“Non mi facevano entrare neanche nei camerini”. Giuliano Scabia, un poeta a teatro
Teatro
Franco Acquaviva
Nel “Poets’ Corner”, a Westminster, che è poi la carta d’identità del popolo inglese, tra Charles Dickens, William Blake, Lewis Carroll, le sorelle Brontë e T.S. Eliot, tra John Keats e John Milton, Wilde e Wordsworth, all’ombra del Bardo, Shakespeare, una vasta, dolente lapide raccoglie sedici “War Poets”, i più rappresentativi. È vero: il marmo non sanguina, e i poeti non sono un plotone – semmai, una comunità. Il segno, però, è possente: vedere l’insieme insegna che la morte, bastarda bendata, uccide indiscriminatamente, che al suo cospetto siamo tutti larve, spettri, ombre di qualcosa di appena nato. E poi: è il segno della guerra senza trionfo, del macello che inghiotte elmi, divise, identità – morte che pareggia ogni corpo, a unsoffio dall’anonimo errante. Edmund Blunden, tra i nomi incisi nel marmo, servì presso il Royal Sussex Regiment neppure ventenne; fu il primo a raccogliere in un’antologia ragionata i testi dei “War Poets”: morì segnato, plurisettantenne, nominato un paio di volte per il Nobel, dopo aver occupato la cattedra di Professor of Poetry a Oxford.
Dapprincipio, il “poeta di guerra” – anzi, in guerra – fu un artificio politico, quasi un sopruso. Rupert Brooke, arruolato nella Royal Naval Volunteer Reserve, era poeta di sentimenti incerti, dai minimi sussulti quotidiani, di astri e uccelli, amico di Henry James e di Forster, profilo à la Keats. Morì di setticemia nell’aprile del 1915, su una nave ospedale francese ormeggiata nell’Egeo: Winston Churchill, sul “Times”, firmò un necrologio in cui esaltava l’impegno dei giovani inglesi in guerra; l’occasionale poesia di Brooke, The Soldier (“Se dovessi morire, pensate solo questo di me:/ C’è un angolo di un campo straniero/ Che sarà per sempre Inghilterra…”), fece il resto, corroborando il mito.
La generazione dei poeti conficcati in trincea passò presto dal vassallaggio della gioia, dai vessilli issati per la patria, al disincanto. Wilfred Owen – il più rappresentativo tra i “War Poets”, e l’unico tradotto, pur svogliatamente, in Italia – dà del fronte una descrizione dantesca (“è il luogo eterno del digrignamento di denti”, scrive in una lettera), il suo rigore è violento: “Quali campane a morto per costoro che muoiono come bestie?”, attacca in una delle sue poesie più note, Inno per la gioventù condannata. Morirà sul fronte, in Francia, ai primi di novembre del ’18: nelle fotografie ha lo sguardo smaliziato, spesso sorride. L’amico Siegfried Sassoon, che lo aveva incoraggiato a scrivere, invece, sopravvive. Audace soldato nel corpo dei Royal Welch Fusiliers, sodale di Robert Graves – conosciuto anche lui al fronte, dacché questa è anche la storia di amicizie perdute – incita, nel 1917, a disertare, perché “credo che questa guerra sia deliberatamente prolungata da coloro che hanno il potere di farla cessare”. Rischia di essere processato dalla corte marziale, raffina i suoi versi in una sorta di ironia nera (“a guerra finita e con la gioventù morta stecchita/ tornerei sgambettando a casa e morirei – nel mio letto”).
La raccolta di War Poets curata da Paola Tonussi, finissima anglista, per le Edizioni Ares, è fondamentale perché sana un’incuria tutta italica: la maggior parte di questi poeti, spesso grandi, è una muta di spettri, legione lirica sconosciuta su questi lidi. Soprattutto, il libro è un repertorio di storie, non di rado strazianti: quella di Isaac Rosenberg, pittore di talento, discendente di ebrei russi, che muore nel 1918 centrato da un cecchino, è sepolto in una fossa comune; le sue poesie sono un rogo di spine (“Il cervello di un uomo è schizzato/ Sul viso del barelliere…/ L’anima che stava annegando era ormai affondata troppo in profondità/ Per la tenerezza umana”). E poi c’è Charles Hamilton Sorely, che dopo gli studi a Oxford si arruola volontario nel Suffolk Regiment e cade in azione, nella Battaglia di Loos, è l’ottobre del 1915, un cecchino tedesco gli squarcia il volto; è autore di poesie di radiante potenza, come questa:
“Quando vedrai milioni di morti senza voce
In pallidi battaglioni passare nei tuoi sogni,
Non dire, come altri han fatto, dolci frasi
Che ricorderai. Non ti è richiesto.
