano.
Può sembrare sciocco ricordare Bonnefoy attraverso i suoi pensieri su un altro scrittore. Eppure lui era questo, uno che si sacrificava per gli altri, fossero i suoi contemporanei oppure i vari Shakespeare e Leopardi cui prodigava cure, saggi, affetto.
Infine, il pezzo su Borges ci fa capire anche qualcosa sull’universo libresco di oggi che fa venir voglia di chiuder bottega, meglio scambiare due parole davanti a una sfoglia o a una pizza. Tutto andrebbe bene pur di non sentire le menate romanzesche tradotte e infiocchettate dagli editori grossi. La vita preme, è più vera dei tomi. (Andrea Bianchi)
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Nella mia memoria sfoglio le pagine del libro dei souvenir. Vi sono le immagini di un uomo la cui vita racchiudeva una sofferenza antica e profonda, un uomo la cui tranquilla riservatezza mai gli consentì di menzionare questo stato interiore. Questa fu la mia impressione di lui, giusto dall’inizio.
Tre ricordi, a partire dal nostro primo incontro: a Cambridge, Massachusetts, nel 1967. Borges era convocato per tenervi lezione ad Harvard in onore di Eliot Norton, quell’inverno. Lo ammiravo ed ero convinto che mi sarebbe piaciuto l’uomo che indovinavo mi sarei trovato di fronte. Jorge Guillén viveva anche lui a Cambridge e lo incontravo spesso, o da solo o per un pranzo insieme a Paul de Man. Quando gli parlai di Borges, Jorge disse: – Lui è già qui, si è già sistemato. Scrivigli e chiedigli se puoi incontrarlo.
Gli scrissi, passarono dieci giorni e ancora niente risposte. Alla fine, Guillen mi disse ridendo: – Indovina, ieri ho chiamato Borges ed Elsa mi ha detto se non lo sapevo ancora, me lo chiese a bassa voce, che c’era questa donna con la tua lettera in mano, Borges aveva pronunciato il tuo nome di persona a voce alta e la donna gli aveva nascosto la lettera.
Il mio nome di persona? Lo si pronuncia come ‘Eve’ in inglese, una che aveva la reputazione di rivoltare tutto sulla faccia della terra. Che Borges avesse una moglie era una novità: si rumoreggiava che gli fosse stata imposta dalla madre, quando ormai lei era troppo anziana per viaggiare insieme a lui. Vero o falso che fosse, Elsa aveva vissuto con lui solo per pochi anni. Difficile immaginare due persone più disparate; e i vecchi amici del poeta, molti dei quali residenti a Cambridge, non ne erano felici, anzi si sentivano sconcertati per questo fatto.
– Ti sbagli, le disse Guillén. – Questo ‘Eve’ non è una donna e si dà il caso che sia uno dei miei amici. Non ti metterà in difficoltà. Quindi per favore lascia che Borges gli risponda.
Una sera, Borges mi telefonò. Fu felice di venire a cena a casa nostra in Francis Avenue. Per quella permanenza, che durò un anno, mia moglie e io avevamo preso in affitto una piccola casa in legno, di quelle col tetto ad angolo acuto; aveva quattro o cinque gradini di ingresso e tra questi un paio di colonne in legno. Ci piaceva molto il pavimento scricchiolante e le finestre avvicinate agli alberi. Questo posto umile era un segno: spiega perché chi lascia il New England senta la mancanza di casa. Accendevamo il fuoco nel camino: ora era primavera, i rami germogliavano ovunque: e ora era autunno. Quindi tutte le foglie diventavano rosse e dorate prima di cadere, così tante da far poi rumore sotto i nostri passi. E presto venne la neve, proprio il giorno che venne da noi la famiglia Borges.
Anche se non l’avevo mai incontrato prima mi parlò apertamente, capivo che era in grado di riporre fiducia in chi gliela chiedeva. Mi disse di essere appena tornato da Concord. Vi aveva visitato la casa di Hawthorne che ammirava moltissimo. Per questo si era genuflesso sulla soglia di casa nonostante il freddo pungente e la neve pesante. Forse l’aveva fatto per una fede che aveva in comune con Hawthorne e con la sua vita, benché poi Borges non professasse nulla. Poi mi chiese se avessi letto il suo Wakefield.
Siccome non l’avevo letto Borges me lo riassunse in francese. Un uomo dice a sua moglie che andrà via dal villaggio per un paio di giorni e si allontana da lei con un sorriso idiota. Svoltato l’angolo si ferma. Perché continuare? sbotta. Si ferma in un albergo lì vicino e immagina di tornare a casa l’indomani.
Ma il giorno dopo Wakefield pensa: perché dovrei tornare proprio ora? Quindi pospone di giorni, mesi, anni. Tutto questo tempo rimane molto vicino a casa sua, per dire, la distanza di una sassata. Si sente vagamente deformato, fa lo struscio davanti casa sua. Facendo ciò getta occhiate a sua moglie e qui Borges aggiunse che Wakefield nota che lei sta invecchiando. Tuttavia per Wakefield il fatto non è inconsueto e per vent’anni non vede altri e nulla comprende.
