L’ultimo libro di Milan Kundera pubblicato da Adelphi, Praga, poesia che scompare, riprende un libro a dittico pubblicato da Gallimard lo scorso anno, ma a contrario. L’edizione francese antepone al testo su Praga quello che s’intitola Ottantanove parole – in secondo piano nell’edizione Adelphi –, una specie di curioso vocabolario delle parole più importanti per Kundera. La parola più bella è bellezza, da cui traggo questa definizione:
“Bellezza, l’ultima possibile vittoria dell’uomo che non ha più speranze. Bellezza nell’arte: luce repentinamente accesa del mai-detto”.
Ad ogni modo. Il testo edito da Gallimard raccoglie in unico volumetto due saggi scritti da Kundera per “Le Débat”, la rivista fondata nel 1980 dallo storico e accademico di Francia Pierre Nora. Lo scritto su Praga, in particolare – uscito, in origine, nel 1980; disutile, per fortuna, per meri scopi ‘turistici’ –, è un grigio elogio all’“Europa delle piccole nazioni”, un inno all’“altra Europa” il cui pensiero “rappresenta spesso il vero contrappunto all’Europa dei grandi”. Kundera parla di Praga come di una “città remota”, una specie di “Atlantide”: ciò in ragione della sua lingua, il ceco, “poco accessibile agli stranieri”, che “si è frapposta come un vetro opaco tra Praga e l’altra Europa”. La singolarità linguistica di un paese considerato ‘minore’, lungi dall’essere un pregio è un dramma: nel sistema culturale dominato dal ‘mercato’ sono i paesi ‘forti’ a imporre i loro autori, il loro immaginario. Esiste una ‘geopolitica della lingua’, una lotta per l’egemonia dell’immaginario pervasiva quanto una guerra, da cui bisogna difendersi installandosi nel ‘locale’ in opposto al ‘globale’:
“Ho spesso l’impressione che la cultura europea a tutti nota ne occulti un’altra ignota, quella delle piccole nazioni dalle lingue strane, quella dei polacchi, dei cechi, dei catalani, dei danesi. Si presume che i piccoli imitino di necessità i grandi. È un’illusione. In realtà sono molto diversi. Il punto di vista di un piccolo non è lo stesso di un grande”.
Milan Kundera
Intere letterature, con i loro germogli, i loro gigli, sono totalmente ignorate o quasi – oppure, sfioriscono dopo un veloce passaggio in terre (le nostre) a monocultura ‘anglofona’ (dopo la mondatura della moda francese). Così, quando Kundera parla di Vítězslav Nezval, “il più grande dei surrealisti cechi”, mi inabisso nell’idiozia: chi è mai? M’informo – il nome-acciarino rischiara qualcosa, nel fondo della memoria. Intanto, leggo Kundera:
“Ho sentito per la prima volta i versi di Vítezslav Nezval, il più grande dei surrealisti cechi, quando ero un ragazzo di dieci anni e passavo l’estate in un paesino moravo. Gli studenti di allora, che tornavano per le vacanze dalle loro famiglie contadine, li recitavano come in preda a una malia. Mentre, all’ora del vespro, passeggiavamo nei campi di grano, mi hanno insegnato tutte le poesie della Donna al plurale. Poiché nella società ceca aristocrazia e grande borghesia erano assenti, l’avanguardia praghese era molto più vicina alla gente semplice, al mondo del lavoro e della natura. Situazione, questa, che ha condizionato persino la sua immaginazione. Nel ricordo, vedo Nezval, il viso rosso e sempre agitato, lo sento ripetere la parola concreto, aggettivo che per lui rappresentava la qualità essenziale dell’immaginazione moderna, che voleva fosse il più possibile densa di percezioni, di esperienze vissute e di ricordi”.
Donna al plurale, uscito nel 1936, pare il capolavoro di Nezval. La memoria fa le fiamme. Nel 2002 a cura di Giuseppe Dierna, Einaudi pubblica La donna al plurale; il libro, però, è scomparso dal catalogo, risulta “non disponibile”. Altro in Italia non si trova, se non il “romanzo nero”, Valeria e la settimana delle meraviglie, pubblicato in origine nel 1945, tradotto da E/O, sempre per la cura di Dierna, nel 1982. Dal romanzo – a bizarre erotic fantasy, secondo la versione inglese, uscita nel 2005 per Twisted Spoon Press – il regista ceco Jaromil Jireš trasse il suo film di maggior successo, passato in Italia con titolo morboso, Fantasie di una tredicenne (1970), e lussuriosa dida: “Un dolce horror di erotismo e di paura”.
