Il 1929 fu un anno fondamentale, pattugliato da due libri. A gennaio Harcourt manda in libreria Sartoris. Soprattutto, il 7 ottobre di quell’anno, Jonathan Cape si convince a pubblicare L’urlo e il furore. Il libro, qualche mese prima, era stato rifiutato da Harcourt. Nel 1929 Faulkner ambienta – come sempre nel set di Yoknapatawpha – il romanzo che finalmente gli dona il successo. Il romanzo che ripudia.
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Dieci anni prima William Faulkner scriveva poesie – quelle che faranno la raccolta The Marble Faun – e guardava con desiderio Estelle Oldham, appena tornata da Honolulu. Facevano coppia, da ragazzi. Poi lei preferì l’avvocato Franklin, galeotto fu l’anello adornato di diamanti che le aveva regalato. Il 29 aprile del 1929, però, Estelle divorzia dal ricco avvocato e il 20 giugno di quell’anno sposa lo scrittore squattrinato. “Estelle è delusa dalla trasandatezza del marito… Estelle tenta il suicidio cercando di annegarsi… I problemi economici sono diventati una ossessione quotidiana” (così Fernanda Pivano nella Cronologia che completa le Opere scelte di Faulkner incapsulate nei ‘Meridiani’ Mondadori).
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Dice di averlo scritto per far soldi. Lo scrive chiaramente, in una introduzione celeberrima, nel 1932. “Questo libro fu scritto tre anni fa. Secondo me non è un gran che, come idea, perché fu concepito unicamente allo scopo di far soldi”. Questo è l’incipit. Non bisogna credere a Faulkner, mentitore seriale. La verità è che quel libro, Sanctuary, faceva tremare i polsi, faceva esplodere le caviglie. Faulkner lo termina il 25 maggio del 1929. Il suo editore gli risponde: “Non posso pubblicarlo. Finiremmo tutti e due in prigione”. ‘Will’ lo fa leggere a Estelle. Lei è inorridita e già rimpiange il suo avvocato, bolso ma ricco: “è orribile”. Faulkner si schernisce, “così venderà”, si fa scudo con la più banale delle bugie. Con la scusa del “così venderà”, finalmente, senza schermi, può dire quello che pensa dell’uomo e del mondo. Può dire lo schifo.
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“In Sanctuary Faullkner ha bruciato, se vogliamo, tutta la sua esasperazione per quella che egli chiama la follia umana; ha guardato alla società intera senza pietà alcuna, né per i malvagi né per gli innocenti, né per gli ipocriti né per gli idealisti, né per i vincitori né per i vinti. Nel dire di questa visione cupa dell’umanità lo scrittore si è qui affidato a una gamma di registri che vanno dal violento all’ironico al grottesco”. Così scrive Mario Materassi in Una nota su quella pannocchia, saggio raccolto in un libro fondamentale per chi voglia capire ‘Will’, Faulkner, ancora (Palomar, 2004). Materassi ha tradotto e curato l’edizione di Santuario appena pubblicata in economica da Adelphi.
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In sostanza, Santuario gira intorno a Temple Drake, minorenne, ninfetta, prototipo delle Lolite che verranno (“Gambe lunghe, braccia sottili, meline alte – una figurina infantile non più proprio bambina, non ancora donna, si muoveva rapida, stirandosi le calze, infilandosi sinuosa nell’abitino stretto. Adesso posso sopportare qualsiasi cosa, pensò calma, con una sorta di sordo, spento stupore; posso proprio sopportare qualsiasi cosa”). E a un brutale Popeye, che la violenta, in un fienile, con una pannocchia. Brutalità e impotenza, la donna non si stupra con la carne ma con la cosa (“Il procuratore distrettuale si rivolse alla giuria. «Presento come prova questo oggetto rinvenuto sulla scena del delitto». In mano aveva una pannocchia di mais”).
