C’è sempre una buona scusa per intervistare Vittorio Feltri: un suo libro, una dichiarazione, una lezione di stile. E anche quando non c’è, vale la pena inventarsela. Ascoltarlo è un’esperienza. Ogni intervista è, in prima istanza, uno spettacolo che allestisco, con la sua complicità, per me stesso. Certo, poi, penso anche a portare a casa qualcosa per i lettori. Prima di tutto, però, desidero divertirmi e non si può certo dire che lui mi neghi questo piacere. Questa volta il pretesto è la recente uscita di L’irriverente. Memorie di un cronista (Mondadori, 2019), in cui l’ultimo grande giornalista italiano continua a raccontare, come era stato anche con il precedente Il borghese, di personaggi e situazioni che hanno segnato la sua esistenza umana e professionale. Naturalmente, come sempre capita con una mente vulcanica, si parte con l’idea di attenersi a un tema, ma la genialità non si fa contenere e si ribella a qualsiasi richiesta stringente che voglia limitarla. Una cosa, comunque, è certa: anche questa volta, Vittorio Feltri è stato superlativo.
Direttore, il suo testo si intitola L’irriverente eppure, anche rispetto ai precedenti, lei sembra essere diventato, come dire, più sentimentale. Dalle sue righe, soprattutto quando racconta certi periodi dell’infanzia, di sua madre e suo padre, dei suoi gatti, traspare quasi un senso di dolcezza. È lei a essere cambiato, oppure anche il suo sentimento è irriverente?
Questo non lo so. Io sono una persona normale, ma senza inibizioni, che scrive ciò che ha in testa. Non mi faccio tante domande. Sentimentale non lo sono mai stato granché, però è chiaro che se evochi certe situazioni… Io, comunque, non cerco mai di mettermi al centro della scena. Mi basta trasmettere qualche emozione al lettore.
Mi ha colpito molto l’incontro che descrive nel libro con il Direttore Maurizio Belpietro – allora un semplice giornalista –, alla redazione di “Bergamo Oggi”. Mi piacerebbe che fosse lei stesso a raccontarcelo.
L’incontro fu divertente. Mi ricordo che entrai in un giornale disadorno e sull’orlo del fallimento, con un animo non particolarmente entusiastico. I giornalisti erano pochi e tutti tristi, convinti di dover celebrare a breve il loro funerale. Tra questi c’era un signore con degli occhiali molto spessi, un miope incredibile – successivamente si sottopose a un intervento chirurgico e ora ci vede benissimo, beato lui. Mi incuriosiva questo soggetto vestito in un modo diciamo un po’ particolare – perché è vero che l’abito non fa il monaco, però è la prima cosa che noti di una persona. Dopo qualche giorno capii che era assolutamente uno affidabile e cominciai a esaminarlo, ad affidargli qualche compito più importante che lui eseguì ogni volta in modo brillante. Da lì in poi divenne uno dei miei uomini di fiducia e lo portai con me quando diventai direttore di “L’Europeo”, poi a “L’indipendente” e infine a “Il Giornale” di Montanelli. Naturalmente, Belpietro maturò, diventò un bravo giornalista e mi sembra che lo sia tutt’ora.
Ma cosa la colpì, in prima istanza, del giovane Belpietro?
Mi colpì il fatto che fosse abbastanza taciturno e che trascorresse i pomeriggi chino sulla scrivania, senza rompere i coglioni – il che è una dote rara. Eseguiva il suo lavoro in modo egregio. Perciò, da quel momento, gli riservai una particolare attenzione. Credo di non aver sbagliato nella valutazione.
Meglio dirigere un giornale, o trovarsi in uno dei vari ruoli che ha ricoperto al “Corriere”?
Il lavoro che ho fatto più volentieri è stato quello dell’inviato, perché godevo della fiducia della Direzione e perciò facevo come preferivo. Presentavo delle proposte, tre alla settimana di solito. Due venivano bocciate, la terza approvata. Mi dedicavo a questa con grande passione e impegno. Credo che ciò si notasse dalla qualità del prodotto finale. Ancora oggi, quando vado a vedere i pezzi che facevo allora e che ogni tanto ripubblico su “Libero”, mi dico “cazzo, non sono più capace di scrivere così”.