Nato in Moravia, nel 1900, papà maestro di scuola nei villaggi e musicista per diletto, Vítězslav Nezval è tra i grandi poeti cechi del Novecento. Fu il pioniere del “poetismo”, avanguardia scevra da intenti politici, che alla letteratura proletaria e “sociale” sostituiva il gioco delle libere associazioni, la fantasia sul trono, una sorta di vitalismo del verbo fatto di roboanti composizioni grafiche – sulla scia futurista – e di capriole del senso. Mettevano rose nel caos, per così dire. Vítězslav Nezval e il suo ‘compare’, Karel Teige, amavano Paul Klee e Vladimir Majakovskij; in loro, la rottura delle forme si effettuava per eccesso di lirismo.
In sostanza, fu naturale che Nezval fosse ‘intruppato’ dai Surrealisti francesi. In Francia conobbe André Breton, Paul Éluard, Philippe Soupault. Per un po’, Breton – che andò a visitare la falange surrealista ceca – pensò di fare il sovrano di Praga; Nezval – che pure aveva fondato la prima rivista “surrealista” del suo paese – lo mise, devotamente, alla porta. Nezval – lo si vede dai suoi versi – ha un estro che non obbedisce ad altri che a sé, brutale nella sua dolcezza. Piaceva molto alle donne. Così ne dice, con più dense parole, Kundera:
“Intendere la magia dell’immaginazione non come surrogato della vita ma come «ebbrezza del concreto», ecco, mi pare sia questa la tendenza profonda del modernismo ceco. Tale inclinazione ha accomunato il surrealista Nezval al suo opposto Vladimír Holan, la cui poesia è spesso paragonata a quella di Rilke o di Valéry. E tuttavia, affollata com’è di contadini, domestiche, ubriaconi, delinquenti, cede sotto il «peso del concreto» distinguendosi così, radicalmente, da quella di Rilke e di Valéry”.
Dopo la Seconda guerra – passata tra le file antifasciste, con un passaggio in prigione, nel 1944 – la politica si accorse dell’apolitico Nezval. Il poeta fu celebrato con allori e incarichi: dal ’45 fu intruppato nelle fila del Ministero dell’Informazione. L’avanguardismo non andava più di moda; appena dieci anni prima, sulla rivista “Surrelismus”, di cui era lo zar, Nezval pubblicava Duchamp e Picasso, Man Ray, René Char e Benjamin Péret, Giacometti e Magritte. Nel 1949 pubblicò il poema “lirico-epico” Stalin, che forse è bene dimenticare.
La Storia aveva spento la spinta ribelle; nei manifesti, feroci, che scriveva negli anni Venti giurava sul corpo della poesia eternamente giovane. Profeticamente, aveva scritto che a volte è il caos a ordinare le nostre vite, che a volte la vita è pari a morte – e viceversa. Quanto a lui, morì nell’aprile del 1958: fu il cuore a cedere, come si slega un nodo.
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Vitezslav Nezval
Da Edison
La vita è soltanto una poi è l’oscura
notte, stiamo morendo tra rovine di luce
come le mosche del giorno, pari a lampi
Ma ora il cielo è chiaro oltre gli alberi
e nastri elettrici tremano nella neve
ora i viali sono illuminati e le nostre
anime sono setacciate dai raggi X
come gli ittiosauri nel pliocene
ora la lancetta si muove verso le sei
e andremo insieme al cinema
ora ombre spettrali di streghe
e giocatori d’azzardo volano al rumore
degli interruttori elettrici, ora
sono gli applausi, le urla per la casa
e Thomas Edison fa il suo inchino
La festa è finita, la tua anima torna oscura
gli ospiti sono svaniti e devi rientrare al lavoro
guardi gli inventori, le loro sorti: ma le stelle
non hanno deviato dal loro corso e gli uomini
vivono ancora tranquilli – no, questo non è lavoro
e non è ancora energia, è un’avventura in alto
mare, chiudersi nei propri laboratori
e ammirare la vita tranquilla della gente
no, questo non è lavoro, è poesia
è ispirazione che inscatola il caso
diventare presidente del proprio paese
diventare il poeta più grande di tutti
diventare un uccello canoro che tutti intrappola
essere sempre fortunato alla roulette
scoprire un nuovo pianeta
Migliaia di mele sono cadute, a profusione
ma soltanto Newton ne ha tratto le conseguenze
migliaia di uomini soffrono di epilessia
ma soltanto San Paolo ha avuto la visione
che lo ha convertito – migliaia di ignoti
sordi hanno cercato rifugio nell’arte
ma soltanto uno si chiamava Beethoven
