Nelle fotografie, William Cullen Bryant ostenta una clamorosa barba bianca; gli occhi sembrano pozzi e le rughe conferiscono a quel viso la solennità di una quercia. Morì nel giugno del 1878, era nato il 3 novembre di 83 anni prima. A Central Park si inaugurava una statua dedicata “al grande rivoluzionario liberale europeo ed italiano Giuseppe Mazzini”. La statua esiste ancora. Era la fine di maggio, Cullen Bryant tenne il discorso, adornato di applausi. A New York lo conoscevano tutti. Si era trasferito nella città molti anni prima, nel 1825, aveva fatto del “New York Evening Post” uno dei giornali più autorevoli degli Stati Uniti. Uomo d’intelletto, animo contemplativo, William Cullen Bryant amava l’esercizio fisico: aveva doti da gran camminatore. Anche quel giorno, dopo aver tenuto il discorso inaugurale per il busto di Mazzini, tornò a casa a piedi, rifiutando gli inviti in carrozza. Il caldo eccessivo lo fiaccò. Giunto alla porta di un amico, crollò, preda di una commozione cerebrale. Seguì un ictus, alcuni giorni di coma, la morte. Il funerale fu seguito da una folla immensa, calorosamente commossa.
Il vecchio William Cullen Bryant, d’altronde, era uno dei pionieri della letteratura americana. Da giornalista, spalleggiò l’elezione di Abramo Lincoln; da poeta ne cantò la morte, con accenti biblici: “lento alle accuse, rapido nel perdono/ gentile, misericordioso e giusto/…ora sei tra i figli della luce/ nella nobile schiera di chi/ è morto per la causa del Giusto”. La seconda edizione dei suoi Poems, pubblicata nel 1832 da E. Bliss, e in Inghilterra sotto gli auspici di Washington Irving, era stato un autentico evento.
In particolare, il genio di William Cullen Bryant è legato a una poesia, Thanatopsis, scritta quando aveva diciassette anni. Il testo – etimologicamente: ‘riflessione sulla morte’ – è mirabile: si racconta della con-fusione di un uomo nel grembo della natura, della morte come ritorno nel proprio patronimico onirico, della bellezza di perdersi e di svanire inavvertiti, come i fiumi, le rocce, gli alberi. William Cullen Bryant deve la propria ispirazione alle Lyrical Ballads di Wordsworth, ma i toni – pittorici, ingenui, umani-troppo-umani, di frugale potenza – sono del tutto ‘americani’: l’uomo solo, nell’immensità dei boschi, tra le stirpi dei morti.
Il direttore della “North American Review” che pubblicò il testo per la prima volta, nel 1817, pare abbia detto “nulla di simile è mai stato scritto in questo continente” – una frase, invero, del tutto americana. Cullen Bryant inserì il poemetto nella prima edizione dei suoi Poems, pubblicati da Hilliard and Metcalf, Cambridge, nel 1821. Nato nei pressi di Cummington, Massachusetts, il giovane Cullen Bryant amava vagabondare per i boschi e leggere Edmund Spenser. Il padre lo costrinse a studiare da avvocato; lui lo ascoltò per un po’, poi, come abbiamo visto, preferì la carriera letteraria e giornalistica a New York. Thanatopsis diventò quasi subito un ‘classico’, una poesia, per così dire, ‘formativa’: addestrava ad accettare la morte, imponeva l’incontro con i lari della natura. I bambini la imparavano a memoria, a scuola; il testo avrà un influsso chiaro nell’opera di Henry David Thoreau e di Ralph Waldo Emerson. Tradotto in Italia da Teofilo Petriella nel 1912, come L’inno alla morte, se ne propone in calce all’articolo una nuova versione.
L’importanza di Thanatopsis nell’immaginario americano si rivela dai dettagli: nel dialogo tra Clarice Starling e Hannibal Lecter, inventato da Thomas Harris ne Il silenzio degli innocenti, la giovane agente dell’FBI cita la poesia di Cullen Bryant.
Per Walt Whitman, William Cullen Bryant fu semplicemente un mito, “uno dei più grandi poeti al mondo”; finì per essere – simbolicamente – l’icona da abbattere. Intervistato da “The Leader and Herald”, il 28 giugno del 1885, Whitman afferma:
“Sono un grande ammiratore di Bryant, Emerson, Whittier e Longfellow… Metterei Bryant al primo posto, sotto molti punti di vista. Per molto tempo ho collocato Emerson all’apice della letteratura poetica americana, ma da ultimo ho invertito l’ordine e ritenuto Bryant degno di figurare al primo posto, grazie alla sua nativa vitalità e al carattere patriottico, e perché nella sua poesia ritroviamo lo stesso sentore dei boschi e della riva del mare”.
