Partiamo dalla fine, cioè dalla lettera di Elizabeth Yeats, scritta il 22 febbraio del 1939, al “mio caro Rossi”, in cui racconta la morte del fratello, accaduta poco meno di un mese prima, in Francia, presso Cap-Martin. “È morto senza dolore, in pace, verso le 14 del 28 gennaio, era sabato… ha lavorato fino all’ultimo, ha parlato con la consueta dolcezza. La signora Yeats testimonia che aveva uno splendore meraviglioso sul viso. Mr & Mrs Dermot O’Brien mi hanno detto, dopo aver parlato con lui, il giorno prima, che ‘è stato un grande privilegio avere avuto una conversazione così serena con ‘Willy’: la sua nobile bellezza era accesa da un sorriso, come se avesse fosse stato trapassato da un pensiero ironico’”. Per la cronaca, Elizabeth, più giovane di tre anni di ‘Willy’, insegnante d’arte, fondatrice, nel 1908, della mitica Cuala Press, morì un anno dopo il fratello, il 16 gennaio del 1940.
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Qualche anno dopo, sul “Corriere dell’Informazione”, è il 1954, il fatidico “caro Rossi” scrive una nota di luminosa intensità: “A Coole, per la prima volta, e forse per l’ultima, ho sentito che cosa significhi la poesia per i poeti, la scrittura per gli artisti. A Coole, fra Lady Gregory e Yeats, comprendevate che le parole possono divenire quello che è un legno prezioso per l’ebanista, un certo colore per un pittore. Strumenti, materie da scegliere accuratamente, da collocare a posto con precisione – e poi la meraviglia infantile di essere riusciti a dire tutto quello che si voleva dire, il poeta in ginocchio davanti alla sua creazione più grande di lui”. Frasi liriche e vertiginose, che segnano una intimità con William B. Yeats, il genio irlandese, Nobel per la letteratura nel 1923, tra i grandi poeti del secolo. Già. Ma… chi è questo “caro Rossi”?
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Il “caro Rossi”, cioè Mario Manlio Rossi, è una intelligenza italiana seppellita nell’oblio. Filosofo, laurea a Firenze in teoretica – con una tesi su Tommaso Campanella –, libera docenza nel 1929, alieno al Fascismo è costretto a insegnare qua e là, in giro per l’Europa. L’esperienza all’estero gli consente, dal 1947 al 1966, di ottenere la cattedra di letteratura italiana all’Università di Edimburgo. I suoi libri: dal Saggio su Berkeley (Laterza, 1955) al Saggio sul rimorso (Bocca, 1933), dal profilo su Swift (Garzanti, 1942) alla muscolare Storia d’Inghilterra (Sansoni, 1948-66), li trovate, se va bene, sulle bancarelle. L’unica leccornia ancora in circolo è lo studio di Rossi intorno al Regno segreto di Robert Kirk, ministro presbiteriano del XVII secolo che andava a scovare fate e gnomi, elfi e coboldi (il testo è edito da Adelphi). Tornato in Italia dopo l’insegnamento in Scozia, si ritira a Pontecagnano, grave di vita, dove muore, nel 1971: il fondo che porta il suo nome è conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia.
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Che c’entra Rossi con Yeats? Il pretesto dell’incontro fu l’opera di George Berkeley, il filosofo irlandese. Rossi aveva commentato la sua opera, l’aveva tradotta in italiano, la sua fama da studioso aveva varcato le Alpi. Joseph Maunsel Hone, fondatore della Maunsel & Co. e biografo di Yeats, fu preso dall’idea editoriale: una edizione di Berkeley commentata filosoficamente da Rossi e introdotta da Yeats. “Rossi giunse in Irlanda nell’estate di quello stesso 1931, e in luglio fu presentato a Yeats… da quell’incontro nacque un’amicizia che sarebbe durata fino alla morte del poeta” (così Fiorenzo Fantaccini nell’indispensabile W.B. Yeats e la cultura italiana, Firenze University Presso 2009, che raccoglie l’epistolario tra Rossi e Yeats e racconta il periplo della loro amicizia). Evidentemente, il filosofo emiliano e il poeta irlandese si stanno simpatici. “La biografia su Berkeley fu pubblicata quello stesso anno da Faber e Macmillan… Qualche giorno dopo il mio incontro ricevetti un telegramma da Lady Gregory che mi invitava a Coole, dove rimasi per tutto il mese di agosto con lei e W.B. Yeats”, ricorda, Rossi, nel 1968, scrivendo al poeta Austin Clarke.
