
In difesa delle donne. Su “Trofeo”, il romanzo di Emanuela Cocco
Libri
Davide Grittani
Ci sono dei libri di Geminello Alvi che sono come grandi mosaici bizantini, in cui ogni frase (o paragrafo) è una gemma, una tessera, una scheggia di luce che allude e partecipa a un’unica grande immagine ricca di sterminati particolari. Dove anche una nube d’incenso vale mille sermoni, e la vita umana si rivela come uno straordinario “comporsi di pause” e silenzi. Di grandi mosaici orientali e occidentali, bizantini e latini è fatta una parte della produzione di Geminello Alvi, scrittore ed economista anconetano che nelle sue opere ha saputo affrontare la crisi e l’affermazione del secolo americano, la necessità e la grandezza degli apocalittici, i caratteri più profondi e segreti degli italiani, i volti più misteriosi ed affascinanti dei grandi eccentrici del Novecento e non solo. Alcuni dei temi che Alvi ha affrontato in splendidi diari di viaggi spirituali che di questa tendenza sono i maggiori esempi, come “Ai padri perdono” e “La Confederazione italiana. Diario di vita tripartita”, e la cui ultima grande prova è un’opera anomala e “eccentrica” come “Io Virgilio”(Marsilio, 2023). Un romanzo che si presenta come una autobiografia spirituale e mentale del poeta latino Publio Virgilio Marone, componendo più che un racconto immaginario, un racconto immaginale. Un itinerario che non viene descritto seguendo i canoni della mera fiction storica, ma con una configurazione non “d’invenzione”, bensì “d’imitazione”. Nella “Premessa” in apertura al libro infatti l’autore specifica che:
“Questo è libro d’imitazione, non d’invenzione. Pascoli, i precisi commenti di Heinze e di Norden, gli studi di Boyancé, le traduzioni di Albini e d’altri eruditi gli hanno molto giovato. Tuttavia quanto composto, malgrado accurata imitazione di versi e intenti, vive in altrove non realista: in quel libero mondo delle immagini dove l’intimo respiro dei versi di Virgilio accende di calma il cuore. Pertanto chi notasse imitazione negli eventi narrati la giudichi premeditata ma pervasa dalla certezza immaginale che l’esistenza riguardi il genere fantastico, mai quello realista”.
Un testo che infatti mischia alla vita interiore e pubblica dell’autore dell’Eneide il fantastico e il meraviglioso, “fino all’inevitabile assurdo d’un cielo fatto d’altri” che “è infantile atto di zelo, dal quale per identificazione ottenere l’enigma di una vita, e la direzione della sua pietà”. Elementi che esplodono nel finale del romanzo d’imitazione di Alvi in cui i personaggi che hanno definito e infestato la vita di Virgilio si fondono e confondono in un miracoloso caleidoscopio di voci, di anime, di sensibilità, di significati, che crea una rapsodia polifonica in cui i tanti personaggi di “Io Virgilio”, si intrecciano come a formare un coro fatto di destino. Un finale che sembra, ma solo ad una prima lettura, una sintesi tra il teatro magico del “Lupo della steppa” di Herman Hesse e il finale di Neon Genesis Evangelion.
Concludendo l’immagine di un romanzo che può essere paragonato senza problemi, come ha affermato Camillo Langone in una sua recensione su Il Giornale, alle “Memorie di Adriano” della Yourcenar, oppure, al “Dio è nato in esilio” di Horia, ma che nonostante la sua premessa, vive di una vita propria, di una luce propria rispetto ad essi.
“Io Virgilio” è infatti animato da una lingua classica, pietrificata, di una idea di scrittura quasi geroglifica e misterica, in cui tra meditazioni e memorie, riecheggiano ritmi e canoni antichi che sanno di metrica, di sinassario, di stile formulare, in cui a volte l’autore sembra scomparire e le parole paiono levigate dal tempo, ma in cui però si riscontra un guizzo ed una sensibilità personalissima, condensata in piccole perle. L’opera di Alvi, come il poema di Enea non deve, infatti, essere letta, ma recitata, auscultata e assaporata per parti, soppesando ogni sua parola, come in una meditazione dal fascino antico.