Sul “New York Herald”, il 14 aprile del 1889, precisa le sue considerazioni in questo modo:
“Bryant! Il nostro più grande poeta. Ha qualcosa dell’americanismo, dell’individualismo americano, della vita all’aperto, il rifluire del mare, le montagne, le foreste e gli animali. Ma è troppo malinconico per essere un grande rappresentante della poesia americana”.
Nessun altro poeta ricorre così spesso nelle riflessioni di Whitman (le citazioni sono tratte da: W. Whitman, Non esiste diavolo peggiore dell’uomo. Interviste, De Piante, 2022). Edgar Allan Poe tra le poesie di William Cullen Bryant preferiva, ovviamente, June, dove un funerale è descritto, con stentorea tenerezza, in mezzo al verde: così la descrive in The Poetic Principle:
“Ha un flusso ritmico voluttuoso, è una poesia che mi ha sempre colpito in modo inspiegabile e straordinario… Ciò che ci trasmette è l’impressione profonda di una tristezza in cui ci troviamo a nostro agio”.
Patriarca della letteratura autenticamente americana, William Cullen Bryant fu soppiantato dalla generazione di giganti che lo ha seguito: Melville & Whitman, Hawthorne & Emily Dickinson. L’affarista e filantropo Jonathan Sturges commissionò nel 1849 ad Asher Brown Durand un quadro in cui William Cullen Bryant chiacchiera con l’amico artista Thomas Cole, morto l’anno prima. Entrambi sono ritratti su una rocca, in mezzo al bosco: sotto di loro, le Kaaterskill Falls, uno dei soggetti poetici di entrambi. Il quadro, Kindred Spirits, prende il titolo da un sonetto di John Keats. Artisti in mezzo ai boschi, l’assoluto individuo nell’assolata solitudine, quasi che il corpo nasconda un lupo, una cateratta di falchi, la nemesi. Tutto questo può farci sorridere se pensiamo che Manzoni aveva già scritto I promessi sposi, William Turner aveva già dipinto Snow Storm, Chateaubriand era morto da poco lasciando ai posteri le testamentarie Memorie d’oltretomba e di lì a poco Baudelaire avrebbe pubblicato I fiori del male. Ma è questa – un vento che sa di primo giorno del mondo, di infinita novità – l’America.
Gli ultimi anni della sua vita, William Cullen Bryant li impegnò nella sua – dimenticata – traduzione dell’Iliade. Il nuovo mondo incatenato al vecchio mondo, all’egida del mito. Si sentiva Achille.
**
Thanatopsis
A chi ha affinità con la Natura
ed è in comunione con le sue visibili
forme, lei parla una lingua variegata; nelle
più allegre ore ha voci di gioia, sorriso
ed eloquente bellezza, trapassa
in più oscure riflessioni con lenta
e accorta simpatia, smussa ogni
asperità prima che tu te ne accorga. Quando
il pensiero dell’ultima ora ti assale come
una piaga a marcare lo spirito e tristi immagini
di strepitosa agonia, il sudario e il drappo,
il buio che mozza il fiato, la casa che ti si chiude
addosso, ti gelano il cuore e ti avvelenano,
muoviti verso i cieli aperti ed elenca
le magnificenze della Natura: tutto, ovunque –
la terra con le sue acque e i vortici nell’etere –
ti parlerà con voce ferma – pochi giorni ancora,
e il sole che tutto vede non ti vedrà più:
né la fredda terra su cui è germinata
la tua pallida ombra, ingioiellata di lacrime;
la tua immagine sparirà dalle braccia
dell’oceano. La Terra che ti ha nutrito reclamerà
una nuova nascita e che tu risorga ancora dal fango;
persa ogni umana traccia, arreso l’essere
individuale, svanirai mescolandoti per sempre
agli elementi, fratello della roccia insensibile
e dell’oziosa zolla che il villano rivolta
con sgarbo e calpesta. La quercia irradierà
le sue radici perforando il tuo calco.
