09 Maggio 2022

“Quei Saggi della foresta hanno pensato tutto”. La filosofia indiana secondo W.B. Yeats

William Butler Yeats conobbe Shri Purohit Swami, indiano, figlio di alti bramini del Maharashtra, nel 1931. Vent’anni prima aveva incrociato Tagore: affascinato dalla sua poesia, dalla figura del poeta-guru, del poeta sapiente, aveva scritto una partecipe introduzione al Gitanjali. Era stato Ezra Pound, il segretario di Yeats, l’entusiasta amico, a indicargli Tagore, e poi a mostrargli il teatro nō giapponese, la poesia classica cinese: “la vecchia Aquila” – così ‘Ez’ chiamava WBY – riconobbe in Cathay un prototipo, l’esempio, liberatorio, di come tradurre – cioè: inghiottire – i classici dell’estremo Oriente. Shri Purohit Swami (1882-1941), dopo vasti vagabondaggi in India, era stato inviato dal suo maestro a mostrare la via induista agli europei; per Yeats, fu il confronto – pur mediato dalla sua effervescenza onirica, dall’estro druidico – con la filosofia indiana, dopo i miti d’Irlanda, i viaggi verso Bisanzio, l’affronto gnostico, il misticismo, l’Hermetic Order of the Golden Dawn.

Il rapporto con Shri Purohit Swami si sigilla nel 1932: Yeats firma l’introduzione a The Autobiography of an Indian Monk: His Life And His Adventures. Più importante, in questo percorso di avvicinamento al cuore dell’India, la prefazione che Yeats scrive a The Holy Mountain, il racconto del pellegrinaggio spirituale di Bhagwan Shri Hamsa verso il monte Kailash, in Tibet. Il testo, tradotto da Swami, è pubblicato da Faber nel 1934; “la vita di un asceta è una continua preparazione al contemplare”, scrive Yeats, a un certo punto. Nell’introduzione, ispirata, parla della pittura cinese e di Raffaello, cita William Blake, Coleridge, Leonardo da Vinci, l’incipit è fulminante: “Non conosco altro che i romanzi di Balzac e gli aforismi di Patanjali. Un tempo, conoscevo altre cose, ma sono solo un vecchio uomo dalla memoria impoverita. Ci dev’essere una ragione se ho scritto questa sentenza, per altro falsa, che mi gira in testa da settimane. Forse perché, ogni volta che sono stato tentato di andare in Giappone, in Cina, in India per la mia ricerca filosofica, Balzac mi ha afferrato, mi ha riportato indietro, agli affanni nazionali, sociali, personali, convincendomi che non si può fuggire dalla nostra condizione umana?”. Secondo i critici, la lettura di The Holy Mountain ha ispirato a Yeats un paio di poesie, What Magic Dum? e Meru; il frontespizio della prima edizione del libro mostra un uomo dal viso spiritato, di aristocratica nobiltà, che cammina scalzo, con un bastone: forse è il misterioso Bhagwan Shri Hamsa. Ad ogni modo, nella prefazione, a più riprese, Yeats cita le Upanishad, il vasto repertorio di testi sacri induisti che lo incuriosiva da tempo; in effetti, il lavoro davvero memorabile che lega il poeta irlandese a Swami è la traduzione, a quattro mani, delle Ten Principal Upanishads.

L’opera – pure per la sua avventatezza – testimonia l’estrema energia poetica di Yeats, l’inesauribile audacia; aveva ottenuto il Nobel nel 1923, non si azzardava a fare il ‘poeta laureato’, a sedersi, sedato. Colto da un’ultima, totale vitalità – dovuta anche a una vasectomia, compiuta nel 1934, che pare abbia permesso brillantezza erotica al poeta –, piuttosto, Yeats alternava la vertigine lirica con gli incontri, diversi, con giovani ammiratrici, a Londra. La traduzione delle Upanishad si compì a Maiorca: Yeats partì con Swami il 20 novembre del 1935, “in nave da Liverpool per Palma… ai suoi occhi, in questo momento, lo Swami poteva avere i pregi di una guida spirituale che fosse comunque capace di una notevole joie de vivre (in: William B. Yeats, Le ultime poesie, Bur 2004). Il lavoro, incessante, fu interrotto ai primi di maggio del 1936 dall’irruzione di Margot Ruddock, attrice incantevole, ragazza trafitta dai dolori, poetessa e discepola di Yeats. “Era fuggita di casa… mi ha messo davanti una gran massa di poesie… alcune le ho trovate splendidi frammenti tragici”, scrive Yeats all’amica Dorothy Wellesley. I particolari della tragedia – la fuga da Yeats, la caduta dal tetto di una casa spagnola, “si è nascosta nella stiva di una nave, e per la maggior parte di quel tempo ha cantato le proprie poesie. Era in una sorta di estasi” – saranno tradotti in una delle più belle poesie dell’ultimo Yeats, A Crazed Girl, “heroically lost, heroically found”. Sconvolto dall’episodio, lo Swami fece i bagagli e se ne tornò in India. La traduzione era comunque compiuta; il testo fu stampato da Faber nel 1938, costituisce, insieme ai New Poems, l’ultima opera pubblicata da Yeats in vita.

