Telefonata. Primo pensiero: ca**o qualcuno ha tirato le cuoia. E io devo usare le cinghie per addestrare il coccodrillo. Intendo. Se telefonano da il Giornale novanta su cento è perché qualcuno è schiattato e hanno bisogno del ‘coccodrillo’ per il giorno dopo. E io devo farmi venire le lacrime giuste e mi devo spaccare il cuore in quattro con la penna come un melone. Alessandro Gnocchi. Lettore di raffinatezza tripla. Stranamente sereno. “Davide, ho letto un libro incredibile”, mi fa. Mi chiede di prendere nota, di farmi una idea. Il libro si chiama Dizionario Gonzo, ha una composizione scenica bellissima, bizzarra – fotografie di Stefano Graziani, cover spregiudicate di Robert Saywitz – lo stampa un piccolo editore di genio, 1000 e una notte. Il libro, in effetti, brilla per la sua assoluta eccentricità, che rasenta gli assurdi: assembla testi straordinari – Cioran, Nietzsche, Piovene – e strampalati – la biografia di Schifano e quella di Giovanni Parisi – redige un repertorio di scrittori stralunati – Eduard Limonov, E.B. White, Francisco Umbral, Gabriel Matzneff – indica volumi dove scorre il sangue e urla la vita. A scriverlo, Carlos D’Ercole, viaggiatore, spavaldo collezionista dei libri che piacciono a lui, avvocato di professione, già autore di una Vita sconnessa di Enzo Cucchi edita da Quodlibet qualche anno fa. “Questo libro glielo invidio molto al nostro diabolico amico, da quanto è raffinato innanzitutto visivamente e pazzoide, e da quanto l’autore se ne infischia di ogni schema culturale”, ha scritto prima di me Giampiero Mughini, ho scoperto dopo. Il pezzo, poi, per il Giornale, l’ho scritto – e ho scritto quello che penso, cioè che i libri sono visioni e avventure, spesso sono più vividi e vivaci di troppi umani ingabbiati in una vita mortificante. Mi sono rimasti però un paio di sfizi. Il primo è dialogare con l’autore, virtuosamente anticonformista. Lo faccio qui. L’altro è prolungare il Dizionario Gonzo all’infinito, rimpolpandolo con i libri che hanno fatto la nostra vita, che sono legati a mirabili malinconie e a volti e a momenti che sono petroglifi nei sogni e a tutte le vite che abbiamo tentato di vivere senza possederle. Su il Giornale ho proposto tre libri che amo. Oggi ne amo altri – domani chissà. Oggi, dico, sono questi: il Moby Dick tradotto da Cesare Pavese ma nell’edizione Frassinelli del 1966 (totalmente bianca, come la balena bianca, era di mio padre e urlava, dal quarto scaffale della libreria, leggimi, leggimi); l’edizione Utet dei Premi Nobel dell’opera di Saint-John Perse, che per me è il massimo poeta di sempre (l’ho cercata tra Torino e Milano, è il libro che leggo quando tutto mi pare perduto perché in uno schiocco di versi passo da un tempio taoista fuori Pechino alla geologia statunitense); le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke nell’edizione Einaudi tradotta da Enrico e Igea De Portu, rubata al mio grande amico Girolamo Melis, che se la faceva leggere, ma in tedesco, da una delle sue belle, ma anche quella in versione spagnola che ho regalato a chi so io, in Argentina; Il colpo di grazia di Marguerite Yourcenar, annotato minutamente per essere donato a una donna piena di luce – i libri pretendono sempre l’intimità del dono o la ferocia della rapina; un disco in cui Giorgio Albertazzi legge le poesie di Boris Pasternak, dono del mio caro amico architetto Fabio Mariani. Ora, fate il gioco anche voi, costruitevi il dizionario gonzo, fitto di golosità bibliografiche. I libri ci mettono drasticamente a nudo (altrimenti non siamo lettori, ma beoti) – Carlos D’Ercole non ha avuto paura dello schianto. (Davide Brullo)
Intanto. Come nasce il Dizionario Gonzo. Soprattutto: che cosa sono per te i libri?
