01 Marzo 2018

Vogliamo vivere per sempre, ma “la morte è un richiamo d’amore”: riflessioni sulla fine, tra Federico Fellini, Dj Fabo, Eleonora Bottaro e la crioconservazione

Shelly Kagan, insegnante di filosofia alla Yale University, nel 2017 ha tenuto dei corsi sulla “morte” partecipati da più di 300 studenti, confluiti in un volume e in un video (26 lezioni da 50 minuti) in cui cita Platone, Cartesio, Locke, Hum, Parfit ecc. La morte non è un male, secondo Kagan. Se segna la fine irreversibile, come può esserlo? Della morte, sostiene, non dovremmo preoccuparcene oltre un’intenzione metafisica. Non ho letto Kagan, ma mi sono informato. Non mi pare che il filosofo abbia centrato l’aspetto più interessante della morte, cioè il suo fascino. Con questo non voglio dire che un essere umano arrivi a suicidarsi per amore della morte, ma certamente l’arcano e insondabile mondo dell’aldilà fa scaturire l’immaginazione e un ideale. Sogno e incubo di un paradiso angelico o di un vortice oscuro, di una contrapposizione dialogica. Tutto ciò che non conosciamo scientificamente è un intuito fallace, cioè niente: pertanto materia rovente in mano allo scrittore. Federico Fellini aveva immaginato, come Dante, nel Viaggio di G. Mastorna (un film mai realizzato), la morte e il dopo morte. Kagan elude il potenziale espressivo della morte, alla quale non si può chiedere di più che mostrarsi. Non come macchina che si rompe, ma in un dubbio, in un’ipotesi, in una congettura, in una speranza, perfino in una maledizione o in un atto di fede dal quale non riceviamo mai corrispondenza, adesione.

La paura di morire nasce dalla paura della sofferenza fisica che spesso è il preludio della morte. Non è vero che non si muore soli. La nascita e la morte sono fattori biologicamente individuali. A Kagan sfugge che si muore e si rinasce più volte, come quando ci riprendiamo da un lutto, da un dolore che si sembra insopportabile. La piccola morte costella la vita di ognuno di noi. “Citiamo tanto la morte, maiuscola, quella che conclude in catastrofe la nostra vita. Mai, o quasi, le morti minori, parziali, che consumiamo ogni istante e con sé ci consumano”, diceva Gesualdo Bufalino nel suo Il malpensante.

I filosofi di oggi, spesso, dragano la dimensione surreale e fantastica dell’arte. La dolce fine è un’orchestra che suona, l’incapacità di individuare i morti e i vivi. Fellini vive di interconnessioni terrestri e celesti nell’equilibrio tra vero, verosimile e falso. Penso a Giorgio Caproni che rivede la madre Anna Picchi a Livorno nella raccolta poetica Il seme del piangere: “Seguila prudentemente, allora, e con la mente/ all’erta. E, circospetta, buttata la sigaretta,/ accòstati a lei soltanto,/ anima, quando il mio pianto/ sentirai che di piombo/ è diventato in fondo/ al mio cuore lontano”.

Qualcuno negherebbe a priori, anche tra coloro che credono nella sopravvivenza e nella resurrezione, un morto che assomiglia ad un vivo? E se l’aldilà fosse identico all’aldiquà, indistinguibile? Se ci riconoscessimo tali e quali, come se niente fosse successo, abitanti della stessa terra, ma in una comunità spossessata di materia e sentimenti? Qualcosa che non siamo in grado di comprendere produce senz’altro una creazione. Forse anche le accademie dovrebbero fermarsi, compreso il celebrato Shelly Kagan che sviluppa un processo cognitivo dettagliato, ma temo infecondo.

Ricordo che Cesare Garboli definiva L’isola di Arturo di Elsa Morante un modo durevole di esistere, un’eternità psichica, un’adolescenza infinita. Nel romanzo il morto, procurando dispiacere, è un vigliacco, perché se ne va senza salutare. “Con la morte tutto si spegne e la sola sopravvivenza è la gloria”, dice Arturo, che pensa alle leggende romantiche, agli spettri, ma non a Dio. Fregarsene della morte: si può?

Il 23 dicembre Simonetta Fiori, intervistando su “Repubblica” il britannico Julian Barnes, gli chiede esplicitamente: “Ci si può affezionare al lutto?”. “C’è della verità umana in questo, ma arrivare ad amare il dolore è per me un passo troppo avanti”, risponde l’autore del bellissimo Il senso di una fine (Einaudi 2012), il quale richiamando Montaigne aggiunge: “Solo trascinando la morte dentro la nostra quotidianità evitiamo di rimanerne terrorizzati”. Siamo agli opposti di Elsa Morante e del suo protagonista sull’isola di Procida.

