01 Marzo 2023

Teste tagliate in una cassa di brandy. Altro che Roald Dahl: come farebbero a “correggere” Villalobos?

Il romanzo Il bambino che collezionava parole (Einaudi, 2012) di Juan Pablo Villalobos è “sordido, nefasto, lindo, patetico e fulminante”. Questi cinque aggettivi sono le parole difficili che il protagonista narrante Tochtli, aka Usagi, utilizza per orientarsi nel suo mondo-gabbia-dorata, narcotrafficata, perché le parole danno le coordinate, ci indicano dove siamo, chi stiamo diventando – o ci stanno facendo diventare. Nominare è rendere familiare, normalizzare: il linguaggio formula l’etica che ci si autoimprime parlandolo.

Picasso ci ha messo una vita per imparare a dipingere come un bambino. Villalobos, messicano del ’73, nel 2010 pubblica il romanzo dove ha scritto di un bambino che dice io nella storia, un bambino che non disegna, che tutt’al più gioca alla play station un’ora al giorno, che conosce tredici o quattordici o quindici persone in tutto: sul numero è incerto perché non saprebbe affermare chi di quelle tredici o quattordici o quindici persone non sia stata uccisa dall’ultima volta che l’ha vista, magari data in pasto alle tigri in giardino. “Ma i morti non contano, perché i morti non sono persone, i morti sono cadaveri”. Il bambino di Villalobos va molto sul pratico, sul pelo dello stomaco gl’è dovuto crescere un bel batuffolo appena decapitato il cordone, anzi è lui stesso tutto un batuffolo di pelo, forse per questo preferisce essere calvo, per questo e perché i capelli sono materia morta: se spari ai capelli non muori mentre se spari al cuore sì, quindi via i capelli e il cuore resti pure al suo posto, ma come fosse un bersaglio mobile, niente di più.

È un bambino realista, come a dire un adulto fantasioso o non rassegnato allo stato nefasto delle cose: se non una contraddizione in termini quanto meno una merla bianca, impallinata anzitempo. “Me l’ha detto Yolcaut. La realtà è così e basta”.

Tochtli aka Usagi colleziona cappelli, desidera un ippopotamo nano della Liberia e “Tutte le sere, prima di dormire, leggo il dizionario”, il dizionario è la sua cartina del mondo. Che stia covando una vendetta a sua insaputa? Nel mondo criminale retto sul non-detto il bambino si dota di parole, creando un sodalizio con il messicano puro cioè antiamericano per eccellenza Maratzin: “Maratzin mi sta più o meno sempre simpatico. Mi sta antipatico solo quando diventa rigoroso e vuole seguire il piano di studi rigorosamente”.

Maratzin è il personaggio più sordido della storia: guadagnava milioni di pesos ‘inventando propagande di shampoo e bevande’ per la tv ma abbandonò gli affari sentendosi uno scrittore mancato, dunque un educatore privato per ripiego. “Qui comincia la parte sordida: che qualcuno guadagni milioni di pesos e sia triste perché non è uno scrittore”. Tochtli aka Usagi cresce tra due sfere di influenza: da una parte l’uomo di parole, un istitutore frustrato e ideologizzato, perciò scrittore fallito, e dall’altra il padre che è l’uomo del silenzio, di potere: perché il potere non si dice, si fa, anzi più lo si commette meno lo si può esprimere, rivelare.

“Youlcaut dice questo, che i colti sanno molte cose dei libri, ma che della vita non sanno niente. Anche noi viviamo nel bel mezzo del nulla, ma non lo facciamo per ispirarci. Lo facciamo per proteggerci”.

Tochtli aka Usagi è figlio di Yolcaut il Re ed è per suo padre il Re che Tochtli aka Usagi vuole diventare un uomo che non piange anche se non ha una madre, un vero uomo messicano quindi non un charro che chiude le sue peripezie suonando una canzone all’amata affacciata alla finestra ma un samurai: “Noi samurai nei film combattiamo per l’onore e per la fedeltà. Preferiamo la morte piuttosto che essere dei finocchi”. Pensa al coccolone che verrebbe agli editori della Puffin Books se dovessero rieditare Villalobos e il suo Piccolo Principe messicano, come fossero alle prese con un secondo Roald Dahl: alla fine sopravviverebbe giusto il titolo in copertina e la breve nota biografica dello scrittore nell’aletta al fronte opposto. Immaginali a dover rieditare la frase: “Noi messicani non usiamo ceste per le teste tagliate. Noi riponiamo le teste tagliate in una cassa di brandy invecchiato”. Farebbero prima a scrivere un libro loro attribuendolo poi a Villalobos. In pratica quello che hanno fatto con Dahl, ma con il consenso degli eredi, eh. A questo punto ci dovrebbe essere il nome degli eredi sul libro, non quello di Roald Dahl, così da lasciare la libertà a chi legge di decidere se voler leggere l’originale o la versione riscritta dagli scorretti correttori politicamente corretti, esteticamente demenziali, criminali.

