Le città sono “spettrali”, la situazione è “surreale”, d’altronde, “ognuno deve fare la propria parte”. Il contagio impone un nuovo vocabolario, un inedito rosario di aggettivi ricorrenti, certe parole che emergono, improvvise, dall’anonimato del discorrere. Ogni parola ha in sé un carico di avvertimenti, di emergenze culturali, di sensi sottili. Cominciamo a dare forma al vocabolario del virus.
Spettrale: La città vuota di umani è “spettrale”, alcova di spettri – i nostri ricordi, le malinconie affilate dalla solitudine? –, degna scenografia dell’oltretomba. D’altronde, la città, a differenza del bosco, non ha vita, dall’asfalto non cresce un bosco di betulle, i pilastri di cemento non cibano scimmie o poiane. La letteratura e il cinema – dalla città di Dite alla New York di Io sono leggenda – non ci hanno abituati alla metropoli “spettrali” e leggere Edgar Allan Poe, Lovecraft o Stephen King non aiuta a misurare la perplessità che lega il deserto urbano agli ospedali gonfi di malati. Per questo, forse, vedere una città in rovina, le rovine accerchiate di piante, colonizzate da tigri e cervi, dona una profilata idea di benessere: abbiamo creato spazi infelici, inadatti alla vita, “spettrali”. Meno ancora che “spettrali”, però, perché la città non è il luogo dove appaiono i morti, ma quello in cui muoiono i vivi. Tuttavia, spectrum si fonda sul verbo specere, vedere: la città deserta è uno spettacolo, questo tempo è qualcosa che fonda una attesa, una aspettativa.
Surreale: Magari fosse “surreale” la vita capovolta che ci capita di vivere, costretti alla reclusione, contagiati dal panico o da una sotterranea forma di quiete. Surreale è ciò che supera la realtà per eccesso di profondo, “che esprime o evoca il mondo dell’inconscio, della vita interiore del sogno”, dice la Treccani. Magari le nostre case diventassero incubatrici del sogno, cubi in cui s’incuneano desideri inauditi. Magari, da ora, la nostra vita reale fosse quella al di là della realtà, nel paradigma degli enigmi, nella foresta dell’estro onirico. “Surreale” rimanda per ovvietà al Surrealismo, movimento estetico e d’estasi coniato da André Breton, che postulava la “massima libertà dello spirito”. “Le allucinazioni, le illusioni, eccetera, sono una fonte non trascurabile di godimenti”, scrive Breton nel “Manifesto” del 1924. “Viviamo ancora sotto il regno della logica… Il razionalismo assoluto che rimane di moda ci permette di considerare soltanto fatti strettamente connessi alla nostra esperienza. I fini logici, invece, ci sfuggono. Inutile aggiungere che l’esperienza stessa si è vista assegnare dei limiti. Gira dentro una gabbia dalla quale è sempre più difficile farla uscire. Anch’essa poggia sull’utile immediato, ed è sorvegliata dal buon senso. In nome della civiltà, sotto pretesto di progresso, si è arrivati a bandire dallo spirito tutto ciò che, a torto o a ragione, può essere tacciato di superstizione, di chimera; a proscrivere qualsiasi modo di ricerca della verità che non sia conforme all’uso”. Più che avere note negative o grevi, la parola surrealismo significa disporsi alla ricerca della verità, rompere le gabbie, o meglio, fare della propria casa-gabbia un Everest, il Tabor. D’altronde, ci è mai garbata la realtà? Superiamola con un salto.
“Ognuno deve fare la propria parte”: Lo dicono tutti, dai Ministri alle star che ci convincono quanto sia bello stare a casa (se la casa è bella; la casa imposta, per altro, è utile a comprendere l’origine nomade dell’uomo). È lo slogan del premier Conte. Nessuno, a dire il vero, potrebbe fare parti che non siano la propria; siamo partigiani del nostro privato, di una proprietà che sentiamo, ora, claustrofobica. Per il bene di tutti, ognuno deve farsi da parte, fare la parte. L’allusione è teatrale: bisogna recitare il proprio ruolo nel gran teatro del mondo contagiato. Piuttosto, il tutto esiste se le parti funzionano: sembra di udire San Paolo ai Corinti, “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; se un membro ha gloria, tutte le membra gioiscono con lui. Ora, voi siete corpo di Cristo, ognuno secondo la propria parte, sue membra” (1 Cor 12, 26-27). Facendo scempio dell’ordine sacro, lo Stato esiste come corpo se tutti i cittadini-membra fanno la loro parte, in astrale armonia. Eppure, se ognuno fa la sua parte a ciascuno deve essere data, in verità, la propria parte… Il sostantivo femminile ci conduce anche a una considerazione mistica. Del tutto, infatti, rimarrà una parte – quella su cui si fonderà una nuova idea di tutto. Il concetto, terribile e salutare, è espresso nella Bibbia, ad esempio, nel capitolo 10 di Isaia. Israele sarà vagliata dal male, sarà dispersa, perduta. In ogni cosa c’è una necessità di dispersione e di disperazione. La luce si affievolisce, bisbiglia, ma da una brace si ripeterà il fuoco. “Il resto d’Israele, i superstiti della casa di Giacobbe/…si appoggeranno con fede/ sul Potente, sul Santo d’Israele/…anche se il tuo popolo, Israele/ fosse come la sabbia del mare/ solo un resto tornerà”. La giustizia si esprime nella prova; la prova scuote il tutto, lo vaglia, lo spezza; la parte superstite riconoscerà il grande, si affiderà, ricomponendo le luci perdute. In questo modo lo slogan politico assume valore di avvenire. Una cosa va spezzata perché si ricomponga in altro. (d.b.)