La stima verso Shri Purohit Swami – autore, tra l’altro, di una versione in inglese della Bhagavad Gita – fu indefettibile: Yeats inserisce alcune sue poesie nell’antologia The Oxford Book of Modern Verse 1892-1935, edita nel 1936, che mirava a raccogliere i massimi poeti in lingua inglese dell’epoca e che ebbe un successo stratosferico. L’indiano, semisconosciuto, stava stivato tra titani come Ezra Pound e James Joyce, Gerard Manley Hopkins, Wystan H. Auden, Rudyard Kipling, T.S. Eliot, Oscar Wilde… Una poesia, I Know that I am a Great Sinner, fa così:

So di essere un sommo peccatore,
che non c’è salvezza,
ma sia ciò che Tu vuoi.
Se il Padrone vuole, non ha bisogno di parlarmi.
Ciò che chiedo è la Sua grazia
che cammini al mio fianco lungo la vita.
Sarò buono
benché non mi abbracci mai –
Potente, tu sei il Maestro
io il tuo servo.

Nell’antologia, un posto abbagliante ha Margot Ruddock, tra l’altro, la poetessa estatica. Yeats voleva morire sussurrando questa frase – lo confessa, una settimana prima del decesso, a Elizabeth Pelham – “L’uomo può incarnare la verità, ma non può conoscerla”. Una citazione – non del tutto esatta nei termini – da Jacob Böhme. Potrebbe provenire dalle Upanishad.

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The Ten Principal Upanishad. Introduzione di William B. Yeats

Inabile a esporre la filosofia indiana, dirò alcune cose tratte dai miei pensieri quotidiani, e qualcosa sulla poesia contemporanea.

Per circa quarant’anni, il mio amico George Russell mi ha recitato brani dalle Upanishad, e lungo quei quarant’anni mi sono detto: un giorno scoprirò di cosa parla. Eravamo legati dall’antagonismo che unisce i cari amici. Più di una volta gli ho chiesto il nome di qualche traduttore, comprai qualche libro, gli studiosi eminenti mi lasciarono insoddisfatto. Così, quando ho incontrato Shri Purohit Swami, gli ho proposto di andare in India e realizzare una traduzione che suonasse come l’inglese comune. “Per scrivere bene”, dice Aristotele, “esprimiti come la gente comune, ma pensa come un saggio”. Era la frase preferita da Lady Gregory – la cito a memoria. Visto che la salute instabile e l’assenza di denaro resero impossibile l’India, ci volgemmo verso Maiorca, per fuggire dai telefoni e dal maltempo: lì il lavoro è stato realizzato, con facilità e svago, negli spazi concessi da una lunga malattia. Sono soddisfatto. Sono riuscito a evitare la confusa distorsione poliglotta degli accademici, che sillabano latinizzando, congelando il credo in questione di studio.

La ricerca psichica, che un giorno dovrà riguardare anche la filosofia religiosa, dimostra l’esistenza di facoltà che, combinate in un solo uomo, farebbero di lui uno Yogi in grado di compiere miracoli. Sempre più ci avviciniamo al pensiero delle Upanishad. Gli investigatori continentali, che rigettano lo spiritismo di Sir Oliver Joseph Lodge e di Sir William Crookes, accettano i loro fenomeni, che postulano un sé individuale dotato di tale potere e sapienza che sembra in ogni istante identificarsi con quel Sé senza limiti né sofferenza che contiene tutto e tutti, non solo i vivi ma anche i morti.

