In queste settimane in cui veniamo ingozzati di cifre, grafici e informazioni sul virus un altro vocabolario si sta formando e scava nel nostro cervello. Improvvisamente quasi tutti dicono “DPI (dispositivi di protezione individuali)” ma pochi conoscono davvero il significato e la giusta applicazione di tutti quei mezzi che ci permettono di proteggerci dagli altri e di proteggere gli altri da noi. Perché metterci una mascherina chirurgica fa molto disinfettato e pulito in questi tempi di terrore.
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Ma la mascherina ci protegge dagli altri e serve, a sua volta, a proteggere gli altri da noi. In questi tempo di assalto al prossimo senza scrupoli la maschera ci è necessaria perché rende il volto un campo arato male, resta solo il nero delle pupille come due isole dallo spazio. Ed è sempre da queste due isole però che i professionisti sanitari guardano i pazienti che si trovano davanti. Al paziente non resta che affidarsi totalmente a quello che di carne e di umano viene concesso alla vista. Chi sta male sa che la fiducia va concessa anche alla maschera. Il contatto è quasi vietato, va limitato al massimo. Per la paura vorremmo che scomparissero anche la voce e i gesti. Non toccateci, non parlateci. Fate quello che volete, ma fatelo dove non possiamo vedervi, dove non potete raggiungerci.
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Lo sguardo quindi diventa l’unica terra ferma in cui far approdare la disperazione del paziente in terapia intensiva; esseri umani che ai nostri occhi – quelli di chi sta fuori – diventano corpi e respiri da temere. Allora tutta l’empatia che poi è il motore del lavoro dei professionisti sanitari si va a nascondere dietro le tute di protezione, suda e si sfinisce insieme a loro. Trova anche in questo estremo di paura un posto in cui fare il nido, aspettare, non abbandonare le persone che stanno dentro ai camici. Io mi auguro con tutto il cuore che i miei colleghi sfiniti in prima linea negli ospedali, finito tutto questo, abbiano ancora un fondo segreto, un punto sicuro a cui tenersi. Le tute e i camici sterili ora non sono più fermi nel ricordo di qualche serie TV, sono ovunque, ve li sognate anche di notte. Forse qualcuno sogna davvero di averceli in casa. L’altro ci terrorizza, l’altro ha qualcosa di invisibile, qualcosa per cui non possiamo esser certi di incolparlo. Ma il camice è un’altra giustificata barriera, annienta tutte le forme. Se prima i sanitari erano ancora uomini e donne identificati nel ruolo dal colore della divisa, ora il camice e la tuta ti privano anche del minimo riconoscimento delle forme. Sei una macchia bianca che cammina, che salva, a cui ci si affida anche se non hai identità alcuna. Conta solo cosa puoi fare, fino a dove riesci a resistere.
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In questo momento di numeri su cui continuamente veniamo aggiornati quello che conta dentro gli ospedali sono i gesti minimi, sono gli sguardi. Le parole perdono di validità, se parlare vuol dire avvicinarsi, rischiare. I gesti minimi sono quelli che ci salvano o che ci condannano. Toccarsi l’occhio che prude, mangiarsi le unghie. Oppure togliersi male il guanto perché si è sfiniti, dentro le tute non si respira, le mascherine stringono. Il guanto. Nel guanto risiede tutta la proibizione del tocco, con le mani conosciamo le prime cose del mondo, con le mani ci aggrappiamo prima di precipitare, con le mani diciamo tutto ciò che non possiamo dire. Con le mani accarezziamo il viso di chi forse sta in quel letto e non ci sente. Con il guanto siamo protetti ma privati.
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La protezione è anche privazione. E la forma di privazione a cui sono sottoposti tutti i sanitari è totale: gli occhi vanno protetti dagli occhiali, i capelli dalla cuffia, il corpo dal camice, le mani dai guanti, la bocca e il naso dalla mascherina. Sono privati di tutte le forme comunicative. Con questa pandemia abbiamo tutti imparato parole nuove, abbiamo ora anche l’immagine di questi “dispositivi di protezione individuale” che ci circola nella testa. Non abbiamo imparato però che a chi sta a casa è imposta una sola di queste privazioni: uscire di casa. Direi che possiamo anche farcela. La protezione passa anche per diversi gradi di privazione, ai cittadini viene chiesto un primo semplice scalino.
Clery Celeste