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La visita a Coole, luogo mitico nella topografia di Yeats, a cui si riferisce una delle poesie più note, The Wild Swans at Coole, ha, per l’italiano, un valore mistico. Così Rossi scrive di Yeats, nel Viaggio in Irlanda (Doxa, 1932; tradotto da Hone, in versione ridotta, come Pilgrimage in the West, Cuala Press, 1933), con estatica ammirazione: “è un uomo così sereno, con i poveri occhi stanchi, con la testa sempre un poco curva in avanti […] Le cose più vive in lui sono i capelli bianchi, e le mani bianche che a volte vi passa attraverso, più che per ricomporli, per sentire quasi la propria presenza carnale e spirituale. Vi è qualcosa di sericeo nelle mani come nei capelli: qualcosa di estremamente delicato nelle onde dei capelli come nel movimento delle mani. Sono mani che si agitano leggermente, senza alzarsi, solo per scandire il ritmo di un verso. e si alzano solo quando la frase è finita, e Yeats comincia a sorridere sul bel verso che ha detto o sul motto che gli è uscito, con una esilità timida, arrossendo leggermente. E quando rivolge verso di noi il viso abbassato, quando vi guarda di dietro le lenti con gli occhi azzurri, sembra che, assorto in se stesso fino ad allora, si senta d’improvviso tutto gioioso della presenza umana che ha vicino, di essere stato udito – e di essere stato (egli ne è sempre certo) compreso. Io non sarò mai degno, in tutta la mia vita, che il viso di Yeats si sia voltato verso di me con questa profonda soddisfazione, con questa arrossente gioia di essere stato ascoltato”. L’invito a incidere le proprie iniziali sull’albero di Coole, che ospita i marchi di Shaw, Synge, O’Casey, Yeats, è per Rossi il segno di una unione commossa, rituale: “Ero stato per qualche settimana l’intimo dei poeti, l’amico di Lady Gregory, animatrice della nuova letteratura irlandese. ero arrivato, non so per qualche miracolo, a quella bianca casa di Coole che riceveva così pochi ospiti”.
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Il rapporto tra Yeats e Rossi si consolida quando il filosofo italiano si occupa di Jonathan Swift. Il suo Essay on the Character of Swift è pubblico su “Life and Letters” nel settembre del 1932. Nel 1934, sempre con la traduzione di Hone, Rossi pubblica Swift, or the Egotist, per Gollancz, a Londra. In una lettera del 9 febbraio 1932, Yeats, commentando lo Swift secondo Rossi, annuncia i suoi attuali interessi. “Sto aiutando a correggere una curiosa autobiografia che penso possa suscitare scalpore. Un anno fa ho incontrato a Londra un asceta indiano che ha vagato per nove anni con una ciotola, a mendicare: l’ho persuaso a scrivere i fatti oggettivi della sua vita. Il libro è pieno di strane esperienze psichiche. Scriverò l’introduzione e l’origine del libro. Non esiste ancora un libro del genere”. Il poeta si riferisce a An Indian Monk, la biografia, pubblicata quello stesso anno da Macmillan, di Shri Purohit Swami (1882-1941), eremita induista di alta educazione (laureato in filosofia a Calcutta, perfezionatosi a Bombay). Insieme al monaco induista, Yeats lavora anche per la pubblicazione – accaduta per Faber, nel 1934 – del testo mistico di Bhagawan Shri Hamsa, The Holy Mountain.
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In un saggio pubblicato nel 1947 su “Cronos”, Yeats and Philosophy, Rossi esalta la poesia di Yeats, riconoscendone il carisma metafisico. “In nessuno ho incontrato un simile interesse per la metafisica. Di solito, gli uomini inseguono, attraverso la filosofia, i propri preconcetti. Ma Yeats domandava perché voleva sapere. Cercava ancora e ancora una spiegazione… In ogni grande poeta c’è qualcosa di misterioso: c’è la magia al lavoro da qualche parte. Risvegliandosi dal rapimento, il poeta capisce di essere stato ‘oltre’ e chiede ai filosofi una cartografia del mistero. Yeats non poteva evitare la metafisica perché era un poeta e voleva capire”.
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Lo scambio epistolare tra Rossi e Yeats si colloca per lo più tra 1931 e 1932 (nonostante l’ultima lettera del filosofo sia del 1938). Spesso giungendo a riflessioni filosofiche interessanti, per chi ha conoscenza delle speculazioni di Yeats, testimoniate in A Vision. Così il poeta irlandese nel dicembre del 1931: “La verità è che mi hai estratto dal profondo. Capisco che la realtà è senza tempo, che passato e presente costituiscono la più ovvia delle antinomie. Ma non ti seguo in analisi ulteriori. C’è sempre ‘la linea retta’ in ogni romanzo, in ogni novità; e c’è il cerchio, compiuto, che è il ritorno perpetuo o la fine. Nessuna spirale, o curva. Abbiamo soltanto quei due assoluti e i ritorni parziali sono mere costruzioni della mente. Questo è ciò che pensi. Eppure, ogni vecchio ha vissuto in modo diverso le sette età di Shakespeare e c’è l’annuale ritorno della primavera, ma credi davvero che sia la stessa primavera? Pensi davvero che siamo come un uomo che corre intorno a un pilastro, che pensa che il tratto irregolare del pavimento sia sempre quello quando lo raggiunge, o che si tratti di un nuovo pezzo irregolare e che costui si sia messo a correre su una linea retta? Forse la linea e il cerchio sono esse stesse antinomie”.
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Rossi torna in Irlanda nel 1953 e nel 1962: per lui l’incontro con Yeats e la gita a Coole sono stati il crisma di una intera esistenza. Per Yeats, probabilmente, quello è stato un incontro come tanti. Ma, si sa, rincorrere l’oro della propria vita procura inevitabili delusioni. “Tornato nell’isola nel 1953 per scrivere una serie di articoli sull’Irlanda commissionatigli dal ‘Corriere della Sera’, Rossi troverà che Coole è stata distrutta e che della big house in cui era stato ospite di Lady Gregory rimangono solo le fondamenta. Rivisiterà l’Irlanda nel 1962 e anche in quell’occasione le belle memorie dell’agosto 1931 si scontreranno con la cruda realtà” (Fantaccini). Non esiste ritorno dell’uguale, il cerchio è una possibilità della mente: in realtà, precipitiamo nella spirale. (d.b.)