31 Maggio 2022

“È difficile stare dietro a Walt Whitman: ci supera continuamente...”

Che paradosso: tutti cominciarono a omaggiare Walt Whitman quando il poeta era fiaccato dalla paralisi. Il genio erotico, il geniale vagabondo, il saltuario eroe della guerra civile narrata in Drum-Taps, era grumo di carne inerte – o quasi –, il bardo sugellato dalla carrozzina più che dal trono, dall’infermità prima che dall’aureola d’alloro. La generica incomprensione, le accuse di oscenità, il licenziamento disposto, dopo una manciata di mesi, nel 1865, dal bigotto Secretary of the Interior, il senatore James Harlan, la barba bianca, oceanica, i moti parziali, epigrafici, conferivano a Whitman un profilo omerico, una profondità ineffabile. La paralisi, caduta nel 1873, in qualche modo, lo giustificava e fece di WW un santo, il fulcro dell’identità nazionale, e la casa di Camden, New Jersey – prima ospite del fratello George, poi al 28 di Mickle Street – l’ombelico del mondo, il rifugio dei reietti, preda di colloqui estremi, un Eden in restauro. D’altronde, ha scritto Harold Bloom, “Whitman è al tempo stesso Adamo e Cristo, il Vecchio Adamo e il Nuovo… è difficile stare dietro a Whitman: ci affianca e ci supera continuamente… Nessun altro americano è, come lui, un poeta universale, che sopravvive alle traduzioni e alle revisioni radicali”.

Intanto, Foglie d’erba, la raccolta leggendaria, pubblicata nel 1855, era all’ennesima edizione: in Inghilterra l’esuberanza del poeta era apprezzata più che in patria, “ma non ho mai rimpianto il mio percorso in solitaria”. Nel 1882 era sbarcato a Camden perfino Oscar Wilde: la stampa andò in delirio:

“Penso che il Signor Whitman sia uno degli uomini più meravigliosi ed energici che siano mai vissuti. Di certo, è l’uomo più umile e potente che abbia mai incontrato in tutta la mia vita. Eccentrico. Non lo è. Impossibile giudicare i grandi uomini con il metro delle convenzioni banali”.

Oscar Wilde

Wilde lo chiamava “venerabile uomo”; gli snodò la barba, preferirono il vino; l’esteta si stupì della casa sobria, ruvida, in cui viveva il poeta. La povertà, una costante nella vita di Whitman, aveva tratti solari.

Il viavai dei giornalisti – Whitman ricordava ogni volta di essere stato un loro “collega” in gioventù: nel 1838, controvoglia, aveva fondato il “Long Islander News”, giornale di Huntington che esiste ancora oggi, tirato in 7mila copie, con il faccione di WW e il logo founded by Walt Whitman – divenne folle, il “Walt Whitman Archive” registra, nel 1885, nove interviste pubbliche. A Whitman, poeta-profeta, oracolo nazionale, si domandava di tutto: nel giugno del 1886 il “Chicago Daily Tribune” organizzò un incontro con Whitman e Edward D. Cope, paleontologo, poligrafo, cercatore di fossili, “grande erede di Darwin”. Whitman professa la sua fede nel darwinismo – “Credo nel darwinismo e nell’evoluzionismo dalla A alla Z” –, lotta per “una convergenza tra la moderna scienza e la teologia più nobile e profonda”, ritiene che la letteratura, onnicomprensiva, non possa prescindere dagli studi scientifici. Amava ascoltare Giuseppe Verdi; democratico di fatto malsopportava la gagliarda modestia dei politici del suo tempo, credeva nell’individuo e nell’opera comune:

“estrema reciprocità e apertura insieme a libero commercio sono l’unica politica che abbia valore per me”.

In uno dei tanti simposi – organizzato, questa volta, dal “The Evening Telegram”, nel febbraio del 1892 – Whitman chiacchiera con Thomas Eakins, pittore straordinario – che ritrae Whitman nel 1888, tra l’altro – cacciato da diverse accademie d’arte perché affrontava con coscienza estetica, ‘scientifica’ – e voluttà da vampiro – il nudo. Ogni verbo del bardo è raccolto a mani piene, come una rivelazione:

“Per me c’è qualcosa di curioso, di straordinariamente divino nella multiforme individualità che esiste in ognuno di noi”.

Una vasta selezione di interviste, dialoghi, confessioni di Whitman, finora inedite in Italia, è stata raccolta da De Piante come Non esiste diavolo peggiore dell’uomo (con un testo di Franco Buffoni, per la traduzione di Émil Ronìn). Il libro ha il primato della freschezza, insperata: le parole di Whitman provengono, sempre, dal primo giorno del mondo, cosmogonia in una stanza, con la finestra verso Ovest, a vetrificare l’orizzonte:

“Un libro deve essere dotato di una spina dorsale che lo tenga unito… Voglio infondere una speranza e una fede più grandi – un ottimismo – sulla vecchiaia. Sono un vecchio scapolo che non ha mai avuto una relazione d’amore. La natura ha ricoperto il ruolo della sposa, con sofferenze da accudire e paesaggi da rivestire di poesia”.