Non lodarli. Sordi, come potrebbero capire
Che non sono maledizioni addensate sul loro capo ferito?”
E poi ci sono i poeti sopravvissuti, ma per sempre ulcerati. Robert Graves, che prima di occuparsi di miti greci e di dee bianche, dopo aver prestato servizio nel Royal Welch Fusiliers scrive un ruvido resoconto di guerra, Addio a tutto questo (lo ha stampato Adelphi nel 2016). E poi c’è Richard Aldington, intellettuale dandy, passato dai fasti imagisti e dall’amore per Hilda Doolittle, amico di Eliot e di Pound, al fronte occidentale, con la divisa del reggimento pioniere 11th Leicestershires: scriverà romanzi giudicati un tempo notevoli – Morte di un eroe, La figlia del colonnello, Un vero paradiso, passati per Mondadori – e una maliziosa biografia di T.E. Lawrence, che prese per un mitomane dalla sessualità confusa. E c’è Laurence Binyon, responsabile del reparto di stampe orientali del British Museum – che galvanizzarono l’esotismo di Pound e di Yeats –, troppo vecchio per il fronte, che si offre negli ospedali britannici in Francia, commosso dal sacrificio dei giovani inglesi, a cui dedica un’ode For the Fallen.
I War Poets – così come li leggiamo nella rassegna allestita dalla Tonussi – sono la svolta della poesia inglese (e dunque, occidentale). La statura del linguaggio – che mescola altezze metafisiche al gergo da trincea, le stelle all’urina, l’onore alla fine di tutte le utopie – è il concime da cui nasce il primo Eliot, quello della Terra desolata, e l’Auden di The Age of Anxiety. In trincea, in qualche modo, la poesia, drammaticamente, muore; per risorgere, concreta, clamorosa, ‘moderna’. Se prima i morti apparivano in sogni shakespeariani, tra rovine romantiche, da ora gli si dorme al fianco, li si dissotterra, dell’anima si anatomizzano le viscere, i lividi scarti.
Un buon esercizio sarà leggere la raccolta dei War Poets insieme all’“antologia dei poeti italiani della Prima guerra mondiale” curata da Andrea Cortellessa per Bompiani come Le notti chiare erano tutte un’alba (2018): una svolta lirica analoga accada nella poesia nostra. L’epoca di Carducci e di Pascoli – ma anche del fosforico Marinetti – lascia sfogo alla parola di Ungaretti, Rebora, Piero Jahier, Bontempelli. La Seconda guerra non avrà effetto così dirompente in letteratura: è ormai il dominio del cinema di massa.
Proprio dove l’uomo muore, avviene la poesia: non sana, non salva, epigrafe sulle briglie del tempo – garantisce la continuità, apre una porta nella notte, raffina il fuoco.
Esiste davvero la categoria “War Poets”? Intendo dire: fino a che punto quella di War Poets è un’etichetta, per così dire, ‘politica’ prima che estetica, ideata per fini di ‘motivazione’ bellica?
Edmund Blunden, che cura la prima raccolta dei War Poets, lo dice chiaramente: la definizione è “più conveniente che precisa”, serve a riunire i molti poeti andati in guerra ma non necessariamente a delimitarli con chiarezza. A combattere ci sono andati infatti poeti che già scrivevano e avevano pubblicato, e poeti che la guerra ha portato alla luce. War Poets è piuttosto un contenitore lirico per accomunare “chi era lì”, “chi c’era” e ha visto, ha vissuto, ha voluto testimoniare in poesia. Oltre quelli selezionati ce ne sono tantissimi altri, a cominciare dallo stesso Blunden, e Alfred Edward Housman, Etwart Alan Mackintosh, Ernest Rhys, solo per citarne alcuni. Perciò la definizione rende, anche visivamente, l’immagine del poeta che è anche soldato, ma resta molto ampia.