Elias Canetti, nell’anti-teologia contenuta nel suo Il libro contro la morte dato alle stampe da Adelphi nel 2017 (curato dalla figlia), sancisce con fermezza: “Io non accetto la morte e questo è tutto”. In un appunto si trova una frase affilata, un’implorazione: “Non morire”. L’ignoto spaventa, parafrasando lo stesso Canetti, come l’incertezza, l’indifferenza, il non sapere, il dubitare.

Si scrive per non morire, presagendo che il corpo e l’anima non sono il nucleo dell’atomo, ma due parti separate con due destini che non combaciano. La ricerca della felicità passerebbe per l’impossibile: rendere l’uomo immortale, o meglio, artefice della rinascita, più che della resurrezione.

La cronaca ci illumina su ibernazione e infinito. La società Alcor promette il risveglio tra 300 anni: nel frattempo la medicina avrà trovato la cura giusta per la sindrome che ha determinato la morte. Il primo passo, spiegano dall’Arizona, avviene subito dopo la dichiarazione di morte legale del paziente. Vale a dire quando cuore e polmoni smettono di funzionare ma le loro cellule sono ancora vive. Abbiamo l’equipaggiamento che serve perché il cuore batta, così che i medicinali che somministriamo continuano a scorrere e a circolare nel corpo. Una volta che il paziente viene stabilizzato lo si porta in sala operatoria. A questo punto il cuore è incannulato e si sostituisce il sangue con una soluzione vetrificante. Il corpo è pronto per essere trasferito nelle capsule di ibernazione, dove un computer proseguirà il processo di graduale abbassamento della temperatura, finché non si raggiungerà quella dell’azoto liquido, vale a dire -196 gradi centigradi. A quel punto tutti gli atomi smetteranno di muoversi. Il paziente rimarrà al sicuro per il tempo necessario. Alcor è stata fondata proprio con lo scopo di offrire servizi di crioconservazione a individui le cui condizioni di salute vanno oltre quello che l’attuale medicina può fare. I morti sono ibernati in enormi silos, come si trovassero in una fabbrica che tratta materiale biologico o prodotti agricoli. Invece si lavora in un’officina della vita oltre la vita. Il servizio offerto costa intorno ai 200mila dollari. Se la tariffa è troppo elevata, si può crioconservare solo la testa per circa 80mila dollari. Negli Stati Uniti è conservato il corpo di una 14enne britannica, J.S., deceduta per cancro a ottobre, il cui corpo è stato sottoposto al trattamento nientemeno che su ordine dell’Alta Corte di Londra con il consenso della madre e contro il volere del padre.

Accertiamo che l’uomo è sempre meno spirito e sempre più vita terrena. Non vuole arrendersi al passare del tempo, alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, alla fine di tutto ciò che conosce. Vuole restare dove è vissuto, tornarci, ripartire da capo. Che sia questo presupposto a muovere l’accostamento con Charles Baudelaire? Il padre del modernismo sosteneva: “Che importa l’eternità della dannazione a chi ha trovato, per un attimo, l’infinito della gioia?”. È quella gioia momentanea che si vuole stringere e che non si immagina possa essere altrove: imperscrutabile, non a portata di mano. Ma l’uomo non può disporre di tutto, neppure di ciò che è suo.

Il caso viene direttamente dalla cronaca italiana: Eleonora Bottaro muore perché i genitori hanno preferito le cure alternative alla tradizionale chemioterapia per curare la leucemia. Ci si pone di fronte all’evitabilità della morte, all’occasione per ribadire la vita, nonostante un grossolano errore. Per quale motivo i genitori della ragazza hanno sbagliato? Semplicemente per irrazionalità. È irrazionale essere contrari a ciò che viene dichiarato in un protocollo ufficiale di cura. È irrazionale essere alternativi o più semplicemente vittime di un raggiro (è dimostrato che la cura Hamer non ha valore scientifico). Eleonora Bottaro era bella, vitale, ma contro la leucemia non sarebbero mai bastate le cure somministrate in Svizzera a base di vitamina C, cortisone e altri farmaci. La vicenda colpisce perché ci dà la misura di un’uccisione involontaria, quindi di uno strappo colpevole, colposo. I genitori, con la loro imperizia, hanno decretato la morte della figlia pensando che attraverso una manipolazione psichica (il convincimento della rimozione allo shock subito dalla perdita del fratello) sarebbe guarita. Oggi numerose testimonianze, anche letterarie, ci dimostrano che i genitori lottano con i denti per un figlio, che vivono dramma e disperazione alla stessa stregua dei pazienti negli anonimi ospedali dove si cura un tumore.