Si dirà: ma Villalobos non fa mica libri per l’infanzia! La sua idea di bambino non è affatto rassicurante quindi no, non va bene. Meglio i bambini immaginati da adulti più rassicuranti, perché alla fine a dover essere rassicurati mica sono i bambini, sono gli adulti terrorizzati neanche tanto dai bambini adulti raccontati dagli adulti quando dai bambini in sé, che nel loro non essere adulti non sono mica per questo innocui. I bambini sono più spaventosi degli adulti sempre, perché dagli adulti ti aspetti di tutto ma in sostanza c’è poco da aspettarsi da loro se non il solito peggio. Dai bambini invece? Loro sì che possono farti del male perché possono farti sia del male sia del bene ma in un modo del tutto nuovo, a cui sei impreparato. Come ci si prepara al bambino che osservando il mondo a cui l’hai introdotto senza chiedere alcun consenso te lo fa notare col suo spirito flemmatico, impietoso, privo di eufemismi, di anestesie inestetiche? Si è sempre impreparati alle parole del bambino che non contengono giudizio ma soltanto descrizione, riuscendo perciò assai più efficaci nella critica, nel metterti spalle al muro di fronte alla spiegazione che non gli sai dare perché mai ti sei preoccupato di darla a te stesso. Come glielo spieghi che “Noi messicani non usiamo ceste per le teste tagliate. Noi riponiamo le teste tagliate in una cassa di brandy invecchiato”?

Nei libri per l’infanzia al massimo ci sono orfani, orchi, nani, veleni, sicari, matrigne da incubo, bambini abbandonati nei boschi, burattini impiccati ai rami degl’alberi, certo non teste tagliate riposte nella cassa del brandy, ovvero: i libri per ragazzi non racconteranno mai le storie dei ragazzi messicani o napoletani o norvegesi andati al campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista sull’isola di Utøya. Non si vogliono più scrivere libri ma galatei, istruzioni spacciate per narrazioni che vogliono privare chi le legge della libertà di farsene un’idea. Le idee giuste, consentite dalla sensibilità commerciale del mercato editoriale del momento, sono messe per iscritto e vanno seguite alla lettera. Alla Puffin Books dovrebbero assumere Maratzin, un uomo talmente convinto delle sue idee da poter ammettere possano esistere, cioè essere pubblicate, soltanto le proprie: un uomo patetico, ecco. Dire solo le cose consentite è solo un altro modo per starsene zitti, per restare muti e ricevere le carezze sulla testa da parte de Re narcos con “le sue dita piene di anelli d’oro e di diamanti.

“Io conosco molti muti, tre. A volte, quando dico loro qualcosa, sembra che vogliano parlare e aprono la bocca. Ma poi restano zitti. I muti sono misteriosi ed enigmatici. Il fatto è che con il silenzio non si possono dare spiegazioni”.

Tochtli aka Usagi alle prese con le sue prime consapevolezze mi ricorda la voce narrante di Aldo Busi, inventore con Barbino di un sé stesso bambino, nell’incipit lindo e fulminante de Le consapevolezze ultime (Einaudi, 2018):

“Una delle ultime consapevolezze di cui ho fatto bottino, per magro che sia, è che da ragazzo ero affascinato dagli uomini che non parlano perché avevano tutti la pelle cerulea e luminescente e lo sguardo intenso di chi vuole far capire qualcosa senza dire cosa illudendoti, e secondo me illudendosi, che loro lo sapevano, cosa”.

Chi resta in silenzio non lo fa perché ha fascino, molto più probabile abbia paura, che resti in silenzio per omertà, vigliacchieria, se non per calcolo, o per finzione: la finzione del potere. Il silenzio dell’uomo che ci fonda sopra il proprio potere è nefasto, oltre che patetico. Il potere del bambino lindo finché parla, che mette a nudo l’imperatore rovesciandolo dal trono senza ci sia giocoforza bisogna di decapitarlo, è il più fulminante che ci sia. Ed è quello che gli consente di crescere, di diventare adulto e da adulto di scrivere come un bambino vero.

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