Una ‘motivazione’ bellica mi pare più sfumata, in parte perché quando partono per il fronte questi ragazzi sono tutti isolati e, tranne rare eccezioni (come l’amicizia di Sassoon con Owen e Graves), ognuno di loro vive e scrive da solo, in parte poi perché s’inizia a chiamarli War Poets in seguito, quando ci si accorge che sono stati in molti coloro ad aver trovato forza e tempo per prendere la penna in mano e scrivere al fronte o tra uno scontro e un altro. Allora War Poet diventa una sorta di lasciapassare per l’inaudito del conflitto. La consacrazione ai War Poets è comunque nei cuori di chi continua a leggerli, nella memoria di chi li ricorda, negli onori loro tributati nella grande cattedrale di Londra.
Quale tra i War Poets risponde davvero alla categoria, è poeta che ha fatto della guerra il proprio tema lirico dominante?
Sicuramente Siegfried Sassoon, Isaac Rosenberg e Wilfred Owen: la guerra ha agito su di loro da catalizzatore di un contenuto lirico, e con la volontà di parlare della guerra vera ai connazionali a casa ha fatto emergere uno stile, distintivo, netto: l’ironia violenta di Sassoon, il lirismo tragico di Owen, il tremendo vissuto di Rosenberg. Quest’ultimo è già militare, quando l’Inghilterra entra in guerra, ma le trincee sbozzano la materia atroce dei suoi versi nell’eterno. Wilfred Owen, che inizialmente è incoraggiato da Sassoon a scrivere, in pochi mesi trasforma il ragazzo che leggeva Keats e i romantici in una delle voci più potenti e rappresentative del dramma bellico. Sassoon, l’unico a sopravvivere alla guerra, di guerra continuerà poi a scrivere, della sua disumanità, dei reduci, dell’inconciliabile distanza tra i soldati al fronte e i politici, la propaganda e le varie autorità in Inghilterra. Per tutti e tre la guerra resta il fulcro di una poetica, l’urna in fiamme presso cui tutti s’inginocchiano.
Fino a che punto i War Poets hanno creato, consapevolmente o meno, la poesia inglese ‘moderna’?
Di certo hanno contribuito molto a delinearne il cammino: questa poesia segna non solo il confine tra il “mondo di ieri” e l’esordio della modernità, ma anche un cambiamento, una svolta – necessari, inevitabili – di registro e di stile: c’è un universo tra Kipling, che pure denuncia la tragedia alla morte del proprio figlio, e il passo poetico di Rosenberg o di Graves. Da un punto di vista concettuale, d’immagini e stilistico il salto è enorme. Sì, la poesia moderna nasce forse proprio qui, nel fango delle trincee, bagnata dal sangue delle schiere di morti, i “milioni di morti senza voce” che “in pallidi battaglioni” passano nei sogni di chi non è con loro, come nella poesia di Ivor Gurney. Quando Owen dice di vedere Dio tra il fango, e di percepire bellezza nelle imprecazioni dei compagni, quando la paura porta il cuore di là da ogni speranza e il cielo è il solco di uno sparo, i versi di questi poeti sfondano la porta del futuro. Penso anche a Graves, che dipinge a volte quadri surrealisti di estrema economia lirica: “e il rosso bagliore del tramonto/ Fu sangue sul suo capo, mentre si attardava” nell’Ultimo appostamento.
Oppure sto pensando a Harold Monro, che ha avuto il merito di fondare la Poetry Bookshop, intorno alla quale ruotavano molti poeti e scrittori (pubblicati o ospitati dallo stesso Monro). Lui descrive il corpo in decomposizione di un soldato – “Adesso è chiaro cosa sei. La testa ti è caduta/ In un solco arato” – ma lo fa con lingua colloquiale, quasi parole dette a mezza voce in un lieve commento di paesaggio, tanto che il tema terribile si alleggerisce, fino a unire il corpo a fiume e campi, identici forse a quelli sognati anche da Rupert Brooke: il riposo “in un angolo di campo straniero che sarà per sempre Inghilterra”, nella pace finale.
Come mai l’opera di questi poeti, tanto centrale nel canone anglofono, non è ‘passata’ in Italia, salvo sporadiche eccezioni (Wilfred Owen, per esempio)?
