17 Gennaio 2020

Vittorio G. Rossi è il nostro Joseph Conrad, lo scrittore che sfida gli elementi. Ripubblicatelo!

La vendetta, sul corpo di Vittorio G. Rossi – la G sta per Giovanni – si consumò tardi, postuma, che vigliaccheria, e fu inesorabile. A Vittorio G. Rossi, scrittore d’impareggiabile talento nato l’8 gennaio 1898 a Santa Margherita Ligure, non perdonarono due cose. La prima è d’ordine estetico, diciamo così; la seconda è di stampo politico. Parto dalla seconda. Vittorio G. Rossi fu fascista, come molti; nel 1925 firmò, come tanti – tra cui: Malaparte, Ungaretti, Marinetti, D’Annunzio, Pirandello, Soffici – il “Manifesto degli intellettuali fascisti” redatto da Giovanni Gentile. Nel 1944 gli fu assegnato il Premio Mussolini, ma l’allora Ministro della Cultura popolare dell’RSI, Fernando Mezzasoma, poi fucilato a Dongo, decise di far virare l’alloro sul capo di Marino Moretti, antifascista. Come Moretti, per altro, Vittorio G. Rossi visse a lungo, fino al 4 gennaio 1978. I suoi romanzi, dai titoli icastici – Tropici, Teschio e tibie, Sabbia, Nudi o vestiti, Cobra, Fauna, Maestrale – vengono pubblicati, da Mondadori, dagli anni Sessanta, in una collana specifica: “I libri di Vittorio G. Rossi”.  

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In realtà, era conteso, Vittorio G. Rossi. I suoi libri, colti e avventati, di opalescente bellezza, se li giocavano Mondadori, Bompiani, Garzanti. Era un poligrafo. Vendeva. Fu inviato speciale del “Corriere della Sera” e di “Epoca”, girò il mondo – “Più di venti volumi documentano e narrano, sullo sfondo dei più svariati orizzonti (Senegal o Andalusia, Camerun o Amazzonia, Cina o Giava, Capo Kennedy o Antartide) le numerosissime tappe… delle più svariate peregrinazioni e del vastissimo mondo esplorato”. La sua vita pare calcare quella di un Joseph Conrad: “appena diplomato capitano di lungo corso all’Istituto Nautico di Camogli, s’imbarcò giovanissimo, per la prima volta, su un vecchio tramp e compì in seguito innumerevoli viaggi sui più diversi natanti – mercantili, barche da pesca, velieri, navi da guerra – svolgendo la sua carriera, prima di capitano di lungo corso durante la guerra mondiale 1915-18, poi di giornalista o inviato speciale, sempre animato dallo spirito forte di navigatore appassionato, instancabile” (Ada Ruschioni).  Oggi, Vittorio G. Rossi è scrittore da bancarelle, nel mercato sotterraneo dei libri usati, salvati dal macero, se avete la fortuna di trovarlo. Nessuno ha più l’ardore di pubblicarlo.

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Al di là delle frivolezze politiche. Vittorio G. Rossi è stato esiliato dal canone ordinario della letteratura italiana per una semplice ragione. Scrive di avventure. Indaga il rapporto conflittuale tra l’uomo e la natura. È audace. Parla di prova e privazione più che di borghesia e proletariato. Insomma, non ha interesse all’impegno sociologico, non indaga i ricami del ‘nostro tempo’, non gli importano i rigurgiti della psiche. Vittorio G. Rossi – diciamolo sussurrando – è il nostro Conrad, è il nostro Hemingway, ma quelli sono esaltati quanto lui è umiliato. Perché? La nostra letteratura nasce raccontando un viaggio reale – pur tempestato di fantasticherie –, quello di Marco Polo, e un viaggio oltremondano, quello di Dante. Di questo, però, ci siamo scordati: così Emilio Salgari resta un narratore di seconda fascia rispetto, chessò, a Giovanni Verga – un genio, ovvio, ma malauguratamente storpiato, ridotto in sorbetto per dirci della ‘questione meridionale’ – e la robustezza di Carlo Sgorlon premia meno della leggerezza di Italo Calvino. Troviamo frivolo lo sconfinato, forse, e restiamo, decadenti, letteratura di provincia – guardate i giornali: gli esteri hanno uno spazio irrisorio rispetto agli interni, alziamo a mala pena lo sguardo oltre la trincea dei fatti nostri.