Ho letto, a tal proposito, proprio un’intervista che lei fece a suo tempo a Montanelli e che ha ripubblicato di recente. Mi ha fatto venire in mente la nostra prima conversazione, I barocchismi mi rompono i coglioni. Credo che in essa venga fuori la vera essenza di Vittorio Feltri, come in quella che lei fece a Montanelli traspariva molto bene l’anima del grande giornalista… Ovviamente, sia detto questo considerando le dovute proporzioni.
Ma non esistono proporzioni. Le proporzioni dei coglioni sono più o meno uguali per tutti (ridiamo).
Tornerebbe mai in un grande giornale senza un ruolo di leadership?
A me della leadership non me ne frega un cazzo, onestamente. Non ho mai amato comandare, perché mi dà fastidio il rapporto con le persone. Solo che in ultimo non ho fatto altro nella vita, ma non per mia scelta. Quando mi hanno offerto la prima direzione, l’ho accettata con poco entusiasmo, attratto unicamente dallo stipendio. Quello di un giornalista qualsiasi può anche essere buono – io, al “Corriere”, guadagnavo decentemente –, però come direttore prendevo cinque volte tanto. Sì, sono stato indotto da quello più che dal lavoro, perché preferivo il ruolo di inviato. Oggi, sia chiaro, non sarei più in grado di farlo, perché bisogna viaggiare tanto. Io detesto gli aerei – se solo devo andare a Roma, bestemmio per venti minuti. Allora lo facevo e riuscivo a sopportare la nevrosi. Così ho girato il mondo. Ho fatto servizi ovunque: Cina, Messico, Corea, Africa. Ma, cosa vuoi, arrivato a quest’età, dell’Africa non me ne frega più un cazzo. Un tempo ero curioso, adesso preferisco stare nel mio ufficio e fare le mie cose. L’ufficio è come una sorta di corazza che ti dà la forza per continuare a vivere. Ho settantasei anni, però lavoro come quando ne avevo trenta, ma lo faccio da seduto, senza più andare a zonzo per il mondo. Quando scrivevo i pezzi al “Corriere” avevo tempo un giorno o due, quindi ci lavoravo molto e con maggiore impegno. Oggi, invece, per intenderci, ho scritto un fondo per “Tuttosport” in quattordici minuti. Capisci che in così poco tempo è difficile fare un capolavoro. Prima che mi chiamassi, ho preparato un pezzo sull’Ilva e ci ho messo un po’ di più, circa venti minuti. Poi lo rileggerò e, se ho scritto delle puttanate, correggo.
Leggendo dei suoi vari successi – penso, per esempio, al caso Enzo Tortora – e degli scontri avuti nelle redazioni di grandi quotidiani nazionali, mi sono chiesto quando si sia reso conto di essere diventato Vittorio Feltri, un caposaldo del giornalismo italiano.
Forse domani, perché fino a oggi non mi sono reso conto proprio di un bel niente. Non riesco a darmi delle arie. Ho bisogno di tutto l’ossigeno possibile, perciò non me ne avanza per darmi delle arie. In tutta onestà, comunque, non so quando ho svoltato. Forse quando il “Corriere” mi ha fatto fare l’inviato, perché da lì è nata l’ipotesi di dirigere “L’Europeo”. Nessuno altrimenti si sarebbe accorto di me, eppure avevo già lavorato sei o sette anni come caposervizio della politica, pur odiandola. Ti dirò di più, se c’è una cosa che mi sta sui coglioni è la politica – sempre la stessa cosa, le stesse formule. Mi hanno messo lì e l’ho fatto. Ho imparato molto sulla titolazione, sulla fattura del giornale. La scuola del “Corriere” mi è servita, devo riconoscerlo. Mi ha consentito di aprire gli orizzonti, ma senza cambiare la mia natura che è sempre stata quella di un disgraziato di provincia. Io vengo da Bergamo, non da New York… A ogni modo, la cosa che ho fatto meglio nella vita è stata guadagnare soldi. A fare i contratti mi insegnò Enzo Biagi, un maestro in tal senso – i suoi erano micidiali e mi chiedevo come cazzo facesse. Poi ho scoperto il segreto e da allora ne ho sempre ottenuti di buoni anche io. E mi meravigliavo di quello che incassavo, che mi consentiva di dare alla mia famiglia un agio di cui poi non ho realmente mai approfittato. Io vivo qui dentro tutto il giorno, per cui non ho molto tempo per spendere e spandere. Anche se bisogna dire che avere del denaro ti mette una quiete nell’animo che altrimenti non avresti. Poi che cazzo me ne faccio dei soldi? Niente! Anzi mi secca, perché non vorrei lasciare una sega ai miei figli. Gli ho già dato una casa a testa. Cazzo vogliono ancora da me?! Cercherò con mia moglie di sperperare un po’ di denaro negli ultimi anni. Non so come fare, ma se mi impegno sono certo che ci riuscirò.
