Durante uno dei nostri ultimi colloqui, Vittorio Bertimi raccontava di cosa lo avesse portato a voler studiare la storia del cristianesimo. Aveva pensato di poter fare filosofia ma nell’approcciare quel tipo di studi aveva capito di non voler passare la vita a studiare il pensiero di uomini che, per quanto grandi, erano comunque stati singoli uomini. Gli interessava, piuttosto, studiare la storia dei popoli, perché pensava che lì, nelle domande e nei simboli che li abitano, fossero custodite le cose di maggiore importanza.
Sulla scia di questa intuizione è andato a Padova a studiare storia del cristianesimo, dove si è laureato sotto la direzione di Paolo Bettiolo, professore emerito, uno dei maggiori studiosi di storia del cristianesimo in Italia. Gli studi lo hanno portato ad approfondire il cristianesimo orientale e le figure che lo abitano, come il patriarca di Baghdad Timoteo I (780-823), al cui epistolario ha dedicato il suo progetto di ricerca. Dopo un periodo di studi tra università italiane e estere è poi tornato a Padova, dove insegna Storia del Cristianesimo. È lì che ho fatto la sua conoscenza, seguendo un suo corso sulla mistica nei monoteismi. Durante uno dei nostri primi colloqui mi ha detto che secondo lui la preghiera, “lo scandalo della preghiera”, è l’unica efficace azione politica.
In Matteo 10,16 Gesù si rivolge ai discepoli invitandoli ad essere “prudenti come serpenti e semplici come colombe”. Che cosa intende?
Premetto che non ho l’ambizione di fare un’esegesi teologica “professionale”, in quanto sono uno storico, non un teologo. Ma come credente penso che la più semplice interpretazione, la più autentica e anche la più utile per me possa essere quella secondo cui la purezza non implica una sorta di distacco aristocratico dal male e dal mondo – questo infatti sarebbe un gesto estetico che un cristiano non si può permettere. Gesù, invece, invita a comprendere caso per caso i rapporti di forza e gli inciampi che intrecciano questo mondo e che fanno parte del nostro vivere insieme. Spesso pensiamo di fare del bene e non ci accorgiamo invece dell’incredibile duttilità del male, che si manifesta in forme insospettabili. Questa volontà di purezza (essere come colombe) va quindi mantenuta all’interno di uno sguardo astuto e attento alle dinamiche in gioco. Del resto, Gesù, nella parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-9), mostra come l’atteggiamento che dobbiamo avere nei confronti della salvezza non sia puramente passivo: alcune cose le dobbiamo prendere con le nostre mani, anche forzando la serratura della salvezza e andando al di là del territorio sicuro di una morale data.
È per questo che poco dopo Gesù dice di “non essere venuto a portare la pace ma la spada” (Mt 10,34)?
Gesù in realtà porta la pace, ma “non come la dà il mondo” (Gv 14,27): si tratta di un altro tipo di pace. C’è infatti la pace data dal mondo, che spesso è costruita sulla pelle degli altri, su cumuli di cadaveri, veri o metaforici che siano; e poi c’è quell’altro tipo di pace. Questa è sì costruita con la spada, ma la spada che porta Gesù non indica l’inizio di una guerra, bensì la necessità di un taglio quasi chirurgico coi legami del mondo: si tagliano dei legami che apparentemente producono pace, ma che in realtà reiterano un’inerzia tossica che impedisce la liberazione. Le istituzioni di certo servono: quelle della famiglia, dello Stato, ma non le si deve idolatrare al punto da dimenticarsi che c’è un’irriducibilità in ciascuno di noi, che deve essere salvaguardata. I legami vanno benissimo, anzi sono fondamentali; a patto che non blocchino e non costruiscano una piramide di gerarchie indistruttibili e disumanizzanti. Gesù stesso dice: “Non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra”, e non perché fosse contro la paternità, tanto è vero che Dio lo chiama “padre”. Il punto è capire di che tipo di paternità stiamo parlando: il vero padre si ritrae e così facendo lascia che la sua progenie respiri e che si possa muovere e camminare con le proprie gambe. Il problema invece è che oggi ci sono molti padri, reali e istituzionali, che con la loro autorità impediscono ai figli di muoversi, di accadere pienamente nella loro vita.