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La critica non è stata generosa con Rossi – d’altronde: scriveva di australi e piaceva al pubblico – definendolo “colorista e viaggiatore di buon umore” (Piero Pancrazi), insomma, sostanzialmente, un solido naif. Tra i libri più belli di Rossi scelgo Oceano. Vinse un Viareggio, nel 1938, insieme a Enrico Pea (con La maremma). La mia copia è del 1970, Bompiani, edizione numero 17, tra “I più famosi libri moderni”. Questa è la descrizione delle Fär-Oer: “Quando farò l’inventario dei miei peccati, se il conto sarà grosso, tornerò in quelle isole. Neri lugubri blocchi di basalto sperduti nell’oceano frigido; nebbie che si palpano con la mano come stoffa, lente calano, lente tentacolose si posano come il polpo sui sassi del fondo marino, e tutto affoga in quel pastone di cenere fradicia; ma una raffica di vento a filo di rasoio, gelata e vitrea, fende la nebbia, e d’un colpo la nebbia è spazzata fino all’ultimo straccio; un sole, se è ora di sole, macilento e infelice si distende pieno di diffidenza sul cupo basalto, il grigio reumatico delle casette un po’ di ravviva, è la febbre pomeridiana dei tisici: s’intoppa il vento, l’aria torna immobile, e il coperchio di nebbione ricala, lento pesante ricala affogando isole uomini acque”.

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Mi pare sfiziosa, col senno di poi – nel 1938 Hemingway ha pubblicato Avere e non avere, Sonzogno pubblica la propria versione di Lord Jim, firmata da Alfredo Pitta, che segue quella di Mario Benzi del 1929 – la struttura narrativa di Oceano. Procede per sketch, rompendo la linearità narrativa, seguendo la vita di bordo sul “Piroscafo Galatea, norvegese”. La scrittura è semplice, va per brandelli epici – “Si fece buio, la notte cadde a blocchi di tenebra, una tenebra compatta pesante avvolse il mondo” – con il gusto per il primordiale, la gioia della sfida, il sano destino del racconto esaltato dal fuoco.

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Il confronto con gli elementi, divinità innocenti e mai innocue, grada la grandezza dell’uomo e la sua mistica miseria (come nei romanzi di Conrad). “L’uomo vuole durare, sopravvivere a se stesso, vincere il tempo. La terra gli dà questa illusione. Tutto si consuma, si tarla, s’infradicia, si spezza; anche la pietra più dura si logora. Ma tutto ciò si compie più lentamente della vita dell’uomo, il quale così chiude gli occhi convinto di lasciare un segno durevole del suo passaggio nella vita. Il mare è una roccia che nessun ferro può incidere. Sul mare la morte è definitiva. Il mare è l’incertezza, l’instabilità, l’imprevedibile. Sul mare non esistono profeti… L’instabilità del mare spiega l’umore gaio del marinaio. L’imprevisto è il sale della vita. Serba la giovinezza dello spirito. L’uomo e la terra vivono in armonia. L’uomo si riposa, e la terra lavora per lui. Il grano cresce anche quando il contadino dorme. Il mare invece contende all’uomo i suoi frutti. Sul mare l’uomo va a preda. Le virtù del pescatore sono la pazienza e la scaltrezza – la scaltrezza del ladro. Chi manovra la vela gioca d’astuzia col vento”.

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Questa scrittura setacciata nel sale, dove l’uomo vive alla luce della prova e non c’è approdo di fama – poiché le gesta non sono ammesse nella gestazione dell’oceano – ha un fascino screziato e spavaldo. Riconquistiamola. (d.b.)

*In copertina: Vittorio G. Rossi (coi capelli al vento) e Giuseppe Saragat, nel 1965

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