Sia il precedente testo, Il Borghese, che l’ultimo uscito raccontano personaggi e incontri che hanno segnato la sua vita sul piano umano e professionale…
Non ho scritto questi racconti per mettere me stesso al centro di tutto. Non apprezzo il narcisismo e l’ostentazione mi infastidisce. Il fatto è che, per ogni personaggio che ho incontrato, ho citato degli aneddoti che credo siano inediti e possano interessare il pubblico. Io, poi, non pensavo neppure di fare il direttore, come ti dicevo, e invece ho iniziato da giovane, perché me lo hanno chiesto e allettato dal denaro ho accettato. Avevo anche un minimo di predisposizione per la fattura del giornale, ma quando devo parlare con qualcuno, dicendogli cosa fare, mi rompo le palle in modo incredibile. Non mi piace nemmeno dire alla mia segretaria di portami un caffè, perché me lo so fare da solo. Io non amo comandare. Anche in casa non ho mai fatto il ducetto. Non mi viene, è contro la mia natura.
Scusi, non vorrei aver capito male leggendo il libro, ma lei ha davvero suggerito un verso di Destra-Sinistra a Giorgio Gaber?
Non è che gliel’abbia suggerito, ma eravamo amici e ogni tanto ci trovavamo per fare quattro chiacchiere. Una sera mi scappa la pipì e gli dico “Scusa, Giorgio, devo assentarmi un attimo per andare al cesso che, come sai, è sempre in fondo a destra”. Lui, in quel momento, mi stava spiegando le differenze tra la destra e la sinistra. Gli è piaciuta la mia frase e l’ha inserita nel testo della canzone. Poi è vero che il bagno è sempre in fondo a destra, anche se non ho mai capito perché. Ma la cosa più divertente con Gaber è stata quando mi disse di sentirsi limitato, perché era un semplice ragioniere. Avrebbe voluto essere laureato in Filosofia e si iscrisse alla Statale. Ma faceva una fatica della Madonna, perché lavorava, e dare gli esami, a una certa età, diciamoci la verità, ti rompe anche i coglioni. Io, in modo molto amichevole, gli feci notare che la laurea non conta una sega. Tant’è che i premi Nobel italiani della Letteratura, a parte Pirandello, non erano laureati: né Montale, né Quasimodo, né la Deledda. Cazzo, lui si è impressionato. Non lo sapeva che anche Montale era ragioniere. Ha fatto delle ricerche, perché non mi credeva, e poi mi ha telefonato, dicendomi: “Ti ringrazio, perché mi hai liberato dall’ossessione di questa università di merda” (ridiamo).
(Sempre ridendo) Lei è il mio mito. Mi fa morire…
Mamma mia, mi fai arrossire, malgrado io il rosso non lo ami molto…
Come nella canzone di Gaber, Non arrossire…
(Feltri canta “Non arrossire”). Le so tutte. Io amavo Gaber. Mi divertivo con lui. Era uno di poche parole. Ci siamo conosciuti a una Festa dell’Unità, alla fine del suo spettacolo. Io avevo diciotto anni, lui ventuno. Dopo sette-otto anni, ci siamo incontrati nuovamente e siamo diventati amici. Andavamo nelle trattorie, per intenderci, mica in questi ristoranti stellati del cazzo.
Non posso fare a meno di notare, nei suoi libri come negli articoli, che, tra i vari momenti di humor e cinismo, torna sempre con una certa regolarità la questione della morte. È un Feltri molto umano e sensibile quello che fa i conti con la fine. Non le chiedo tanto della sua eventuale dipartita, ma dell’effetto che le fa vedere che la vita perde pezzi e che chi ha segnato la sua esistenza se ne va per l’eternità.