Direi che rifiutiamo quell’“altro tipo di pace”, più spirituale e meno istituzionale, perché siamo in generale divenuti restii al messaggio evangelico, c’è un forte ateismo e rigetto della tradizione cristiana. Ma è davvero possibile essere atei?
Da un lato è necessario essere atei: è sempre un grosso errore pensare di avere Dio nella propria tasca. L’ateismo, nella misura in cui sia liberazione da un dio tappabuchi che spiega tutto e silenzia i nostri dubbi, è una condizione necessaria, e tale condizione di liberazione è auspicabile in particolare per i credenti. Sembra contraddittorio, ma non lo è. In realtà l’ateismo di cui tanti si fregiano non è ateismo ma irreligiosità, che è una cosa ben diversa: non credere in un dio non significa che non si sia gran creduloni per tante altre cose. Forse la questione principale è che oggi il rifiuto delle tradizioni religiose è in realtà il modo più veloce per assecondare le proprie idolatrie, che sono forme di religiosità appaganti molto più intense e subdole, di cui più faticosamente ci si sbarazza. A me rammarica il fatto che nel dibattito culturale occidentale si sia ancora oggi spaventati da una presunta limitazione che le tradizioni religiose eserciterebbero sulle nostre libertà personali, quando in realtà le forze che ci limitano e ci determinano nei fatti non sono minimamente oggetto di critica. Ad essere criticate sono sempre istituzioni che oggi invero sono molto fragili, come le Chiese, additate di essere propense a cospirare contro il genere umano, quando in realtà il loro problema in questo momento storico è più che altro quello di non avere spesso gli strumenti per pensare al proprio futuro. A me sembra che in realtà la contemporaneità utilizzi questo tipo di polemiche anti-religiose per evitare di guardare in faccia le proprie idolatrie e metterle davvero in discussione.
El Greco, San Domenico in preghiera, 1590 ca.
Idolatrie che, sia ben chiaro, non attribuisco a un particolare segmento della cultura contemporanea. L’idolatria è un fatto di tutti: ciascuno di noi vive una condizione di religione da cui è difficile emanciparsi: siamo schiavi del denaro, del lavoro, della finanza, delle nostre pulsioni egoistiche. Chi è che oggi sarebbe in grado di emanciparsi dallo stato di produzione di ricchezza occidentale capitalistica e dalla propria condizione lavorativa in ragione di una prospettiva profetica? Io non mi candido di certo tra coloro che sono in grado di operare per sé stessi questa liberazione. Allo stesso tempo, però, cerco di avere l’accortezza di non sentenziare contro tradizioni che, per quanto nel corso della storia abbiano avuto e tutt’oggi abbiano limiti e responsabilità, continuano comunque a custodire parole di senso e liberazione.
In che modo il cristianesimo, o comunque la coltivazione di una dimensione spirituale, può essere fonte di liberazione e di pace? Gesù stesso dice che il suo giogo è fonte di ristoro (Mt 11,30).
Sì, il giogo di Gesù è dolce, però è un giogo. Libera, ma come libera? Facendo un po’ da ripetitore di una serie di pensieri che trovo molto commoventi, la tradizione cristiana intende la liberazione non tanto come accettazione del proprio destino quanto, piuttosto, come spostamento dello sguardo: dalle condizioni su cui non possiamo operare a quelle su cui, invece, possiamo operare. Una persona, del resto, nasce in un contesto che la determina (almeno parzialmente) e che non si è decisa da sé; può tentare di modificare i dati che la definiscono ma, per quanto lo faccia, questi hanno comunque informato la sua storia. Ci sono però altri aspetti su cui possiamo intervenire e che permettono di costruire, se così mi posso esprimere, una “cittadinanza celeste” anche in questo mondo, una cittadinanza fondata su forme di comunione.