Ma la nostra curiosità non si esaurisce in un’unica fonte. Tra il 1922 e il 1925 la letteratura inglese, in modo più intenso che altrove, ha abbandonato la preoccupazione per i problemi sociali, ideando miti, pari a quelli antichi, ponendosi domande profonde. Ricordo le poesie di T.S. Eliot, Foglie secche di Aldous Huxley, dove l’odio buddista per la vita è l’odio che Schopenhauer ha tratto da una traduzione latina di una traduzione persiana delle Upanishad: alcuni poemi – The Seven Days of the Sun, Matrix, The Mutations of the Phoenix, di W. J. Turner, Dorothy Wellesley, Herbert Read – mostrano nel mito (non come potrebbe fare uno scrittore della mia età, pieno di romantiche suggestioni ma stimolati dal pensiero moderno) il mondo che emerge dalla mente umana. Una generazione ancora più giovane ha narrato la minuzia psicologica, quasi che sul loro occhio sia avvitata una lente d’ingrandimento, e con perizia da orafo discernono il soffrire. Nella loro ricerca di senso, Cecil Day Lewis, Louis MacNeice, Wystan H. Auden, Laura Riding, hanno rigettato troppo presto, forse, le vecchie metafore, l’antica tradizione sensuale dei poeti, “In cima a qualche ripiano di monte/ le spietate astrazioni calve al collo”. Ma ho scoperto un sacrificio simile tra le Upanishad, dove qualche maestro asiatico può revisionare i nostri occhi distorti.

Quando ero giovane, si parlava molto di tradizione, e alcuni giovani audaci, Francis Thompson, Lionel Johnson, John Gray, la trovarono nel cristianesimo. Ma ora che Il ramo d’oro ha reso il cristianesimo moderno e frammentario, noi studiamo Confucio con Ezra Pound, o, insieme a Eliot, troviamo nella cristianità un certo simbolismo che rimanda a qualcosa di più arcano o di più moderno, e diciamo, con Henry Airbubble, “Sono un membro della Chiesa d’Inghilterra, ma non sono cristiano”.

Io e Shri Purohit Swami offriamo a qualche giovane uomo in cerca di vasti sentimenti e universalismo, come Shakespeare, Dante, Milton, le più antiche composizioni filosofiche del mondo, che furono cantate molto prima di essere scritte. Gli studiosi europei, con qualche dubbio, fissano una data: poco prima del 600 a.C., quando nacque il Buddha; gli studiosi indiani optano per un periodo assai precedente. Poco importa, quei Saggi della foresta hanno pensato tutto: nessun problema fondamentale della filosofia, nulla che abbia turbato le scuole del pensiero fino allo scontro, è sfuggito alla loro attenzione.

Mi piace immaginare che quando ci voltiamo a Oriente, dentro o fuori da una chiesa, ci stiamo rivolgendo a un non meno antico Occidente o Nord; il solo frammento della filosofia pagana irlandese, The Song of Amergin, pare asiatico: un sistema di pensiero simile a quello che risplende in questi libri, anche se meno aristocraticamente organizzato, un tempo si estendeva anche nel nostro mondo. Le nostre genuflessioni scoprono in quell’Oriente qualcosa di antico che giace in noi stessi, ed è qualcosa che dobbiamo portare alla luce prima di placare il nostro istinto religioso, che esige tutto l’uomo.

William B. Yeats

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Īṣa Upaniṣad

Questo è il perfetto. Questo è il perfetto. Perfezione che sciama nella perfezione. Estrai perfetto da perfetto, il resto è perfetto.

Pace pace pace sia ovunque.

 

Ciò che vive è colmo del Potente. Non pretendere nulla; gioisci, non anelare a ciò che è Suo.

Allora spera in cento anni di vita stretto al tuo compito. Nessun’altra via può impedire alle azioni di ingabbiarti: sei così orgoglioso della vita umana.

Chi nega il Sé ritorna dopo la morte alla nascita senza dèi, cieca, avviluppata nell’oscurità.

Il Sé è uno. Immobile, si muove più rapido della mente. I sensi latitano, lenti; il Sé corre, scatta, recalcitra, altrove. Immoto, è al di là di ogni fuga. Dal Sé dilaga il respiro che dà la vita ad ogni cosa.

Immoto, si muove; ora distante, ora prossimo; al di là di tutto, in tutto.

Soltanto l’uomo che sa vedere tutte le creature in se stesso e se stesso in ogni creatura, non prova dolore.

Come può il saggio, che sa l’unità concatenata della vita, percependo ogni creatura in se stesso, essere addolorato, deluso, triste?

Il Sé è ovunque, senza corpo, privo di ombra, esatto, compiuto, puro, sapiente, tutto conosce e in ogni cosa risplende, indipendente, trascendente, nell’eterna processione che assegna ad ogni era il proprio compito.

Fissa fede nella conoscenza naturale, vaga tra le tenebre dei ciechi; fissa fede nella sapienza soprannaturale, vaga inerme in una tenebra ancora più fitta.

La conoscenza naturale mira a un risultato, quella soprannaturale a un altro. Lo sappiamo dai sapienti, ce lo hanno esposto con chiarezza.

Chi distingue la conoscenza naturale da quella soprannaturale, attraversa le cose corrotte, ascende alla salvezza; sovrasta la rinascita, si attiene alla vita immortale.

 

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