Quando Borges stroncava Charlie Chaplin
Letterature
Le fotografie, è ovvio, non sono argomenti rivolti alla ragione; sono semplici affermazioni rivolte all’occhio. Eppure, l’etica della loro semplicità potrebbe venirci in soccorso. Vediamo dunque se quando osserviamo le stesse fotografie proviamo le stesse sensazioni.
Ecco, sul tavolo ci sono alcune immagini. Il governo spagnolo le invia con la protervia dei pazienti circa due volte la settimana. Non sono fotografie piacevoli da guardare. Per la maggior parte, sono fotografie di cadaveri. La collezione di questa mattina contiene la fotografia di quello che parrebbe il corpo di un uomo, o di una donna; è talmente mutilato, in effetti, che potrebbe essere il corpo di una bestia, di un maiale. Ma quelli, è certo, sono bambini morti, e quella è indubbiamente la sezione di una casa. Una bomba ne ha squarciato un lato; c’è ancora la gabbia per i canarini appesa a ciò che resta di un soggiorno; il resto della casa non è che un mucchio di frantumi, sospesi, all’aria.
Queste fotografie non sono un argomento; raffigurano la cruda cronaca dei fatti, s’imprimono nell’occhio. Ma l’occhio è connesso al cervello; il cervello al sistema nervoso. Il sistema nervoso invia messaggi in un lampo, lega i ricordi passati alle emozioni presenti. Quando noi donne guardiamo quelle fotografie, una specie di continuità ci accomuna; per quanto diverse siano l’educazione e le tradizioni, i retaggi, le sensazioni sono le stesse, e sono violente. Voi, signori, dite “orrore e disgusto”. Anche noi diciamo orrore e disgusto. Le medesimo parole sbocciano dalle nostre labbra. La guerra, dite, è abominio; una barbarie; la guerra deve essere fermata ad ogni costo. Facciamo eco alle vostre parole. La guerra è abominio, è barbarie, deve essere fermata. Per un attimo, stiamo guardando la stessa immagine, vediamo gli stessi cadaveri, le stesse case devastate.
Virginia Woolf
*il testo è tratto da: Three Guineas, 1938
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È cominciato tutto con la morte di Michel Foucault. Il giorno dopo la sua morte, la televisione lo mostrava mentre teneva una conferenza al Collège de France. Tutto ciò che si udiva, in sostanza, era un crepitio in sottofondo. La sua voce era quella, ma come soffocata dalla voce del commentatore che diceva che quella era la voce di Michel Foucault che teneva una delle sue lezioni al Collège de France. Quando è morto Orson Welles è accaduta la stessa cosa. Una voce molto chiara dichiarava che quella voce impercettibile, che a malapena riuscivi a sentire, era di Orson Welles, deceduto da poco.
È diventata una regola: l’immagine sonora del celebre defunto sommersa da quella del giornalista che ti dice ciò che stai ascoltando e che quella è la voce di quel tizio che è appena morto.
In Francia non c’è modo di allertare i giornalisti televisivi per dire loro che non dovrebbero passare così in fretta dal sorriso lugubre indossato per discettare di ostaggi al ghigno adottato per le previsioni del tempo. Non va bene. Esistono altri modi. Ad esempio, fare delle pause, senza l’obbligo di abitare un’espressione. Non dovrebbero porsi come se ogni notizia fosse straordinaria. Non dovrebbero sembrare sempre allegri o allarmati, a comando. Bisognerebbe modificare l’espressione del volto quando si annuncia un terremoto, si parla di un attentato in Libano, di un incidente in autobus, della morte di una celebrità. Ma hai così tanta fretta di ridere di ciò di cui ridono tutti, che anche un incidente in autobus ti mette in crisi. E se sei in crisi, sono guai. Inizi a penetrare nell’insonnia. Non sai più cosa stai dicendo. I notiziari televisivi sono una sovversione, dall’inizio alla fine, e non puoi che precipitare in un saggio esaurimento nervoso.
Marguerite Duras
*il testo è tratto da: La vie matérielle, 1987