Questa comunione e questo amore sono ciò su cui possiamo operare e ciò che è fonte di liberazione. Essi ci permettono di approcciare gli altri non più come a un mezzo, bensì come a un fine; di ricordarci che il giudizio che applichiamo su di loro lo proiettiamo anche su di noi; ci danno la capacità di cambiarci ma anche di perdonarci quando non siamo in grado di cambiarci, e poi di avere uno sguardo di misericordia nei confronti dei difetti e dei limiti dell’altro. Tutto questo può far sentire fratelli e sorelle e quindi, in qualche modo, può aiutare a superare, almeno per frammenti, quella sensazione di smarrimento che ciascuno di noi prima o poi esperisce. Questo sentimento di amore, per chi l’ha vissuto, dà giustizia e ragione all’esistenza, anche al di là di tutte le paure che ci possiamo portare dietro a causa della nostra finitezza. La comunione ci fa sentire come uno strumento che è accordato e suona la nota giusta assieme a tutte le altre. È un esito di pace, comunque, che, per chi ci crede, riflette la grazia, vale a dire il riconoscimento della propria filialità; non è un prodotto dell’aver seguito in modo tetragono un libretto d’istruzioni.
Da questo punto di vista io penso che le risorse del cristianesimo – ma in realtà di tante tradizioni religiose – aiutino a manifestare questa comunione, ad accompagnare gli uomini nella loro curva di vita. Guardando invece alla situazione culturale che fa capo alla tradizione sorta dal disincanto laico e illuminista del mondo, devo dire con rammarico che non mi pare di poter affermare altrettanto: le culture emerse dalla fine della cristianità si sono rivelate oggettivamente incapaci di produrre un tipo di armonia e pienezza traducibile anche sul piano della morale e del senso ultimo delle cose. Hanno prodotto infiniti guadagni materiali, positivi per tutti, cui nessuno di noi, oggi, sarebbe in grado di rinunciare – e di ciò dovremmo sempre essere grati: libertà, tolleranza, ricerca scientifica, pluralismo, progresso, democrazia. Però c’è un problema che riguarda il terzo incomodo della trinità illuministica: tra liberté, égalité e fraternitémi pare che il terzo, la fratellanza-sororità, sia l’aspetto rimosso, vuoi all’interno della tradizione socialista vuoi entro la tradizione liberale. La fraternità è uno dei nodi irrisolti della nostra cultura, un rimando ancora presente nella stagione rivoluzionaria ma che non si è stati capaci di favorire da un punto di vista politico; anche quando si sono tentate strade in tal senso, esse hanno assunto la forma di qualcosa di tetro e disumano, come nei totalitarismi.
Sì, poi penso che questa fraternità non possa essere imposta e organizzata dall’alto, ma debba partire innanzitutto dal cuore dei singoli.
Certo, la fraternità non si impone, ma è comunque frutto di un lavoro su di sé, ed ha una funzione “politica”. Si deve essere consapevoli che il male ce lo portiamo innanzitutto dentro: non essenzialmente, sia chiaro, ma occasionalmente. Eppure con questo ospite scomodo abbiamo sempre a che fare e dobbiamo pensare prima di tutto a non riprodurlo; soprattutto, dobbiamo ricordare che non è solo ciò che è fuori di noi a produrre il male che è in noi. L’antropologia del disincanto secolarista è, da questo punto di vista, ingenua, perché parte dal presupposto secondo cui, tolti i limiti sociali e culturali che ingabbiano le nostre volontà di potenza, possiamo pervenire a un assetto che non ha il male al suo interno o, meglio, che è al di là del bene e del male. Il male è, cioè, visto solo nei termini di arretratezza culturale, disagio economico, educazione patriarcale, famiglia, Chiese, religioni e ideologie: tutto ciò che vincola e forma all’interno di uno schema educativo culturalmente orientato è, in fondo, percepito come male, perché il nostro imperativo oggi è divenuto liberare a qualunque costo i nostri talenti e desideri e, da questa libertà, si pensa però erroneamente che emergerà da sé un modo positivo di stare insieme; più propriamente, invece, si possa pervenire ad una non-società di anime suppostamente affrancate e corpi gaudenti, senza radici e senza scopi. Si tratta di un assioma molto pericoloso, perché ogni ‘al di là del bene e del male’ è in realtà un luogo in cui il male agisce indisturbato, perché esso, semplicemente, a volte non ha una intrinseca ragione che ci aiuti a circoscriverlo, non è sempre il figlio di un’arretratezza, ma a volte è un ospite irrisarcibile che può manifestarsi senza causa: un enigma da cui è illusorio affrancarsi risalendo la dorsale antropologica della nostra caducità danzando scompostamente in una festa rivoluzionaria e libertina di liquidazione della cultura – e dunque del limite. Se ci dimentichiamo di questo ospite indomato, rischiamo di vivere in un’autoillusione superba e debilitante. Non dobbiamo dimenticare che c’è questa possibilità di male in noi e che quindi in qualche modo è necessaria una vigilanza reciproca. E con “vigilanza reciproca” intendo uno sguardo amorevole e sincero capace di cogliere la nostra e l’altrui limitatezza, cosa che fa parte dell’educazione all’affetto e alla cura. Questo accompagnamento vigilante e amorevole, che è l’aspetto politico della fraternità, a mio avviso può essere uno stile in grado di arginare le frane sempre in agguato della nostra architettura umana, frane che diventano ferite per sé e per gli altri.