molti pazzi hanno cercato di realizzare
le proprie follie, ma soltanto Nerone
ha potuto incendiare Roma – ogni stagione
ha le sue invenzioni, soltanto una era di Edison
*
La botola
Inneggio al vostro leggiadro volo, ali della morte
ovunque ne scorgo i segni
Ieri sera ero a passeggio con la mia ragazza
in marciti anditi
che chiamano campi appena arati
appena fuori città
zona paludosa un tempo
quanto possono essere paludosi certi giorni –
l’autunno era alle porte
Abbiamo camminato per un’ora almeno
ed è stato bello come dimenticare
il mondo e te stesso
bello come dimenticare che siamo vivi
e mi sentivo terribilmente male, come un annegato
che torna a respirare
la mia ragazza mi parlava
e io mi sentivo come un annegato che ha scordato
di essere stato vivo, un tempo
Vaghe erano le sue sillabe
disse:
mi sento triste
e
terribili sono le strade che sbocciano nei campi
e anche
ho paura delle lontane luci
quelle del cimitero, incerte, diafane
e poi
è triste spiare la gente che cena dalle finestre
Dovevo risponderle
come una foglia bagnata deve rendere la scintilla
come una tromba deve darsi alla sera
come uno specchio coperto di ragnatele si deve donare alla candela
come la cera, appassita, germoglia in un anello
dovevo risponderle e lei camminava, in silenzio
All’improvviso ho percepito
per un momento soltanto
che la terra si era allontanata dalla sua orbita
e cadeva e io cadevo insieme al paesaggio
e cadevo
camminavo su solida terra
ma cadevo e le vertigini mi unghiavano
non erano vertigini
cadevo come una torre che vede i suoi astori prendere il volo
cadevo come un uomo abbandonato dalla memoria
cadevo senza dolore
cadevo come la cenere da un sigaro acceso
come un foglio di carta in fiamme che incenerisce una poesia
cadevo come un’altalena
cadevo come una goccia nella neve
come una campana nel lago
come un bambino nell’impermeabile
come un dado nel bullone
cadevo e non percepivo impatto
cadevo insieme al panorama con quella immonda palude
Cadevo ma stavo dimenticando
la realtà svanì lentamente
come luglio sul cranio di un gallo
come la resina di una morente stella
come la mosca a mezzanotte
come un telegramma nella foresta
come una Cina di novembrine nevi
come il sorriso della rugiada a mezzogiorno
cadevo come cade la Terra nel cosmo
Celebro il vostro leggiadro volo, ali della notte
chi non vi resiste
ha violacee facce
occhi iniettati di sangue come la foglia di una vigna
terribili cicatrici sulla fronte
unghie che perforano il palmo
capelli ritti
lingua di legno e braccia di pietra
concedimi di mettermi nelle tue mani
come gli inebriati
come i feriti dal bisturi
come gli occhi stralunati di sonno
come il grembo di una donna coperto di sperma bollente
come le mani che impugnano un pensiero
alla deriva, come le nubi, sopra questa terra irragionevole
*
Addio con fazzoletto
Parto oggi, vorrei piangere –
giusto il tempo di sventagliare un fazzoletto;
se il mondo fosse un manifesto sgargiante
lo strapperei, lo getterei alle acque.
Come un pesce, questa valle di lacrime mi assorbe,
la sua immagine, trenta volte spezzata e ricomposta;
ora lasciami, allodola, il tuo errore è glorioso:
se dovessi cantare, lo farei a singhiozzi.
Il fazzoletto sventola, la città si apre –
grottesca, all’apertura del tunnel, si spacca;
peccato che la morte non sia un nero viaggio
che termina, al risveglio, in qualche albergo sconosciuto.
Tu, che ho amato come Andrea del Sarto,
muta un fazzoletto negli occhi di belle donne;
e ricordati che la morte è soltanto un salto –
non farlo ora – buona fortuna, astore! – è ora di volare!
*
Lo sciame
Sul volto di una dormiente
si posa lo sciame:
non muta posa
è perfettamente calmo
È immobile, in trance,
con la larva sulla fronte
che le trasforma il viso
in una specie di cuscino
Una coltre sul cranio
il sonno la avvinghia
screziato dal ruggito di una diga
dai riflessi del crepuscolo
La massa di larve si contorce
diventa rigida e rugosa;
il loro colore, mentre
il sole va a tramontare,
rende dorata quella bellezza:
quando la luce crolla
è chiaro che assomigli
a un nero velo
su una giovane ragazza
morta sul colpo
mentre tornava a casa dalla chiesa:
è una maschera di carnevale.