Tutti i bambini tranne uno (Rizzoli 2008) del francese Philippe Forest è un grande romanzo proprio in questo senso. A rimanere annientati sono i genitori della piccola Pauline. Ad un decesso ne segue un altro, quello dell’amore della coppia. Un’eutanasia soprassiede alla tragedia di un infante perché il padre continua ad abitare “in quel punto del tempo”. Il resto sono parole insistenti, insensate, sontuose, insolenti. Il doloroso viaggio nella malattia sembra un’oscenità, se colpisce i bambini.

Eleonora Bottaro sarebbe potuta rifiorire, avrebbe potuto amare, sposarsi, fare figli. L’accadimento della malattia coincide con lo scandalo della morte. Questa piaga impedirà ciò che sarebbe stato prezioso per la famiglia della giovane: riflettere dolorosamente e lucidamente sulla guarigione come esempio di resistenza psichica e biologica. Non c’è perdono perché non c’è crimine, ma un’imbarazzante ostinazione che fa rabbia. Quando la morte è sciocca è più terribile. Fa sembrare tutto più fragile. Anton Cěchov diceva pungolando: “Perfino essere malato è piacevole quando sai che ci sono persone che aspettano la tua guarigione come una festa”.

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Il suicidio assistito e l’eutanasia; la legge che manca; dj Fabo che va a morire in Svizzera perché la menomazione dalla quale è afflitto non gli consente di fare ciò che vorrebbe, in libertà: non voleva essere un peso per sé e per i familiari e dunque ha scelto di morire. Non si riconosceva più, non si accettava. L’infermità è un condizione che determina il bene e il male sulla propria pelle, un fatto che schianta improvvisamente e che, nel caso specifico, rimane duraturo, una seconda pelle. La lettera di dj Fabo è lapidaria, disarmante: “Mi portano fuori ma spesso non ne ho voglia. Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della mia vita, ora. Fermamente deciso trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia”. Da qui il contatto con l’associazione Luca Coscioni. “Una realtà che difende i diritti civili in ogni fase dell’esistenza dei cittadini. Compreso il diritto sacrosanto di morire. Grazie. Fabiano Antoniani”. Queste parole non fanno comprendere solo che cosa sia la vita per un giovane dinamico, ma anche che cosa sia la morte. Colpisce l’assoluta convinzione che morire rimanga il solo gesto da compiere. L’impressione, però, è che la morte stessa venga vista con occhi diversi. Non come la fine di tutto, ma come un ponte. Leggendo i giornali, le dichiarazioni, le espressioni, i vocaboli usati, quel “sacrosanto morire” mi è parso, paradossalmente, il rovescio per una sottile speranza, un filo che non spezza del tutto il passato. Come a dire che la morte non precipita in un vortice nero, in un buco nell’abisso, ma in una seconda vita. La morte è un mistero da scoprire, una carta da rovesciare: se non c’è speranza qui, la ripresa può sorgere dalle ceneri della Fenice. Non voglio parlare di fede, di resurrezione, di salvezza dell’anima, ma dj Fabo ha espresso la volontà di porre fine all’agonia. Perché il viaggio nell’aldilà sia migliore che rimanere nell’aldiquà, allontanando il tormento? Ha accettato la sfida di chi va a vedere il paradiso di Dante o il nulla, a constatare il monito dei vangeli o l’assenza di ogni cognizione. Dj Fabo è stato un coraggioso, non un vile. Un uomo imperituro, non un arreso. Quando muore un familiare ci auguriamo di poterlo rivedere. Il ragazzo ha anticipato l’oltretempo, il dopo.

Il confronto al Parlamento sulla legge non è tutto. C’è qualcosa che si annida nelle coscienze umane e che non potrà essere estirpato. Il testamento biologico, forse, non è così aberrante per chi lo scrive, per una madre che lo riceve, per una fidanzata che lo legge, per chi è stato la spalla dell’uomo allegro e tenace che suonava e cantava tra la gente. Dj Fabo si è incamminato con temerarietà per una via sconosciuta. Scriveva sapientemente Hermann Hesse: “Il richiamo della morte è anche un richiamo d’amore. La morte è dolce se le facciamo buon viso, se l’accettiamo come una delle grandi, eterne forme dell’amore e della trasformazione” (Lettere, 1895-1962).

Alessandro Moscè

Gruppo MAGOG