07 Giugno 2024

“Per amore dei fiori sono stato spinto a errare”. Waldemar Bonsels, il vagabondo che inventò l’ape Maia

Benché i cartoni animati giapponesi siano passati di moda, un po’ tutti sono cresciuti ammirando le avventure dell’ape Maia. La serie, creata in Giappone a metà degli anni Settanta, arrivò su Rai 2 nel 1980. Alla protagonista, Maia – chi ama i giochi etimologici può associarla ai due significati: illusione (“il velo di Maya” esaltato da Schopenhauer) e bellezza – si affiancano altri personaggi, il fuco Willi, la cavalletta Flip, Tecla il ragno, Kurt lo scarabeo… Il film, dominato da arguta dolcezza, è tratto da un libro per ragazzi dello scrittore tedesco Waldemar Bonsels, Die Biene Maja und ihre Abenteuer, pubblicato nel 1912 a Berlino, e presto tradotto in quaranta lingue. Anche in Italia esiste in innumeri edizioni: l’ultima, del 2019, è griffata Giunti.

Nato nel 1880 ad Ahrensburg, Bonsels passò un periodo della sua giovinezza nelle Indie orientali olandesi; quasi subito scoprì però il genio per la scrittura. La sua bibliografia è sterminata: alla prosa ‘diaristica’, ricca di riferimenti filosofici, alterna il romanzo storico – uno, ad esempio, è ambientato all’epoca di Gesù – e i racconti di viaggio, come quelli compiuti in Brasile o in India; durante la Prima guerra fu corrispondente dai Paesi Baltici. Negli anni Venti, è stato tra gli scrittori tedeschi più noti del continente; così sull’“Enciclopedia italiana” Treccani, nel 1930, poteva scrivere Lavinia Mazzucchetti:

“È uno tra i non molti prosatoti e narratori tedeschi a larghissima penetrazione popolare che serbino notevole livello e dignità d’arte. Rappresenta uno degli aspetti caratteristici della tradizione germanica, così nella sana predicazione del dovere e della bontà come nella forma serena e classicheggiante. Fra le sue opere emerge per la diffusione eccezionale di oltre mezzo milione di esemplari Ape Maja, libro caro ai giovanetti, pervaso da un intimo sentimento della natura. E poco meno fortunati furono i suoi libri di viaggi”.

Il testo che qui traduciamo – per merito di Tommaso Filippucci –, tratto dal ciclo Aus den Notizen eines Vagabunden (1917), inedito in Italia, rivela, appunto, l’indole al vagabondaggio filosofico, alla scrittura meridiana, pellegrina tra ardore e meditazione, secondo la scia, tutta tedesca, che da Goethe va fino a Hermann Hesse. È un linguaggio che non bada ai ‘fatti’ ma al quoziente spirituale, che denuda la vita all’osso primo, al bocciolo di luce.

Siamo nella prima, folgorante stazione di Waldemar Bonsels. La seconda stupirà i più. Waldemar Bonsels, l’inventore della dolce ape Maia, era un antisemita professo. Nel 1933, mentre a Berlino gli studenti infervorati dal nazismo bruciavano i libri “contrari allo spirito tedesco”, Bonsels pubblicava un saggio sulla “schiacciante influenza dell’ebraicità” e sul suo “veleno”. Con la caduta del nazionalsocialismo, a Bonsels fu vietato di pubblicare nelle zone occupate da americani e britannici. Di fatto, aveva finito di essere scrittore da tempo: il propagandista aveva ucciso il poeta, l’oratore politico aveva schiacciato il cantore dell’erranza, della fierezza artistica. Dal 1977 la Waldemar-Bonsels-Stiftung si occupa di custodirne l’eredità letteraria.

Si sposò tre volte, l’ultima un anno prima di morire. Malato da tempo, la fine prese Bonsels nel luglio del 1952; l’urna che ne raduna le ceneri fu sepolta nel giardino di casa. I suoi temi – il rapporto con la natura e con il divino che in essa risplende, l’osservazione dei minuti moti del creato – ne fanno uno scrittore inappagato e indocile, che ha cercato l’armonia inclinandosi al caos.