Nel canone inglese i War Poets sono onorati e, come dici giustamente, incuneati nel canone – da cui le continue pubblicazioni di collane, raccolte, antologie. Da noi, forse, sono rimasti alle soglie del corpus studiato tra le due guerre perché dopo la straordinaria mareggiata romantica e i vittoriani – Tennyson e Browning e quindi Hopkins –, si tende anche a scuola a ‘inserire’ i poeti della Prima guerra mondiale accanto ai georgiani, per poi passare a Yeats ed Eliot, i pilastri del primo Novecento. Tralasciando il fatto che invece in Inghilterra la linea ideale va dai romantici, tocca i War Poets e arriva a Auden, Day Lewis, MacNeice, Larkin e i contemporanei. Per lo stesso motivo da noi si studia moltissimo Eliot e meno Auden quando, al contrario, nel canone inglese Auden ha un posto del tutto privilegiato. Nell’insieme però mi pare ci sia un rinnovato interesse per questi poeti e spero che la splendida traduzione di Owen firmata da Luca Manini (La Finestra, 2020) ne porti altre, magari la traduzione completa di Sassoon, di Gurney o di Rosenberg.
Che differenze possiamo tracciare, a tuo avviso, tra i ‘poeti di guerra’ inglesi e quelli italiani (Ungaretti, Rebora, Jahier…)?
È sempre difficile fare paragoni tra poeti, ciascuno di loro è una foglia di un’immensa, secolare quercia shakespeariana. Ma Ungaretti scrive tra i suoi versi più celebri, Soldati – “Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie” proprio al fronte francese nel 1918: ecco, direi che gli inglesi non disossano il verso come lui, mantengono comunque la ‘rotondità’ della prosodia. La “lezione di cose” di Jaher mi pare vicino a tratti alla “pietà distillata dalla guerra” di Owen: il soldato italiano che “rigira tra le mani la vita/ giocattolo infranto” e respira “il soffio di un forte che muore” ha più di qualcosa in comune con gli “strani incontri” dell’inglese e i suoi caduti “dagli occhi di ghiaccio”, così come ritrovo analogia di vicinanza umana tra quei soldati e gli alpini di Jaher, molti dei quali non vanno in guerra per la storia d’Italia o qualche gloria, ma per essere con “questo popolo digiuno/ che non sa perché va a morire”. Vicino a chi, con la propria vita, strappa la maschera alla “vecchia menzogna” oweniana.
Con Jaher, Rosenberg condivide conoscenza e riferimenti alle storie bibliche, e sempre con l’orrore quasi surrealista descritto nei versi di Rosenberg ha a momenti assonanze inaspettate Rebora: sto pensando a poesie come Viatico e ancora di più a Voce di vedetta morta – “C’è un corpo in poltiglia/ Con crespe di faccia, affiorante/ Sul lezzo dell’aria sbranata” –, dove ci sono evidenti similarità tematiche con La discarica dei morti di Rosenberg, un analogo uso crudo delle immagini, stridori di crudeltà a rievocare l’efferatezza della guerra. Rebora vive poi la stessa esperienza di shock da granata di Owen: ma mentre Owen, che rimane intrappolato giorni in una trincea bombardata con i resti di un amico morto accanto, torna al fronte a morire, Rebora rientra alla vita civile con difficoltà, la mente sconvolta dalla guerra, l’ennesimo Septimus Warren Smith vittima di quanto ha attraversato.
Quale tra questi poeti più di altri ti ha emozionato?
Mi hanno emozionato profondamente, e commosso, tutti quelli raccolti e altri che per motivi di spazio non sono stati inclusi. Di tutti, in modo diverso, mi ha colpito la dignità nel dolore, l’ardua capacità di contenere la sofferenza, la schiettezza a volte brutale. Se però devo sceglierne uno, allora direi Owen: risuonano nei suoi versi echi di altri poeti che amo, i romantici in particolare, in lui la visione della sofferenza umana solleva l’esperienza personale all’universale con dolente naturalezza, quasi già mondata della pula dell’esistenza. Owen sa condividere paura e disperazione, oscure regioni comuni ogni uomo, e mentre fa poesia intrecciando in dolce ossessione il “duro filo spinato della guerra” tocca il cielo, ne fa una volta comune e riscatta quella disperazione. Racconta la storia di “coloro che si sono avventurati ai confini dell’esistenza”, scarponi ai piedi, l’abisso delle trincee per casa. E oggi noi leggiamo le sue poesie perché il suo zaino, restituito ai genitori il giorno dell’armistizio, conservava miracolosamente il taccuino del figlio poeta, morto mentre combatteva l’ultima battaglia prima del cessate il fuoco. L’ultima poesia compiuta, Offensiva di primavera, non ha fatto nemmeno in tempo a rivederla.