Alexej von Jawlenskij, Ebreo in preghiera, s.d.
Non è un problema il fatto che la religione cristiana non sia stata in grado di dare una spiegazione soddisfacente al problema del male?
Gli aspetti che mi affascinano del cristianesimo, in realtà, sono più che altro proprio le sue dimensioni fallimentari, e una di queste è il fatto che non ha una spiegazione ragionevole, o meglio elegantemente geometrica, per il male. Altre tradizioni religiose spiegano il male molto più efficacemente: o nei termini di dualismo o negando il male in quanto tale perché tutto viene letto nei termini di illusione, o all’interno di un modello di necessità divina, di un quadro più ampio e buono in cui alla fine il male particolare va a disperdersi.
Il fatto è che ci troviamo sempre su un crinale molto sottile che va dalla liberazione alla caduta. Lo stesso Gesù ha avuto esperienza del male e della tentazione, ad esempio quando si ritira nel deserto. È molto consolante per un cristiano che anche quell’uomo (e mi sento di sottolineare “uomo”) si sia dovuto confrontare con tutte le bassezze con cui ciascuno di noi si confronta quotidianamente: il desiderio di contare qualcosa, di essere importanti, di cambiare i destini della realtà che ci circonda. Tutte cose che sono ragionevolissime per il secolo ma che, alla fine, pongono sempre “noi” al centro, e ci impediscono di incontrare veramente l’altro.
Un punto di partenza sarebbe invece accettare la propria condizione di fragilità, e di bisogno. Spogliarsi, come ha fatto Francesco d’Assisi, significa mostrare forza o debolezza? Per qualcuno il riconoscimento di questa debolezza è stato in realtà il segno di una più grande forza. Si potrebbe dire che se ci si libera della forza del mondo ci si riveste di un’altra forza, che è debolezza nell’ordine del mondo ma forza nell’ordine dello spirito. D’altra parte il centurione riconosce la natura divina di Gesù proprio nel momento del suo più totale abbassamento, ossia quando è appeso sulla croce (Mc 15,39). È solo grazie a questo abbassamento e a questa umiltà che possiamo incontrare l’altro e avere esperienza dello sbrecciare della luce taborica. Non è che poi ci sia un San Francesco a ogni angolo di strada, però ce ne sono di più di quelli che crediamo. Sorridendo potrei dire che un buon risultato per noi sarebbe di educare il nostro sguardo a renderci capaci di scorgere, qualora li incontriamo per strada, questi “altri Cristi”.
La condizione di tutti coloro che sono in ricerca non è molto diversa da quella dei discepoli di Emmaus: quello che possiamo fare è invitare lo sconosciuto viandante a casa nostra e ascoltarlo, parlare con lui e piangere insieme ciò abbiamo perduto. Magari avremo la fortuna, proprio nell’atto di condividere il pasto e spezzando il pane, di riconoscere che quello che abbiamo perso è in realtà davanti a noi, almeno per un frammento. Questo, secondo me, è un passaggio strabiliante all’interno dei racconti neo-testamentari, è di una immediatezza che lascia senza fiato: senza guardarlo con l’approccio miracolistico, che anestetizza un’immagine a mio avviso folgorante, vediamo il Cristo riconosciuto dai discepoli non per il suo viso e per il suo aspetto, ma nell’atto di spezzare il pane. Questo fa capire quanto il riconoscimento messianico abbia qualcosa a che vedere con la memoria della cena, come luogo dei racconti fondanti, che è il nocciolo del cristianesimo.