“Io Virgilio” è, in questo senso, un esercizio di calma, di meditazione, di preparazione alla morte e al sacro, in cui la prosa poetica cede il passo al diario intimo, l’autobiografia all’inventario immaginale di ciò che rimane di numinoso in un tempo in cui il rito sembra estinto. Un romanzo che racconta la storia dell’anima di un grande autore “dedicato alla morte”, sullo sfondo di un mondo classico consumato dalle sue conquiste, orfano della propria pietà e sacralità e che cerca di reincantarsi, di risvegliarsi. Un incanto, uno spirito sacro che Virgilio cerca di evocare, sullo sfondo di una Roma che fa scontare la sua malvagità ai suoi abitanti e che esita tra pagine dense di mistero e di lontananze, dove:
“La plebe pretende la pace, come l’aristocrazia senatoria, e però vuole le prebende che implicano il latifondo, i litigi, e le guerre. Nessuno a Roma vuole sottostare al destino che Giove decide per ognuno. E che conta allora che io scriva il poema della religione di Enea, se nessuno rispetterà le leggi del regno di Giove?”.
Un mondo che ricorda tanto il nostro, nella sua abulia e nel suo cinismo, ma che non si rinchiude in semplice metafora del presente, ma anzi si fa fantastico scenario di un cammino plurimo ed atemporale.
L’opera di Alvi, infatti, non vuole essere affatto una allegoria che dietro la maschera di Virgilio cela quella del suo autore e dietro la Roma di Augusto quella contemporanea, ma si presenta come un meraviglioso rito letterario, in cui fantastico e classico, memoria e nostalgia, critica e riflessione si mischiano in splendidi innesti di parole, che si intrecciano come fili di un grande tappeto simbolico, in cui si nascondono non drammi interiori o dubbi personali, ma l’ineffabile, l’invisibile, l’inesprimibile. Gli eroi, i riti, i ritmi di un mondo eterno, l’Eneide, il mistero, i racconti delle origini, le Bucoliche, vengono ripresi, combinati e innestati tra di loro in un testo pullulante di iperbati ed anastrofi, di una lingua pura e stregata, che ne rinnova l’incanto senza svelarne il mistero, ed anzi lo risveglia. In questo testo miti, simboli e lessemi, come nella canzone di Jannacci, vengono rivelati per “vedere di nascosto l’effetto che fa”. In un soliloquio a più voci in cui il protagonista e i personaggi del romanzo si confrontano col vuoto, con l’assenza, con la solitudine, con la voce effimera della gloria e il silenzio devastante dell’oblio.
Volumnia, Alessi, Roma, Mecenate, Giove si caricano nelle pagine di Alvi di una nuova sottile solenne fatalità, e di un fascino fuori dal tempo. Le parole, i luoghi, i nomi delle cose sembrano, infatti, tornati indietro da mondi lontanissimi, come se destati da un interminabile sonno, grazie alla forza delle parole. Parole che vengono evocate non per fare ritrovare o per esprimere un sentimento, bensì per illuminare, elevare, annientare. In Alvi, quindi, si ritrova il primato della “Parola” sull’espressione, della voce, del canto, dell’essere, sul sentimentalismo, sul piagnisteo, sulla rappresentazione. Una visione che Alvi aveva già espresso in quel libro fatidico che è “Ai padri perdono”, dove esprime una definizione dello stile sovraumana, classica e misterica, per cui: ” lo scrivere non è espressione, tirar fuori qualcosa da noi, ma fede nella bellezza delle parole, fuori di noi, dai nostri vizi o pregi”.
In “Io Virgilio” scopriamo un testo numinoso che genera una rapsodia di ricordi e sogni che riaffiorano apparentemente sconnessi, tra le pagine di Alvi, in un atemporale diario di viaggio dell’anima di Virgilio nel mondo e oltre il mondo, portando il lettore altrove, in un grande labirinto, ove l’enigma della vita può essere contemplato. Mostrando tramite la voce Virgilio la Parola condensarsi in pochi attimi estremamente intensi, in cui il mistero può ancora nascondersi e anche il confine tra Alvi e le fonti della sua opera sembra dissolversi.
Francesco Subiaco
*In copertina: Simon Vouet, “Enea e il padre”, 1635 ca.