Estrai una poesia rappresentativa dalla raccolta. E giustifica le ragioni della tua scelta.
È Exposure, Assideramento di Owen. Ne riporto alcune strofe
Ci duole il cervello, sotto gli impietosi venti dell’est che ci accoltellano gelidi…
Esausti ci teniamo svegli perché la notte è silenziosa…
Bassi razzi cadenti confondono in noi il ricordo del saliente…
In ansia per il silenzio, sentinelle bisbigliano, curiose, nervose,
Ma non succede nulla.
Vigiliamo, sentiamo raffiche folli che a tratti assaltano il filo spinato,
Come strazianti agonie di uomini che muoiono tra i suoi rovi.
Verso nord, incessante, rimbomba a lampi l’artiglieria
Lontana, come voce smorzata di un’altra guerra.
E noi, cosa facciamo qui? Il penoso squallore dell’alba inizia a salire…
Sappiamo solo che la guerra continua, la pioggia infradicia e calano nuvole burrascose.
Adunando a est il suo esercito malinconico l’alba
Attacca di nuovo schiera dietro schiera intirizzita di grigio,
Ma non succede nulla.
Improvvise continue raffiche di proiettili screziano il silenzio,
Meno letali dell’aria che rabbrividisce nera di neve,
Con fluenti fiocchi obliqui che s’addensano, si fermano, ricominciano;
Li guardiamo vagare nell’indifferenza del vento,
Ma non succede nulla.
Fiocchi pallidi dalle guardinghe dita scendono a tastarci in viso –
Ci appiattiamo nelle buche, stesi su sogni dimenticati, e abbacinati dalla neve fissiamo
Dentro fossati più erbosi. Così ci assopiamo, storditi dal sole,
Coperti di fiori che stillano dove zampetta il merlo.
Stiamo forse morendo?
Lenti i nostri fantasmi si trascinano verso casa…
L’eco keatsiana all’Ode all’usignolo del primo verso fa vivere al lettore il passaggio cruciale dalla notte, silenziosa in modo innaturale, all’alba: un’alba grigia, dove in sottofondo si sentono spari d’artiglieria, più vicino frusciano parole di sentinelle spaventate e raffiche di vento gelido. Immobili, quasi disumanizzati, i soldati li sferzano folate di vento spietate, che hanno quasi preso il loro posto di esseri umani e tirano e vanno a sbattere contro il filo spinato, “come strazianti agonie di uomini” che vanno a morire “tra i suoi rovi”: lo stesso filo spinato sembra aver assunto una forma di vita vegetale, mentre gli unici esseri viventi della scena, i soldati, sono ridotti a semplici astanti, osservatori passivi o persino oggetti. Anche i fiocchi di neve che cadono, si ammassano di lato, si raccolgono e poi si spostano sembrano avere più vita.
Quella che segue è la strofa strepitosa che ribalta completamente l’intero componimento: in quattro versi i soldati e noi lettori siamo trasportati altrove, dalla trincea gelida e il cielo solcato di spari alla luce tiepida di un paesaggio assolato, che prelude forse ad altro. I fiocchi di neve antropomorfizzati – per inciso anticipano quasi le “arie maligne d’inverno” della Woolf in To the Lighthouse – arrivano “furtivi”, invadenti, a toccare i volti dei soldati. Che in una sorta di recessione a uno stato animale o vegetale tornano alla terra, si rifugiano nelle “buche”, scavate sui lati delle trincee per salvarsi in caso di crollo per una granata, un ordigno e lì si assopiscono, “in sogni dimenticati”. In quei sogni non si trovano più tra il fango, il freddo e il gelo di Francia, ma in fossati diversi lontano da lì, dove l’erba è fitta e il sole batte con dolcezza su occhi e viso, in pendii forse di casa, forse di un oltre vita. Sono coperti di fiori, lì vicino canta il merlo.
L’uccello simbolo anche di rinascita, che canta all’alba e al tramonto e aiuta i vivi a comunicare con il mondo ‘altro’: la resurrezione invocata da Britten nel suo War Requiem, quando v’inserisce i versi di Owen.