Da tempo cerco in libreria un libro che abbia un perfetto equilibrio fra testo e immagini. I libri d’arte tendono a essere noiosissime monografie con una sequenza infinita e didascalica di quadri appena commentati. I libri strategicamente venduti come “memoir” sono invece autobiografie compiaciute piene di dettagli irrilevanti in cui l’elemento visivo consiste in qualche foto dell’infanzia che sarebbe opportuno tenere nei cassetti. In questa no man’s land in cui vagavo da tempo, pensavo di creare qualcosa di unico, con testi asciutti, senza fronzoli (“I want every sentence to be unskippable” diceva Mark Leyner) e con un tripudio di immagini che mandasse in estasi il lettore, come in Space Odissey di Stanley Kubrick che rivedo in continuazione. Sono stato fortunato ad avere come compagni di avventura in questo Dizionario Gonzo amici storici come Robert Saywitz che stravede come me per Hunter Thompson, Chuck Klosterman, Ben Harper e che quindi sapeva esattamente che copertina e quarta creare. “Design something Gonzo, Robbie”. “I got it Carlos, no need to ask twice”. Stefano Graziani, fotografo pieno di talento che ho avuto la fortuna di conoscere pochi anni fa a Trieste in occasione di un premio in memoria di Bobi Bazlen (tutto torna), viene come Basilico dall’architettura. È uno preparato, riflessivo, di poche parole, che cura in modo maniacale (kubrickiano oserei dire) le sue opere. Mi ha dato filo da torcere perché ama i libri ancor più “ascetici”, in cui comandano le foto, nude e crude, senza accompagnamenti grafici. Ma come sostiene Robert, “Gonzo is not a photography book, it’s a literary trip”. A cucire il tutto il genio dell’editore Aldo Tanchis, allievo atipico di Bruno Munari, che ha mediato fra le esigenze di ciascuno, fedele al suo sogno di realizzare solo libri eccentrici. Tra le mille idee che ha disseminato in Dizionario Gonzo, l’indice nomadico, il formato quadrato e le prove d’artista a fine libro meritano da sole una standing ovation. Per chiudere, i libri per me sono un rifugio dalla noia, dalla routine e una fonte costante di eccitazione. Dal vivo li racconto ancora meglio, fidati.
Il libro a cui sei più affezionato e l’autore che stimi di più – e perché?
Ne ho tantissimi, ma leggo e rileggo (come dice il buon Matzneff) París no se acaba nunca di Vila-Matas, Los detectives salvajes di Roberto Bolaño, La vie mode d’emploi di Georges Perec. Sono libri che traboccano di letture, rimandano continuamente ad altri libri, è un gioco in fondo alla base del mio Dizionario Gonzo, che un amico americano ieri ha definito “a book about books”.
Il libro di cui avresti voluto scrivere ma che hai omesso dal tuo Dizionario Gonzo – e perché?
Scelgo i libri in base al mio stato d’animo, alla voglia di nostalgia che spesso mi assale. Mi piacerebbe prima o poi parlare di Historias del Kronen, che uscì in Spagna nel 1994, il racconto di una gioventù sbandata, un Less than Zero in versione iberica. Mi riporta agli anni della spensieratezza, della mia movida madrileña.
Il libro che ti ha cambiato la vita – e l’incontro che ti ha smobilitato la vita.
Devo dire che i libri continuano a cambiarmi la vita, se pensi che Umbral, Ribeyro e Matzneff che cito in Gonzo sono scoperte degli ultimi cinque anni. Quanto agli incontri della vita, è un sogno per me aver conosciuto di persona Mughini, Isotta, Solinas. Dizionario Sentimentale, La Virtù dell’Elefante, Compagni di Solitudine sono i miei livres de chevet.
Leghi i libri ai luoghi. A che luogo sei più legato?
El barrio de Salamanca a Madrid, la via del Teatro Valle a Roma. Ne parlo in Gonzo.
Il tuo, mi pare, è anche un gesto ribelle a certo conformismo librario attuale. Come giudichi la cultura italiana, oggi?
Il problema non è la diffusione della cultura, è l’assenza di coraggio degli editori. “Sai, il tuo è un libro eccentrico, e poi sei troppo giovane. E le immagini, costano troppo”. Per la gran parte degli editori dovresti scrivere a 80 anni o quando sei sul punto di schiattare. Non a caso nella originaria prefazione avevo scritto che “Dizionario Gonzo è il primo libro postumo di un autore in vita”.
L’ultimo libro che hai comprato: qual è? perché?
Ho ordinato ieri l’autobiografia di Jeff Tweedy dei Wilco. Ho nostalgia di Chicago.