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Vie dell’uomo. Dagli appunti di un vagabondo, 1921, Waldemar Bonsels 

Capitolo I, Holler

Un giorno, nel corso della nostra vita, d’improvviso, le persone della nostra giovinezza tornano a noi, una dopo l’altra, ognuna alla sua ora, e ci parlano – anche i morti. Non solo nello spirito, come in un ricordo segreto del passato, ma spesso anche fisicamente, di persona, e di solito si tratta di coloro che non solo ci sono stati vicini, ma la cui influenza sulla nostra vita è stata di importanza decisiva. Chi vuole chiamarla coincidenza, fenomeno dell’esistenza transitoria, può farlo; in quei terreni più profondi, in cui le sorgenti dell’essere del mondo sgorgano come una pura inondazione, il significato delle cose si riflette allo spirito intuitivo del nostro amore in connessioni meravigliose e semplici, e la credenza nelle coincidenze si perde di fronte allo splendore che irradia l’immagine del nostro destino correttamente compreso.

Il significato più profondo di questo ritorno sta nel suo avvertimento. È l’ultimo ricordo di un periodo sommerso della nostra vita, richiama la nostra memoria e allo stesso tempo la risveglia, così che siamo costretti a ricercare e confrontare fino a quando non abbiamo riconosciuto quale valore per il cammino della nostra anima ha avuto la parte del nostro corpo che abbiamo percorso. Se siamo affondati o cresciuti, se siamo diventati più ricchi o più poveri, se il nostro cammino è stato rettilineo o ha preso pieghe disastrose e pericolose. Spesso, infatti, misuriamo la nostra crescita o la nostra atrofia con beata o crudele chiarezza dalla natura delle persone che un tempo ci erano vicine e che ora ci appaiono improvvisamente davanti in una nuova veste dopo una lunga separazione.

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Era una di quelle nature mutile, che vivono costantemente sotto richieste esigenti, che non riescono mai ad avvicinarsi a qualcosa che non sia del loro genere e possesso con qualcosa di diverso dal disprezzo critico, e che tuttavia non hanno la forza di soddisfare i loro desideri, spesso fino alla presunzione, in sé stessi e verso gli altri. In questo modo si crea in loro un’inquieta mescolanza di critica e debolezza, di inadeguatezza ed esaltazione, e sebbene tutte le nostre anime non siano certo del tutto esenti da questa dicotomia, c’è una differenza se tale contraddizione interiore ci eleva e ci promuove o se rovina i nostri piaceri puri e lascia dietro di sé l’autoinganno come elemento di un’agonizzante brama di esistenza acquisita.

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Sei così, pensai: quando con una mano offri un favore, con l’altra commini un’umiliazione. Che ne sai del desiderio dei giovani di abbattere tutte le barriere per ricostruire il mondo! Ma sentivo, amaramente turbato, che quell’uomo era proprio dove prevaleva la sua esperienza e dove aveva costruito la sua casa, lui, come Holler e tutti i suoi simili, ai quali mi sentivo legato per necessità e ai quali tuttavia non appartenevo. Ma mi fecero una profonda impressione, perché li ritenevo forti e capaci di vivere, e io debole, e il loro mondo fu la prima esperienza di vita per la mia mente turbata, il mio primo assaggio delle piene del grande fiume. Non ero ancora in grado di misurare l’estensione e il significato di questa sfera di potere, ma la sua struttura goffa e sicura mi intimoriva. Forse la mia vera colpa era quella di non essere ancora in grado di disprezzare niente e nessuno, perché questa capacità di solito nasce solo presto nelle anime basse.

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“Stai cercando lavoro? Cosa sai fare? Cosa sei?”.

“Non lo so”, risposi, “solo il tempo lo dirà”. “Per me è il contrario”, disse serio e scettico, “So cosa posso fare e cosa sono, ma non dovrebbe, a quanto pare, mai farsi vedere”.

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Ora, non credo che un essere umano cambi mai in modo sostanziale, per quanto il suo destino possa prendere forma in modo diverso e per quanto la sua natura possa funzionare in questo o quell’ambiente in circostanze buone o cattive. Quindi, in questo confronto, non è tanto la differenza tra i due fenomeni a catturare i miei pensieri, quanto lo sforzo di cercare i tratti del secondo nella prima immagine e viceversa. L’esperienza che le circostanze della vita possono far passare in secondo piano anche le qualità buone o nobili mi ha occupato nella stessa misura della certezza che un singolo atto di volontà consapevole è in grado di rimodellare non solo il comportamento esterno ma anche quello interno di una persona. 

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Lo squilibrio di una rivendicazione emotiva nel suo ambiente ci lascia spesso con un’inadeguatezza che conosce la via d’uscita solo nella rabbia o nell’irresistibile scherno, perché nessun mezzo ragionevole sarebbe sufficiente a creare armonia. 