Perché? Che valore ha?
Dare la propria vita per gli amici, fondamentalmente. Non c’è molto altro oltre a quel “amatevi gli uni gli altri”. È l’amore che sta al cuore del Vangelo, è la regola d’oro. Sembra poca cosa rispetto a grandi filosofie e alle tante teologie elaborate in duemila anni, ma se riuscissimo davvero a “fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi” non avremmo bisogno di molto altro: degli Stati, della polizia, dell’esercito, delle guerre. Basterebbe essere in grado di fare questa piccola e unica cosa. È evidente però che non sia poi così facile…
Certo, uno può obiettare che tutto ciò possa portare a una sorta di ideologia del prossimo, un atteggiamento in cui anche l’amore per il prossimo diventa una sorta di feticcio, una carità ideologica e insincera. Un punto di partenza, però, potrebbe essere quello di dichiarare a noi stessi che anche noi abbiamo bisogno dell’amore degli altri. L’amore per gli altri non dovrebbe essere il loro incasellamento all’interno di una categoria, come quella del “prossimo”. “Il prossimo” non deve essere una categoria, ma un incontro concreto. Mi viene sempre in mente quell’episodio in cui Francesco incontra il lebbroso: non è Francesco a evangelizzare il lebbroso ma il lebbroso che evangelizza Francesco, è lui che in qualche modo “lo cura”. Se si dimentica che il lebbroso può guarirci, si rende la carità proposta dal cristianesimo un’ideologia come tante altre.
E come possiamo recuperare questa parte sana, autentica, del cristianesimo? Avere con esso un rapporto non ideologico? Né nel senso di un cieco rifiuto né di una altrettanto cieca adesione?
Un pochino anche studiandolo, probabilmente. Il cristianesimo non può essere liquidato come un incidente di percorso, quindi va compreso, non perché per forza lo si ami, ma quantomeno perché non lo si interpreti superficialmente. Invece oggi, nel mondo globalizzato, uno dei “dogmi”, mi si passi il termine, che si è imposto è quello di un’automatica ostilità nei confronti del cristianesimo e delle tradizioni derivate dalla Bibbia. La capisco questa ostilità: anche io, da ragazzo, non è che amassi il mondo ecclesiale. Ne capisco l’origine e in qualche modo la necessità, che ha a che vedere con la liberazione della propria individualità, con l’espressione della propria sessualità e con tanti aspetti della vita che sono importanti e che sembra che questa tradizione stigmatizzi e rifiuti, quando invece non è affatto così.
A questi sentimenti poi si è sommata una sorta di versione volgare di neopositivismo per il quale si assume che il punto di vista delle scienze “esatte” sia quello di un rifiuto delle religioni rivelate. In realtà questo è un presupposto che non ha una vera base concreta generalizzata dal punto di vista accademico, funziona soprattutto a livello di una semplificazione mediatica. Questa idea per cui la scienza è il contrario della fede è come un pane quotidiano che viene distribuito nella liturgia eucaristica della post-modernità. Tutti se la mangiano e assumono questo piccolo veleno quotidiano che li porta in realtà ad avere una mancanza di capacità critica concreta. È così che si formano le certezze generazionali, che sono in realtà forme religiose incontrollate.
Perché dice che a livello accademico il discorso non regge? Le verità scientifiche non escludono la possibilità di una dimensione trascendentale?