Per altro, il libro offre uno spaccato insolito sulla politica statunitense dell’Ottocento: quando Whitman rievoca la figura di Martin Van Buren, dei “Barnburners” e la nascita del GOP, il Republican Party, ad esempio; o quando commenta le presidenziali del 1884, che vedono la vittoria, per pochissimo, del democratico Stephen Grover Cleveland. Su tutto, in ogni caso, vince lo spirito contraddittorio di Whitman, l’afasia politica, una sorta di caustica leggerezza:

“Mio padre era un carpentiere, aveva ereditato il mestiere. Così, dopo aver smesso di fare il redattore nei giornali, iniziai pure io a fare il carpentiere… Ma un’ape s’infilò sotto il mio cappello e inizia a scrivere. Presto pubblicai Foglie d’erba. Avrei dovuto continuare a fare il costruttore e dedicarmi all’acquisto di terreni. Lo avessi fatto, oggi sarei un uomo ricco. Invece, sono soltanto l’autore di Foglie d’erba”.

In realtà, tutti si cibarono del corpo lirico di Whitman, da Allen Ginsberg a Ezra Pound, da D’Annunzio (“Laus Vitae di D’Annunzio non sarebbe stata possibile senza il Song of Myself del Whitman”, così Mario Praz) a Jorge Luis Borges che dà a Whitman, va da sé, nei Prologhi, un’intonazione borgesiana:

“Innumerevoli sono coloro che hanno imitato, con esito diverso, l’intonazione di Whitman: Sandburg, Lee Masters, Majakovskij, Neruda… Nessuno, salvo l’autore dell’inestricabile e certamente illeggibile Finnegans Wake ha tentato un’altra volta di creare un personaggio molteplice. Whitman, insisto, è il modesto uomo che fu tra il 1819 e il 1892, e quello che avrebbe voluto essere e non finì di essere, e anche ciascuno di noi, e di quelli che abiteranno il pianeta”.

Gli studi sull’opera e la vita di WW, va da sé, diventarono un genere letterario autonomo. Edward Carpenter, poeta, filosofo, utopista, socialista, promotore della Fabian Society, tra gli accoliti a Camden, per dire, fece di Whitman il Mosè della liberazione sessuale: “Diceva di essere un appassionato amante dell’umanità… Non ci sono dubbi sul fatto che Walt Whitman fosse prima di tutto un amante del Maschio. Il suo pensiero si rivolge per lo più agli Uomini, e non serve dissimulare questa ovvietà” (in: Some Friends of Walt Whitman. A Study in Sex Psychology, 1924).

Secondo Bloom, l’opera di Whitman va sfrondata dalle evidenze, dalle occasioni, da chi tira il bardo per la giacca facendone un mulo per il proprio singolare mulino: “in realtà, Whitman è un poeta ermetico, esitante e intimo, e più difficile di quanto lui stesso si proclamasse”. In qualche modo, è la stessa conclusione cui arriva Giorgio Manganelli, in un celebre scritto:

“Il temperamento oratorio, la predilezione per le iterazioni, il vocativo, i cataloghi, il misticismo turistico esclamativo, la paesaggistica esemplare… tutto ciò può nascondere la qualità segreta, clandestina, più sussurrata, da complice, che non sommessa, la squisitezza sonora dei fiati, i fremiti, i brividi, i misteriosi trapestii, i rapidi sussulti, gli indizi, hints, incantesimi, scongiuri, nomi di uccelli, nomi indiani, obi”.

Già, per lo più Whitman era un mago. Un suo autentico discepolo, Carl Sadakichi Hartmann, ha scritto un memorabile memoriale di Conversations with Walt Whitman, compiute lungo l’arco di una vita. Infine, “Le critiche, gli abusi, le calunnie che lo avevano tormentato, si ammutolirono; tutti venivano a congratularsi con lui, a tributargli grandi elogi. E il grand’uomo si guardava intorno, sorpreso, si sentiva pio, clemente, perdonava tutti…”. Le ultime parole di Whitman riguardano un nodo di nubi – “Ora è nuvoloso, forse passerà” – e il discepolo lo descrive “come un giorno d’estate lungo i campi, all’aperto, o sull’oceano”. La vastità è il carisma del poeta, un pulviscolo di scintille, ti taglia le labbra e ne fa ridda di amuleti.  

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