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“Sarò conosciuto per sempre come l’uomo della pannocchia”, ghignava, Faulkner, nel 1938. Il 9 febbraio del 1931 è sempre Jonathan Cape a pubblicare Santuario. Faulkner ha visto giusto. Il successo è lampante. Certo, amici, parenti, concittadini lo ritengono un pervertito, è norma per lo scrittore (ancora la Pivano: “A Oxford e in genere nel Sud si registrano reazioni indignate; molti concittadini tolgono il saluto all’autore, e il suo vecchio amico Mac Reed, padrone del drugstore dove da ragazzo leggeva di nascosto i libri che non poteva comperare, vende il libro incartato affinché non se ne possa vedere la copertina”). Dal libro vengono tratti due film: The Story of Temple Drake, nel 1933, con Miriam Hopkins, e Sanctuary, nel 1961, con Lee Remick e Yves Montand. Galvanizzato, lo scrittore si mette a scrivere Light in August.
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La fama del libro varca i confini americani: nel 1933 Gallimard pubblica Sanctuaire, con la celebre introduzione di André Malraux e quella sintesi, azzeccata, “è l’intrusione della tragedia greca nel romanzo poliziesco”. Anche il resto è pregio, comunque, fregio di un talento bulimico: “Nella pittura, è chiaro che un dipinto di Picasso è sempre meno ‘una tela’, ma piuttosto una scoperta, la pietra miliare lasciata dal passaggio di un genio. In letteratura, il dominio del romanzo è significativo perché di tutte le arti (e non dimentico la musica), il romanzo è il meno governabile, quello in cui il campo della volontà è più limitato. Quanto i ‘Karamazov’ e Illusioni perdute dominino Dostoevskij e Balzac, lo capiamo leggendo questi libri dopo i romanzi cristallizzati di Flaubert… Alcuni grandi romanzi furono tali perché hanno sopraffatto e sommerso il loro creatore. Lawrence si avviluppa nella sessualità, in Faulkner irrompe l’irrimediabile”.
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Nell’introduzione del 1932, Faulkner spiega il suo ‘metodo’. Il suo romanzo più grande e più estremo, Mentre morivo – pubblicato nel 1930 – è stato scritto nel 1929 – il solito anno fatale e fetale – mentre lavorava “come addetto al rifornimento del carbone, turno di notte, dalle 6 del pomeriggio alle 6 di mattina”. Ogni notte, “fra le 12 e le 4, in sei settimane”, rovesciando la carriola e facendone la propria scrivania, “scrissi Mentre morivo senza cambiare una sola parola”. Santuario, dice, invece, fu riscritto da cima a fondo, “strappai le bozze e riscrissi il libro”. Non sempre un grande soffrire produce un grande libro – in Faulkner ambizione e desolazione hanno prodotto un’opera assoluta. Da quel gorgo di anni scaturiscono i libri immensi, le ossessioni secolari. Che Santuario non sia un libro casuale, parziale, buttato là, lo dimostra il sequel – diciamo così – Requiem per una monaca, uno dei romanzi più alti di Faulkner, pubblicato nel 1951, poco dopo il Nobel.
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Sentite qui che bellezza, che sbalorditiva musica, demoniaco Faulkner. “Sotto il padiglione, una banda vestita del blu orizzonte dell’esercito suonava Massenet e Skrjabin, e Berlioz come una leggera spalmatura di torturato Ñajkovskij su una fetta di pane stantio, mentre il crepuscolo si dissolveva in umidi barlumi dai rami, sul padiglione e sui funghi severi degli ombrelli. Ricchi e sonori gli ottoni si abbattevano e morivano nello spesso crepuscolo verde, rotolando su di loro in tristi onde opulente. Temple sbadigliò al riparo della mano, poi tirò fuori uno specchietto e lo aprì su un visino in miniatura imbronciato, scontento e triste. Suo padre le sedeva accanto, le mani incrociate sul pomo del bastone, la rigida barra dei baffi perlata di umidità come argento ghiacciato. Temple richiuse lo specchietto, e da sotto l’elegante cappellino nuovo parve inseguire con gli occhi le onde della musica dissolversi negli ottoni morenti, al di là della vasca e dell’antistante semicerchio di alberi dove, a severi intervalli, meditavano le morte, tranquille regine di marmo maculato, e via verso il cielo che giaceva prono e vinto nell’abbraccio della stagione della pioggia e della morte”. (d.b.)
*In copertina: William Faulkner con Howard Hawks e Harry Kurnitz, photo Robert Capa