Io non sono un filosofo della scienza e neppure un filosofo in quanto tale e non mi riconosco autorità per parlare di questi temi, però, e sia detto come pura restituzione personale, mi sembra che cose che davamo per scontate quando ero studente universitario a Lettere e Filosofia, come per esempio la fine heideggeriana della metafisica, si siano rivelate assunti non così solidi, non così universalmente recepiti nell’ambito del pensiero contemporaneo. La metafisica è già da un po’ che è ricomparsa, certo in una chiave molto diversa, in ambiti delle scienze del linguaggio, della filosofia della scienza… Più in generale non mi pare che la trascendenza sia mai stata rimossa dal pensiero filosofico e scientifico, se non in alcuni contesti di riduzionismo deterministico. Se andassimo più a fondo ci dovremmo ricordare l’avvertimento di Massimo Cacciari che, rispondendo alla liquidazione di Dio operata da Stephen Hawking nel 2010, diceva che il pensare che un linguaggio specialistico sia in grado di fornire risposte universali è già di per sé una contraddizione logica. Dovremmo quindi tutti mantenere la porta della ricerca ancora aperta e legittimare reciprocamente lo sguardo indagante sulla realtà, conservando un po’ di prudenza e accoglienza delle ragioni e dei percorsi degli altri. In questo modo ci renderemmo capaci di guardare con un occhio meno liquidatorio quella epochè, quella sospensione sul mistero, che spesso la cultura di massa contemporanea rimuove spazientita come sopravvivenza di un pensiero irrazionale e religioso di cui sarebbe inutile continuare a fare da megafono. Non è così, è molto ingenuo pensare così.
Il cristianesimo siriaco (asiatico e ortodosso), di cui lei si occupa, che cos’è? E in che modo può aiutarci a rientrare in dialogo con le nostre radici cristiane?
Il cristianesimo siriaco è stato definito da Sebastian Brock “il terzo polmone del cristianesimo”, che va riscoperto accanto a quello greco e quello latino. Se questi ultimi due hanno costruito tradizioni ecclesiali fortemente connesse con i destini europei e dell’Occidente, il cristianesimo siriaco ha guardato, per la sua espansione, verso l’Asia e non verso l’Europa, e grazie a questo è diventato una sorta di specchio che riflette e allo stesso tempo rovescia la nostra storia.
Le sue ricchezze stanno su piani diversi. Per esempio, c’è una grande ricchezza nella poesia religiosa che per certi aspetti non ha eguali probabilmente in tutta la storia del cristianesimo successivo. Se prendiamo l’esempio di Efrem il Siro ci rendiamo conto che si tratta di un caso davvero incredibile: in un momento in cui a Occidente i cristiani stavano ragionando col platonismo, questo poeta-teologo usava la poesia per fare un discorso sul mistero di Dio con un linguaggio diverso rispetto a quello della teologia razionale greca. Poi c’è il caso della tradizione ascetica e monastica, più in generale della tradizione mistica, che si è manifestata in particolare tra VI e VIII secolo nelle terre che vanno dall’attuale Siria fino all’Iraq. Lì fiorisce una serie di autori monastici, la cui espressione di incontro col mistero trova paralleli convincenti nell’Occidente medievale e moderno in figure come Meister Eckhart, Ildegarda di Bingen o Giovanni della Croce.
È come se quella siriaca fosse una teologia più mistica e meno razionalistica rispetto a quella cristiana occidentale, che ha risentito dell’impronta greca?
Se con “razionalistica” intendiamo una linea aristotelizzante allora la mistica siriaca non lo è di certo. Dopodiché non è neanche un puro cedere alle emozioni e a sentimenti irrazionalisti. È piuttosto una forma di integrazione complessiva dell’esperienza dell’umano. Questa esperienza è fatta di quelle tre tappe individuate dalla tradizione ascetica siriaca: una tappa somatica, una tappa psichica e una tappa spirituale. Dietro questa suddivisione c’è l’idea che l’umanità abbia un destino di theiosis, cioè di divinizzazione. Questa, secondo me, è un’idea affascinante, che è viva in teologi del XX secolo come Teilhard de Chardin o Raimon Panikkar. Per questa tradizione, poi, l’esperienza di crescita avviene nel momento della preghiera, che è uno stato su cui consiglierei di soffermarsi, e di non considerare come qualcosa di irrilevante per noi. Credo che la preghiera resti una delle grandi forze capaci di muovere la storia umana; non è un esercizio di autoillusione, ma un esercizio di autodisciplinamento all’ascolto. È in questa disciplina che, del resto, si dispone la possibilità di un incontro.
*L’intervista è a cura di Bianca Cesari
*In copertina: Jusepe de Ribera, San Francesco in preghiera, XVII secolo