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“Vogliamo dare un’occhiata alle api?” chiese improvvisamente Holler, accarezzandosi la barba e alzandosi in piedi. Camminava per la stanza con passo ondeggiante. “Si può imparare anche da loro, sono un gruppo indaffarato e vivace che mantiene l’ordine a modo suo, nella misura in cui gli umani le incoraggiano e danno loro istruzioni.”

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I beni della vita che anni prima mi aveva presentato e raccomandato con entusiasmo non erano stati meno rubati e privi di diritti di quelli che ora rivendicava come suoi. E me li raccomandava tanto più avidamente quanto più voleva farmi credere di possederli davvero. Non stava forse rubando alla società piccolo-borghese oggi come aveva rubato alla strada allora? Faceva ancora lavorare gli altri per lui e valutava tutti gli esseri e le cose in base alla loro utilità. Non controllava forse le sue api in quel modo superficiale che giudica un male la libertà dei sudditi e considerava il rendimento come un proprio merito? Come una volta il suo superficiale sacrilegio del vicolo si era vendicato su di lui con la perdita della sua libertà nella prigionia, così oggi la sacrilega superficialità del suo rapporto con i fenomeni della vita è stata punita con una nuova prigionia; è rimasto penzolante all’esterno di tutte le cose come un insetto in una tela di ragno, che si considera libero perché galleggia, e che non cade solo perché è appeso.

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Capitolo II, Penina

Attirare l’attenzione per strada significa sempre alienazione e diffidenza, nei campi della contesa litigiosa per il vantaggio e il guadagno, che servono solo a placare la fame e i desideri bassi – chiunque si distingua viene considerato nemico della massa, anche solo per modestia o decenza. Forse è il più doloroso obbligo che la vita quotidiana può imporre a chi lotta per la propria esistenza, quello di degradarsi e rendersi volgare per sopravvivere. Quanto più facile è per un’anima misera apparire intelligente e gradevole, rispetto a un essere sensibile che deve negare le proprie pretese e la propria mentalità.

(…)

I chiamati domandano e gli eletti non rispondono.

(…)

La mia fiducia si risvegliava sempre sotto mie umiliazioni come una fiamma da una catasta di rovine, e spesso gridavo fuori, solo tra gli alberi, in fuga: “Io, un compagno straccione per strada, so che il fuoco che mi rende ridicolo brilla più puro nel mondo del debole bagliore delle vostre anime, che vi protegge dal dileggio e dalla paura. Nessuno riderà di voi e nessuno vi benedirà”.

(…)

Ci sono fiori dell’anima che prosperano, fioriscono e profumano solo quando il vento e la luce penetrano attraverso le strisce dello strappo, appassionano sotto seta e pelliccia, e quando mani curate le attendono, i loro calici appassiscono. Per amore di tali fiori sono stato spinto più volte nell’instabilità e nel disordine dell’erranza. Nell’insoddisfazione della solitudine risiede la più luminosa speranza, a uno la voce di Dio risuona nella quiete, all’altro più chiaramente nella tempesta – ci sono anche persone che possono trovare la loro pace interiore solo nella tempesta esterna. A molti si rivela la luce di una delle verità della loro vita dopo lunghe contemplazioni del senso delle apparizioni, ma ad altri si manifesta improvvisamente nelle scosse del loro intero essere: qui un ostacolo si trasforma lentamente in un sorriso gentile, là scende un fiume di lacrime e spazza via le torbidezze dal fondo velato, e a seconda della nostra natura ci attrae il tenue splendore o il flusso ardente.

Ma l’obiettivo finale non è sempre la conoscenza? Insegnatemi diversamente se lo sapete. A me sembrava che ogni nobile lotta nel mondo fosse per la conoscenza, perché in essa risiede la forza del grande sacrificio e la garanzia dell’armonia.

(…)

Non riuscii più a dire una parola, né povera né ricca, rimasi scosso ed impotente nel vento della strada e non pensai a nulla. Solo una consapevolezza mi tormentava fino alla tortura: non riuscirò a farcela, non riuscirò mai a dominare la vita.

(…)

Solo molto più tardi nella mia vita, quando la lotta del pensiero per la grande parola redenzione iniziò in me, Penina tornò e pose la sua lacrima come un chiarore nell’oscurità dei miei dubbi.

Traduzione di Tommaso Filippucci

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