Per te non esisterà alcun riposo eterno:
resterai il solo – e non potresti desiderare
più magniloquente tana. Giacerai
con i patriarchi del mondo infantile – con i re
potenti della terra – i saggi, i santi dalle aggraziate
forme, i canuti veggenti delle passate ere
riassunti ora nel sepolcro. Le colline, crestate
rocche e antiche quanto il sole – le valli
avvolte da una quiete inquieta; i venerabili
boschi – fiumi che si srotolano pieni
di maestà e ruscelli arsi dal rimpianto
che fanno verdi i prati; e tutto intorno
il malinconico desolato grigiore dell’oceano –
non sono nient’altro che le solenni decorazioni
dell’immensa tomba dell’uomo. L’aureo sole
i pianeti, l’infinita legione del cielo,
splendono sulle tristi dimore della morte
tra gli statuari bivacchi dei secoli. Ciò che
calpesta il globo non è che una iniqua tribù
tra quelle sorte, sonnambule, dal suo seno. Afferra
le ali del mattino – percorri il deserto di Barca
oppure perditi nei consecutivi boschi
dove scorre l’Oregon e non si sente suono
oltre i suoi bisbigli: eppure i morti sono lì,
a milioni in quelle solitudini, da prima che
la picchiata degli anni iniziasse, deposti
nel loro ultimo sonno – i morti regnano da soli, lì.
Così riposerai – morire inosservato dai vivi,
senza alcun amico a testimoniare della tua
fine non è forse bello? Tutto ciò che respira
condivide il tuo destino. Chi è allegro riderà
della tua morte: la solenne cucciolata delle
preoccupazioni arranca e tutti inseguono
il loro fantasma prediletto; ma svaniscono
allegrie e occupazioni: tutti rifaranno
il letto insieme a te. Il lungo treno dei secoli
sfila al tuo fianco: i figli degli uomini
il giovane nella verde primavera della vita, e chi se ne va
nel pieno delle forze, la matrona e la ragazza,
quello piegato dall’età e il bambino in una culla
di sorrisi, reciso nell’anno innocente – uno per uno
raccolti al tuo fianco, a loro volta ti seguiranno.
Vivi, dunque, e quando arriverà la chiamata
unisciti all’innumerevole ciurma che si muove
verso i pallidi regni dell’ombra, dove ciascuno
porterà la propria stanza nelle silenti aule della morte;
non andare a servaggio per la cava notturna
scoraggiato dalla prigionia, ma fiero e sereno,
con una fiducia incrollabile, avvicinati alla tua tomba
come chi sistema il lenzuolo del proprio letto
e vi si sdraia pronto a fare meravigliosi sogni.
*
Giugno
Ho fissato il glorioso cielo
e la mascella dei verdi monti intorno
e ho pensato a quando giacerò
per sempre nella terra:
“Sarebbe bello che nel florilegio di giugno
quando i fiumi fluiscono con melodie
di gioia, la mano del sacrestano forgi
la mia tomba, dilati il verde prato.
Una cella nel fango glaciale
la bara trascinata nel nevischio
arricchito da cubi di ghiaccio
mentre feroci ritmano le tempeste –
no – non voglio pensare a questo –
sia blu il cielo e dolce il vento
la terra fertile sotto i piedi
e l’umido stampo affondi docile
nel mio angusto riposo.
Nelle vaste, infinite ore d’estate
la luce dorata coverà al mio cospetto
e l’erba e milizie di fiori
esatte nella loro bellezza.
Il rigogolo racconterà la sua storia
d’amore sopra il mio sepolcro;
l’oziosa farfalla
si poserà per ascoltarlo
insieme all’ape massaia e al colibrì.
Ascolterò le allegre grida
di mezzogiorno che invitano al villaggio
i canti delle ragazze alla foce della luna
mediate da fatali risate.
Nella luce serale
i promessi sposi cammineranno
poco lontano dal mio sepolcro.
Che magnifiche scene: nessuna tristezza
allarmerà la mia vista.
È vero: non vedrei più il glorioso
spettacolo della stagione estiva
e non brillerebbe per me il suo
cristallo, né i suoi selvaggi richiami;
eppure, intorno al mio lungo sonno
bivaccherebbero gli amici, senza
allontanarsi troppo. Canti, luci
e fioriture cresceranno sulla mia tomba.
I loro cuori, ammorbiditi, sopporteranno
il pensiero di ciò che è stato
parlando di chi non può più
commentare ciò che vedono;
ormai parte di tutto lo sfarzo
che riempie il cerchio degli estivi colli
la tomba aureolata di verde;
i loro cuori saranno felici perché
in ogni cosa ascolteranno la mia viva voce”.
William Cullen Bryant