Nel futuro di tutti c’è una tomba. Non è che mi piaccia, ma bisogna ricordarselo sempre. È normale. Di fronte alla morte si prova uno strazio tremendo che uno cerca di amministrare in modo dignitoso, ma il dolore ti rimane dentro. Poi passa, per fortuna. Però, ogni tanto, il ricordo punge l’animo e il corpo, prende proprio allo stomaco.
Io, che la seguo costantemente su “Libero”, noto che con triste regolarità ripropone la questione della sua prima moglie…
Non è stata una esperienza gaia…
Ma scrivere serve a esorcizzare, o no?
Sì. Quando scrivi, essendo in intimità con te stesso, viene fuori quello che pensi e che provi.
Come si è sentito la prima volta che ha visto il suo nome su un giornale e come si sente adesso, dopo mezzo secolo di attività?
Adesso non sento più niente, anche se sono sempre curioso di vedere come va il mio pezzo. Le mie prime esperienze le ho avute a diciannove anni, scrivendo di cinema, arte di cui non capisco un cazzo, su “L’eco di Bergamo”. Ero estasiato dall’idea di poter scrivere, perché ho sempre pensato che sia come vivere due volte. Sai, un eccesso di vita mi fa bene. Anche adesso è così. C’è l’esistenza se vogliamo banale e rutinaria e poi quella che è la descrizione della realtà, quel surplus di vita. C’è poco da fare, tutti quelli che scrivono vivono due volte. Lo facciamo per questo, perché ci manca qualcosa e scrivendo ce lo prendiamo, con la nostra voglia di partecipare, di dire agli altri, con il desiderio di comunicare, di gridare al mondo che ci siamo.
Mi colpisce sempre una cosa: a differenza di come vogliono farla apparire in televisione, lei è molto più profondo.
Ma in tv, se sei profondo, rompi il cazzo a tutti. Meglio dire quattro cazzate, farli divertire, e finita lì (ridiamo).
Anche questo mi piace di lei, come riesce ad alternare il senso del tragico all’ironia. È una delle sue caratteristiche migliori…
Questa mattina ero ad Agorà e la conduttrice mi ha detto: “Ho visto che nel libro parla di suo padre e di sua madre. Suo padre è morto quando lei aveva sei anni. Avrà sofferto”. Le ho risposto che non ho sofferto, anzi sono stato contento. Di solito si hanno due genitori che rompono i coglioni, io ne ho avuto uno solo. Non mi piace mettermi lì a fare la retorica dell’orfano.
Nel libro scrive: “Ai miei giornalisti qualche volta rammento che scrivere non è come pisciare, ma devo ammettere che alcuni scrivono come se pisciassero. E lo fanno controvento”. Come non essere d’accordo…
È così. Quando si scrive bisogna pensare a quello che si sta facendo, non è che ti viene così come la pipì. Montanelli mi diceva sempre che non è importante avere un’idea per scrivere un pezzo, ma almeno mezza ci vuole.
C’è un erede, un nuovo Feltri a cui vorrebbe passare il testimone un giorno?
Secondo me ce ne sono tanti, però bisogna avere il temperamento per liberarsi dai pregiudizi, dalle manie che abbiamo noi che vogliamo sembrare sempre i primi della classe, quando invece eravamo i penultimi. Bisogna cercare di essere quelli che si è. Poi, se gli altri ti criticano, che vadano a fare in culo. Io, comunque, non mi sono mai preoccupato di avere un erede, perché quando finisco io che cazzo me ne frega di cosa succede a questo mondo.
(Scoppiamo a ridere) Non mi vedo la Fallaci sghignazzare in questo modo, mentre faceva le sue famose interviste con la storia.
Lei era di una bravura incredibile, ma si prendeva molto sul serio. Io non riesco a prendermi sul serio nemmeno quando mi pettino.
Direttore, ma lei non ci pensa proprio a mollare la presa e andare in pensione? Si sente di avere ancora molte cose da dire?
Io sono andato in pensione a cinquantacinque anni e ho fatto sempre dei contratti sui diritti d’autore. Voglio morire dietro la scrivania, così evito anche la permanenza in ospedale con le flebo e tutte quelle altre cose orribili. Adesso, scusami, ma mi fanno cenno di tagliare. Mi aspettano in televisione per un intervento. Sai, la solita stronzata. Ci risentiamo quando vuoi…
Matteo Fais
*Editing di Luisa Baron