Poi un giorno cammina di nuovo lungo la strada, sta piovendo e un refolo di vento per caso lo spinge contro casa sua. Perché non entrarvi? Si dice. Suona la campanellina, entra e ritorna alla sua vita precedente con lo stesso sorriso idiota di quando l’aveva lasciata molti anni prima. (…) Penso che Borges fosse molto attratto dagli Stati Uniti proprio per le case di questo Paese, che offrivano un comfort austero ad Hawthorne, dove poter soppesare Dio, la società e la propria vita. Forse per questo Borges pensò a Wakefield, quella sera, appena tornato da Concord. Ma perché poi quel sorriso ‘idiota’? Borges ripeteva la parola con enfasi. L’aggettivo stonava in quel romanzo così ben rifinito. Mi domandai quale fosse la parola inglese originaria e perché Borges, che conosceva bene il francese, avesse scelto proprio ‘idiota’.
L’indomani lessi Wakefield e l’ho riletto pure oggi che scrivo queste pagine. Anche in Hawthorne, il sorriso di Wakefield è la pietra di paragone del racconto. A un certo punto egli ritrae il sorriso con lo sguardo del personaggio femminile, lo sguardo della moglie che crede di essere vedova quando ripensa alla partenza improvvisa e inaspettata del marito. Per afferrare questo sorriso bizzarro, prova a immaginarselo sul volto del marito una volta rigido e fissato dalla morte. Ma la parola adoperata da Hawthorne non è la gemella inglese del francese ‘idiota’. Infatti, vi si parla di ‘crafty smile’ e questo suggerisce l’idea di una certa intelligenza, un’astuzia e una maestria lucida nel padroneggiare tecniche che spesso richiedono precisione. Ma nei secoli, inevitabilmente, la parola ‘crafty’ ha ricevuto, irresistibilmente e irreversibilmente, un’impronta peggiorativa. (…)
In definitiva, ‘crafty’ riflette la mente cristiana dei puritani del Mayflower, ossessionati dal maligno e spaventati da una fede arcaica. Laddove ‘craft’ preserva la conoscenza specifica di chi s’inginocchia per dare il tocco finale al suo lavoro tecnico, spesso di artigianato, che sta al centro della società mercantile. Quindi feci la constatazione che Borges dicendo ‘idiota’ in francese doveva aver ‘crafty’ in mente. La parola ‘stupido’ avrebbe trasmesso un commento più che una condanna e Borges, traducendo all’impronta, mirava a scusare Wakefield, come se provasse compassione per lui, insieme a un discreto fascino. (…)
Alla fine delle lezioni lo fermai nel corridoio: – Che ne pensa di Mallarmé? Gli chiesi. – Oh, Mallarmé, troppo complicato. – E allora Baudelaire? – Baudelaire? Troppo arrogante, replicò seriosamente. Questi appartengono al numero di poeti che in Francia si contano con una mano sola e vengono riconosciuti quali fonti della modernità, spesso ne ammiriamo i pensieri in poesia e diamo loro un ruolo notevole per la consapevolezza individuale. Ma Borges sosteneva che il loro lavoro non fosse il meglio dei versi francesi, preferiva Verlaine o persino Paul-Jean Toulet per il quale provava una speciale tenerezza. Questo fatto incongruo che si estende a valori ed attitudini francesi lo si capisce facilmente. La poesia ha un debito verso quello che conta davvero: la pietà e l’umiltà che ci viene instillata dalla compassione. Chi è tanto arrogante da portare la poesia in aria rifiuta di accettare i limiti strettissimi della condizione umana e farebbe meglio a diventare stupido come Wakefield. Se facessero tutti così non avremmo più quegli eccessi che predicano il male creando confusione e potremmo mostrarci vicendevolmente quell’indulgenza, gli uni verso gli altri, che tutti ci meritiamo mentre stiamo sul palco di questo mondo.
Ritengo che questo criticismo rivolto a se stesso fosse ben fondato, ed era quello che mi garbava di Borges. A mio avviso esso costituisce la grandezza dello scrittore che spesso è stato tacciato di freddezza, d’incapacità ad amare. All’opposto, era soffocato dal dolore e dallo stato di continuo abbandono di chi lo circondava, e per lui e per lei soffriva, perché solo per il fatto di esistere sempre allo stesso modo ci saremmo inflitti tra compagni dei dolori irreparabili. Come ha detto ne Il giardino dei sentieri che si biforcano. La compassione, e il senso di impotenza ad aiutare che questa comporta, stanno alla base della sofferenza che indicavo all’inizio come tipica di Borges. Questa compassione sta sopra a tutti i giudizi, siano essi letterari o meno.
Che Mallarmé e Baudelaire non fossero grandi poeti era uno scherzo di Borges, il suo rifiuto nei loro confronti non riguardava la poesia ma piuttosto il grande uomo che era, proprio lui: con la sua paura della complicazione e il suo rifiuto dell’arroganza. Considerava la scrittura come una costruzione che la persona fa sopra se stessa, in altre parole l’omicidio di tutti gli altri, e questo aumentava tanto più, quanto più era importante lo scrittore. Con Mallarmé e Baudelaire rifletteva, inquieto, sul suo dilemma personale. Definendoli in giudizi perentori, pareva rassicurarsi.
Yves Bonnefoy
* traduzione di Andrea Bianchi